giovedì 29 settembre 2011

Racconti brevissimi

Brevia.

Pedicure

Tagliò l’unghia all’alluce, poi al dito successivo, poi all’altro e all’altro.

Aveva perso il dito piccolo in un incidente di bicicletta. Tagliò l’unghia anche a quello.



Brindisi

Aveva stappato un Sassicaia di annata 2006. Versò il vino nei due bicchieri.

Brindò. I cristalli cincinnarono allegramente. Bevve, prima dalla destra e poi dalla sinistra.



La spesa

Comprò il pane, il vino, le uova. Comprò la carne, la frutta e il dolce.

Comprò i soldi. E pagò.



La residenza estiva

Era una casa piccola e ben messa. Sulla riva del lago. Era proprio a misura d’uomo.

Non ci andava mai. Lei era una donna.



L’angioletto

Aveva gli occhi chiusi e la bocca in atto di cantare. Barocco e rotondetto in blu e oro.

Quando accesero la candela che aveva tra le mani, scomparve. Era di cera.



Il nonno Angelo

Li guardava dalla scrivania nel dagherrotipo, ben messo. Seduto in giacca e gilet, il pugno affondava nel cassone del grano. Lo incorniciarono ingrandito e lo appesero al muro. Nel salotto. Non li guardò più.



Abat jour

Dalla ghiera mancante di lampadina raccontava di quanti si erano seduti a quella scrivania. Storie. Le misero la lampadina e la illuminarono. Tacque per sempre.



Specchio, mio specchio

Quel giorno la regina lo aveva interrogato centodue volte. Lo interrogò per la centotreesima. E lo specchio rispose: “Vaffanculo”.



La passeggiata

Passeggiava spruzzando l’acqua davanti a sé in grandi pozzanghere. Aveva i piedi palmati.



La foto di famiglia

Nella foto incorniciata in color oro tutti i cugini stanno abbracciati e sorridono. Sono eterni e sanno che l’eternità è inutile.



La libertà

Quando si rese conto che è divertente essere responsabili della propria vita, si sentì finalmente un uomo libero. Ma era troppo tardi: stava morendo.



La direzione giusta

Poiché sbagliava sempre strada, cadeva spesso in ginocchio. Dalle rotule spaccate spuntarono due timoni. Lei li tenne uno con la mano destra e uno con la mano sinistra. Morì in piedi, ma sulla strada giusta.




Il superamento dei limiti

Aveva lavorato a lungo per il superamento dei propri limiti. Quando riuscì a volare alto, si perse nello spazio.

martedì 6 settembre 2011

Corto un racconto

Vi propongo un mio cortissimo pubblicato su Pence-nez

Alla finestra

Alla finestra guardò il tramonto sulla città. Era stata una giornata senza eventi, ma felice. Aveva lo stato d'animo giusto. Scavalcò il davanzale: abitava al 32° piano.

Luciana Gravina poeta a Estate Romana Isola Tiberina

La presentazione del nuovo volume di poesia di Luciana Gravina "L'infinito presente" è stata inserita tra gli eventi organizzati da "Vivere con filosofia" all'Isola Tiberina per Estate Romana 2011.
Il libro è stato presentato il 1 settembre con una relazione di Carlo Livia e letture di Debora Petrocelli.
L'organizzazione è di AltrEdizioni Casa Editrice


Io so ora di un qui ed ora, saziato di consenso, scatenato

sul limite sfrangiato di ogni profilo possible, ammesso al

ritocco, jamais di negazione perché è qui, anche qui che la

vita avviene e si addimora. Io so di un qui ed ora. E mi

addivengo vieppiù vieppiù in allusione di limite e misura.

Io ora so. E mi resetto quotidie in abitudine di vita

nova, direi, anche per direzione che armonica e aperta mi

convoglia di visione per hic et nuc. Ora e qui.

martedì 9 agosto 2011

"Burraco d'amore", un mio racconto

Il racconto che propongo è stato pubblicato in Logoi gunaikos, Pensiero di donna, antologia di racconti al femminile, uscita per Edizioni Melograna nel 2008

Burraco d’amore

A quest’ora del tramonto, una volta al mese, ci disponiamo alla partita di burraco.

E’ una partita a due, cioè con due morti, e abbiamo dovuto modificare alcune regole del gioco per renderla praticabile. Inoltre ogni volta che mi accingo alla partita rinserro per bene tutte le porte del mio labirinto: devo essere assolutamente tranquilla, non posso rischiare nemmeno il refolo di un ricordo, l’ingiuria di una offesa, uno sbavo di disamore.

Oggi il tavolo è stato disposto sotto il gazebo e me ne sto tranquilla mentre lei dispone le ultime cose di rito: le carte, le bibite, le sigarette, le sedie, l’una di fronte all’altra (e come potrebbe essere altrimenti, se non di fronte), mi guardo la distesa ampia del prato, è di un bel verde intenso, finalmente la dicontra è attecchita bene, l’ho osservata nei mesi scorsi nella sua guerra contro il loglietto e le altre erbe invasive, finalmente ha avuto la meglio, che guerra, il giardiniere imperturbabile la taglia bassa, ma ugualmente le piccole foglie tonde residue esibiscono l’aria arrogante di chi ce l’ha fatta, anche la nostra è una guerra che si trascina ormai stanca sulle manches mensili di questa partita a burraco e con alterne vicende segnate dai sussulti (mensili appunto) di un successo da scaramuccia, vittorie di Pirro, inevitabili, quanto necessarie, data la situazione.

Spezzare il mazzo per decidere la cartara è il rito iniziale, questa volta non mi tocca, resto rilassata fino a quando non organizzo tra le dita le carte per colore, almeno così mi sembra più opportuno: mi tocca scartare e chiedere carta, bisogna che mi impegni, anche se so che non si tratta soltanto di astuzia e di attenzione, ci vuole anche la carta, l’anno scorso ho perso per quattro volte di seguito, cosicché mi rimettevo in macchina come Giovanna d’Arco verso il rogo, a testa alta e fingendo di niente, e anche fischiettando “Dove sta Zazà”, ma tant’è, con la botta dentro lo stomaco, fingendo di non vedere la mia antagonista che saltellava col culo sulle ginocchia e le sue gambe a botticella, mentre andava a comunicare la sua vittoria al diretto interessato.

Il quale se ne sta affondato in una poltrona a leggere perché la cosa avviene di sabato e lui non è fuori per lavoro. A volte maneggia delicatamente e ammira la sua preziosa collezione di preziosissimi (appunto) francobolli. Oggi legge.

Ho voglia di vincere, di stravincere, cosicché potrei tenermi il sette e l’otto di cuori, e invece li scarto: a volte il destino va provocato, anzi mai rassegnarsi. Eppure provocato o no, a volte si impunta e non c’è verso di spostarlo, sarà per questo che la mia richiesta di carta porta come ricompensa karmica un due e un cinque, sballando completamente l’ipotesi di una scala a colore, mai sfidare il destino, cosicché torna l’interrogativo se siamo noi gli artefici della nostra sorte (unusquisque faber?) oppure la sorte sortisce a suo piacimento (ma chi la comanda?, possibile che Dio abbia la pazienza di controllarci a uno a uno?), cosicché potrebbe avere ragione Niccolò (Machiavelli, ovviamente) che propone una tuch (tiuke) indipendente dalla volontà, ma che l’intelligenza può agire e aggirare a proprio vantaggio.

Bel colpo a favore dell’uomo, forse però il Nostro non pensava anche alla donna che, quando, come suol dirsi in soldoni, s’innamora, liquefa la propria intelligenza e s’infila in certi tunnel (come questo ad esempio) dai quali poi non è capace di uscire. E sì che qualche scrittrice aveva dato il segnale lanciando nelle librerie avvisi come Donne che amano troppo.

Cosicché, visto che le donne sono (ed è inconfutabile) da sempre intelligenti e anche furbe, vien fatto di concepire un legittimo dubbio e cioè se le donne amano troppo oppure si ostinano a rincorre chi o ciò che sfugge, e nel nostro caso, se amiamo veramente il “di cui sopra” cioè colui che sta leggendo sprofondato nella sua poltrona, o se rincorriamo il gusto delle vincite e delle rivincite. Mistero.

A troppi dubbi non ho dato risposte precise, cosicché mi viene l’ennesimo dubbio che la mia pigrizia mi faccia parcheggiare permanentemente in questa dolente ambiguità: siamo noi gli artefici del nostro destino o il destino va per conto suo ed è inoppugnabile? Le donne amano veramente troppo o scambiano per amore il gusto della ripicca?

Questa ultima ipotesi sarei disposta ad affibbiarla alla mia dirimpettaia, la quale intanto ha chiuso la manche a suo vantaggio e mi passa il mazzo per la mia funzione di cartara, visibilmente soddisfatta e che le piaccia vincere, al di là della posta in gioco, si vede lontano un miglio e troppo ci gode a decifrare la mia malcelata umiliazione.

Eppure ha sperimentato sulla sua pelle che io ho il colpo di coda dello scorpione e che la stronco quando meno se l’aspetta, perché mi studio sempre bene l’avversario prima di fargli vedere dov’è il mio fianco fragile e non mi si venga a dire che è l’atteggiamento degli animali deboli perché così fa anche il leone quando finge di sonnecchiare e l’altro gli si accosta per vedere, appunto se dorme, e allora, zac, la zampata mortale.

O forse mi illudo soltanto di essere vincente, dal momento che non sono riuscita a portarle via quest’uomo e cioè il “di cui sopra” nella poltrona, che poi è suo marito, sebbene io fossi forte di una bellezza più evidente e bene insediata nell’aureola dell’amante prestigiosa e lei invece offuscata dall’aura banale e quotidiana che hanno tutte le mogli del mondo, che però a quanto pare funziona di più.

O forse non ho voluto radicalizzare il mio intervento per pigrizia o per paura di infilarmi in una banale situazione paraconiugale, ivi compresi scenate, ricatti psicologici e sensi di colpa.

Cosicché si è profilato l’ennesimo dubbio: non ce l’ho fatta perché la mia rivale si è difesa molto bene, o non ho voluto impegnarmi?

E quando mai darò una risposta.

Devo ammettere che a primo giro la carta mi viene sempre, la qualcosa mi impedisce di nascondermi dietro il dito di una abituale sfiga: buone probabili ipotesi di chiusura a tris, a scala, a colore, ma poi spesso tutto si deforma e sfugge, ma ora, in questa seconda manche non è così: la carta resiste e alla terza sto per chiudere a colore. Un successo molto veloce.

Cosicché comincio a rimontare, mentre la sera cala con la sua punta di umido e la sua ombra tenera che è l’unica cosa ragionevole del momento; forse se avessi un carattere meno diretto, un minimo di ipocrisia a volte non guasta, ma io, se proprio devo parlare, mi ostino a dire ciò che penso, d’altra parte, se non ci si può permettere il lusso della sincerità con la persona cosiddetta amata, con chi, se no? E’ questa la vera intimità: poter mettere a nudo l’anima davanti all’altro. Il corpo c’entra nella misura in cui consente la nudità della coscienza. L’intimità non è mettersi nudi in un letto e fare sesso o anche fare l’amore. In questo senso la sincerità è un privilegio e la verità una pretesa. Un diritto.

Ho sempre pensato questo e ho spaccato sempre tutto quando non c’erano queste condizioni.

E invece un po’ di fictio aiuta, altrimenti la mia dirimpettaia non sarebbe ancora lì inossidabile e non intaccata da tutta la serie delle amanti di cui io sono l’ultima, a giocarselo a carte.

Il “di cui sopra”, naturalmente. Forse neanche lo sa cosa si porta dentro, non se lo è mai chiesto: a furia di stamparsi il sorriso sulla chiostra dei denti e di dire va bene, va tutto bene, crede davvero di essere felice. Contenta lei…..

Abbiamo optato per il burraco, perché non avevo grandi scelte. Non sono una giocatrice, ai tavoli da gioco delle signore, e anche dei signori, mi annoio a morte. L’immobilità mi fa fa diventare una belva feroce, nel senso che mi sento in trappola.

Inevitabilmente il mio pensiero svicola per le sue strade segrete e così mi distraggo, e mollo il gioco.

Coltivo solo qualche velleità per gli scacchi: mi sembra che muovano di più il cervello, in un giro più ampio che è come dovrebbe essere la vita: ogni mossa ne definisce un’altra, come sicuramente anche nel gioco a carte, ma sulla scacchiera è tutto più cogente, più rigoroso, più uguale alla vita vissuta pensandola. Quando mi metto davanti allo schieramento degli scacchi di fronte al mio avversario concepisco il desiderio di vincere, non soltanto, ma di farlo a pezzi, di spaccarlo.

Sento l’odore primordiale del sangue, voglio vincere, prevalere, vivere. Perché anche nella vita sembra che niente accada per caso.

Basterebbe leggere i segnali nella piccole cose, negli accadimenti più ovvii, in un refolo di vento, in una porta che sbatte, in uno spiraglio di sole, in un treno che perdi perché ti sfila davanti agli occhi, in un parcheggio fortunoso.

Bisognerebbe diventare semiologi della quotidianità e analizzare tutto e rispondere con le proprie azioni alla rete di segnali che una forza intoccabile e onnipresente tesse indipendentemente dalla nostra volontà. Ma chi è che fa le mosse che noi dovremmo decifrare e a cui dovremmo rispondere? Forse la vita consiste nell’interazione tra questi segnali e la nostre azioni, una sfida costante, una stanchezza permanente per tenere testa a questa dispettosa entità che semina il cammino degli uomini di buche e di trappole.

Non ne sono sicura, anche perché io sento di dover rendere conto ad un’altra convinzione che continuamente metto in discussione, ma che non riesco a eliminare dalla mia testa, anche perché non voglio, e che è quella per cui ogni uomo è uno strumento di Dio nel piano di salvezza dell’umanità.

Ecco, l’ho detto.

Allora mi chiedo dove si colloca questa nostra sfida serotina e mensile nel grande piano di salvezza dell’umanità.

Sinceramente sto annaspando.

E almeno io ce l’ho un Dio con cui prendermela, a cui chiedere ragione dell’inutilità del dolore, delle guerre, delle malattie, un Dio da ringraziare per l’utilità della morte; ma i buddisti che riportano tutto al sé, il bene e il male, tutto dentro di sé e si avvolgono nella loro vita come in una spirale, con chi se la prendono?

Forse hanno più pazienza di me, forse li aiuta credere che l’uomo abbia diritto alla felicità e che prima o poi la conquistano. Forse abbiamo un’idea diversa di felicità. A proposito: che cos’è la felicità? Pienezza di bene o assenza di male?

Sinceramente annaspo ancora.

La mia dirimpettaia, col suo naso plebeo, mi richiama alla realtà, mi sveglia da questo sogno-incubo ricorrente che non ha mai sfiorato la sua piccola mente di donna pratica e razionale di cui gli uomini hanno tanto bisogno e con cui, nella maggioranza dei casi, concludono la vita, portano a termine il pensionamento e di tanto in tanto si danno i pizzichi per capire se sono ancora vivi, dopo aver dismesso ogni velleità di vita e perfino i sogni. E’ così che me li immagino. O forse è questo il modo più saggio di rispondere agli intrighi di quella misteriosa forza che domina la vita: inquadrarsi in un sistema preconfezionato, di cui si vede il principio e la fine e dove tutto è prevedibile e scontato. Forse è una sfida anche quella: vivere dentro la banalità e l’ipocrisia quotidiane. Dà più certezze vivere per una sola verità sulla quale non c’è da fare neanche lo spreco del pensiero, della riflessione, perché hanno pensato e riflettuto gli altri prima di noi, i pochi che ci hanno preconfezionato i modelli.

Non so se vivere ai confini di tante verità possibili in attesa che tutto accada per fare poi le proprie mosse, non so davvero se è saggezza o stupidità.

Sono tentata di mettere sul tavolo innanzitutto la discussione di questi miei pensieri, di investire la mia dirimpettaia della responsabilità di una risposta. Mi sbatterebbe in faccia la sorpresa dei suoi piccoli occhi scuri e tondi, che sembrano ancora più piccoli, dopo che si è fatta il trucco permanente, nella speranza di acquistare più fascino. Mi piacerebbe vederla alla ricerca di un’idea nella sua piccola mente schermata, un’idea da cercare dietro la corazza dei suoi pensieri prefabbricati con i quali affronta la vita e con i quali si mantiene (bene, direi) in piedi. E’ un modo furbo di vivere, perché funziona. Una partita a scacchi con le mosse suggerite dal sistema.

E’ per questo che insiste a riportarmi alla realtà: mi vede persa nella mia apatia, nella mia rinuncia a fare la guerra di don Chisciotte (ma lui veramente aveva capito tutto?).

Non avevo scelta: per le mie scarse conoscenze ludiche o il burraco o il bridge (che Dio ci scampi e liberi dal bridge, ogni volta che ci penso, come potete vedere, mi porto la mano alla fronte) oppure a scopa, che a dire il vero, mi era sembrato troppo allusivo, un po’ grossier, una caduta di stile. Questo mi è stato offerto ma avrei preferito, come si può immaginare, La partita a scacchi (“Paggio Fernando, perché mi guardi e non favelli’ “Guardo quegli occhi tuoi che son si’ belli”): che delicatezza di pensieri durante la partita che avesse una posta cosi romantica, e poi che certezze (domanda: “Che cosa guardi?”, risposta: “Guardo i tuoi occhi.”)

Ma non si può pretendere che tutti sappiano giocare a scacchi. Certo non mi sarei accontentata di mangiarmi pedoni e cavalli, ma mi sarebbe piaciuto esibire, a colpi di scacco al re e in questo caso alla regina, la mia superiorità di donna bella e intelligente (scusate la modestia), gliela avrei fatta vedere io la regina. E invece ogni mese sono inchiodata a questo burraco d’amore, che, amore a parte, mi suggerisce un inelegante e strafottente collegamento con un’ispirazione semantica di natura asinina, sebbene il burro spagnolo, l’asino, (da cui burraco, uguale, gioco da asini?) sia attualmente risarcito da un’interpretazione moderna di animale sensibile e intelligente, spagnolo che fosse o no.

Ma tant’è: è, appunto, la posta in gioco che vale.

Avevamo giocato al gatto e alla volpe per molti anni, anzi alla gatta e alla volpe, con ruoli intercambiabili: una volta gatta e una volta volpe, alternando furbizie a dolcezze, a seconda della strategia che ciascuna di noi riteneva di dover mettere in atto per far dispetto all’altra e registrare, nel comportamento del di cui sopra, cioè del colui in poltrona, piccole vittorie o brucianti umiliazioni: un appuntamento mancato, un ritardo a cena, un viaggio passato a litigare come se vi pesasse sopra il pensiero-seccia dell’altra che era rimasta a casa, e poi fiori per entrambe, equa produzione delle scopate, bacini, bacetti e gratificazioni di varia sorta, distribuite bene ad entrambe le parti.

Cosicché, a conti fatti, le file delle tacche delle vittorie e delle sconfitte, sulle quali si sarebbe potuto valutare un’eventuale vincitrice di una partita mai apertamente dichiarata, eppure accanitamente giocata, erano pari.

Lo decidemmo senza premeditazione, guardandoci finalmente negli occhi e prendendo il coraggio a quattro mani, essendo noi due donne con due mani per ciascuna.

Avremmo giocato una partita a carte ogni mese e, colei che avesse vinto, lo avrebbe tenuto nella sua casa more uxorio, per un mese appunto.

La cosa apparve di facile realizzazione: sarebbe bastata qualche correzione di tiro, due vestaglie da camera, raddoppio anche di pigiami e pullovers di cachemire, camicie, spazzolini da denti, saponette e profumi preferiti.

Ai libri avrebbe provveduto lui di volta in volta.

Ora siamo per l’ennesima volta lì, a giocare una partita che non volge al termine, perché intanto anche lei ha rimontato, e non sortisce in favore né dell’una, né dell’altra: sia pure con alterne vicende, la situazione è in stallo e non c’è verso di sbloccarla.

C’è una specie di divertimento del cosiddetto destino, una non bene identificata ironia della sorte di fronte alla quale ci sentiamo impotenti, pur mettendo le nostre mosse: il destino, la sorte, la fortuna, il karma, la tuch o che altro, sono rimasti immobili, ammirati del nostro coraggio, della nostra grande capacità di passione e hanno fermato la storia, (oppure stanno piegati in due per le risate davanti alla stupidità di due donne moderne e di pensiero avanzato?)

Così si è profilato l’ennesimo dubbio, che certamente non sarà neanche l’ultimo e a cui mi guardo bene dal dare un chiarimento: l’indecifrabile forza enne (vogliamo chiamarla Dio?) è ammirata del nostro coraggio o si sta schiantando dalle risate per la nostra stupidità.

Alla fine ci leviamo di scatto e simultaneamente, quasi per un tacito accordo sotterraneo, ineffabile, nel senso di non parlato, ci avviamo verso lo studio alla volta del “di cui sopra”.

Egli è là, dove l’abbiamo lasciato all’inizio del nostro racconto, affondato nella poltrona, con la testa quasi del tutto canuta morbidamente piegata su “Usi e costumi del popolo dei coleotteri”.

Solleva gli occhi azzurri verso di noi che gli spieghiamo la situazione e:

“Io che c’entro?”, chiede.

Anzi, dice.

"L'infinito presente", il mio ultimo libro di poesia all'Isola Tiberina

Il mio ultimo libro di poesia, L'infinito presente, edito da AltrEdizioni Casa Editrice, la cui parution data del marzo scorso, sarà presentato il giorno 1 settembre, all'isola Tiberina presso lo spazio di Vivere con Filosofia.
Relatori i proff. Elio Matassi e Carlo Livia.
Letture di Debora Petrocelli.


2l

Conscia, quia conscia sum, ora potrei, di elan, di

vita prossima al suo complesso farsi di pensiero e

di corpo e di profondo nucleo. Ora potrei

nell'infinito mio tempo decidere anche quando e

come andarmene, uscire dalla trappola, spaccarmi

in mille, di luci dico, spersa nell'universo come le

ceneri date ad un vento irrisolto. Perché infinito è

l'attimo se conscio di sé, perfetto se consapevole

avviene e si condensa in vita. Di me vera.


(da L'Infinito presente, pag 38)



"Cercando amore", di Livia Naccarato

Livia Naccarato, Cercando amore, Genesi, 2010


Questua d’amore e pratica del desiderio come valori universali.

Recensione di Luciana Gravina

Un compendio riepilogativo di tutta la propria produzione poetica, qual è questo volume, è sicuramente un’operazione coraggiosa e forse audace. Se è vero, come è vero, che la poesia coincide con la vita e ne è mera rappresentazione, questo libro esprime anche la volontà di fare il punto della propria vita.

Credo che sia questo il terreno su cui si gioca la provocazione a cui Livia Naccarato, poetessa contemporanea di tutto rispetto, ha inteso ricondurre la sua poesia, come in un processo di reindirizzamento verso la questua di amore come pratica del desiderio. (L’ho voluto tingere di rosso / il filo della mia vita / e non del rosso della violenza / ma di quello dell’amore. Da Il filo della vita, pagina 368)

Il titolo Cercando amore è quello della silloge del 1991, uscita per i tipi di La Sfera Celeste di Riccione, le cui liriche sono incentrate sull’amore inteso nella norma di interazione tra uomo e donna. Il topos che sottende i componimenti di quella silloge insiste sull’evidente rapporto tra desiderio e memoria. Se non avessimo i ricordi non avremmo storia e senza storia non sarebbe palesabile la nostra esistenza la quale, però, trova la sua spinta vitale nel reiterarsi costante del desiderio in quanto energia propulsiva verso il futuro. Desiderio e vita, dunque strettamente connessi in una matrice per cui trova legittimazione l’anelito che abbiamo già definito “questua d’amore”. La quale è destinata a essere inesausta ed in questa privazione dell’appagamento lievita la prima emozione di questa poesia.

Sicuramente si tratta di una poesia lirica che ha le sue ascendenze nella tradizione italiana, soprattutto novecentesca, ma che rielabora con eleganza anche suggestioni che alla poetessa giungono dalla lettura dei classici antichi. In “Non è amore”, per esempio, è presente, sia pure come antitesi, una sensazione dell’amore, non una definizione, tipica della concezione saffica della passione che scuote, squassa le membra. Non é amore, per Livia Naccarato, questo gioco oscuro di gesti / che improvviso ti scuote /come basso vento / su rada piana…………… non è amore / se resta senza ricordo (senza ricordi siamo nullità) se uno scatto di fantasia / non brucia l’essere / tutto avvampandolo…dove la dissoluzione dell’io si consuma nella dicotomia di non amore/amore, ma comunque è delineata in termini di drammatica violenza (scuote – brucia - avvampandolo). E nella stessa lirica il verso Non importa saperlo fa eco all’oraziano Scire nefas. Suggestioni, si diceva, e di bell’impatto.

La modalità di percezione è affidata alla sensazione, come ha messo in evidenza Antonio Piromalli, soprattutto nella complessità del mistero e nell’oscurità di alcuni aspetti della vita a cui inevitabilmente è connesssa la morte, nei risvolti inaccessibili alla ragione. Sensismo e sentimento sono i concetti su cui si è soffermato il Piromalli, appunto, intesi come strumenti di conoscenza e in evoluzione verso il sentimento: “Dal sensismo si trapassa al sentimento con dissolvenze continue, con richiami dalla percezione del presente al passato trasfigurato, all’umanizzazione del sole, dell’aprile. Senza tale percezione non ci sarebbe la necessità di costruire un muro tra sè e gli altri.”

C’è in questo sentire una coesistenza tra l’io profondo della poetessa e la natura, elaborata in un sapiente gioco di moderne dissolvenze (anche questo fa notare Piromalli) per cui si passa spesso dall’analisi dei sentimenti, degli stati d’animo, delle condizioni psicologiche alle visioni immaginifiche del mondo esterno in una simbiosi pressoché indissolubile. I passaggi sono determinati dalle similitudini e dalle metafore (Più non andrò all’albe / fiorite di luce / come farfalla / a suggere….)(similitudine), (Più non verrò/ alle chiare stille / ché un vento d’uragano / scuote la terra / privandola d’amore.)(metafora) in Le voci dell’amore, a pag. 245. E gli esempi potrebbero essere molti di più.

Ma il volume, nella sua interezza, ci conduce oltre, e cioé dentro la complessa visione antropologica di Livia Naccarato, che fa ruotare la sua vita intorno al concetto di amore, di un amore universale che va dalla passione impetuosa, e spesso frustrata come già evidenziato, sentita a volte anche dentro una carnalità misteriosa ed oscura, alla pietas per i più deboli, all’amore filiale, alla passione sociale e civile. E’ questo il filo della sua vita che si sdipana nelle forme di una poesia antiretorica e spesso fresca e immediata, corre dentro la memoria in un processo di recherche dove prendono corpo le culture che sono alla base dell’esperienza esistenziale, comprese le tradizioni e le suggestioni antropologiche del popolo arcaico a cui Livia appartiene, come le usanze religiose o il culto dei morti, la vita familiare dell’infanzia e l’esperienza della città con le sue nauseabonde merci, ma anche con la sua multiforme bellezza.

E’ quanto è stato colto con lucidità nella sua acuta analisi premessa al volume, da Sandro Gros-Pietro (La poesia di Livia Naccarato possiede l’ampiezza e la profondità di un discorso universale, pronunciato nel linguaggio della comunicazione aperta e con echi di cultura e di sogno che provengono sia dallo studio meditato delle antichità classiche, sia dalla frequentazione della modernità, ma con una particolare inclinazione di ascolto e valorizzazione per le forme di cultura popolare e semplice racchiuse negli usi, nei costumi, nei patrimoni di tradizioni…)

E’ naturalmente un universale costruito nel tempo, il tempo della vita, in un mosaico di tessere pazienti, poesia su poesia, che emerge dal magma inconsapevole di un generale sentire e si delinea progressivamente (non a caso le liriche sono proposte in ordine cronologico) in una consapevolezza che privilegia intuizione e sentimento, piuttosto che un lucido mentalismo, e la consegna alla coscienza attraverso lo strumento scritturale del codice poetico. Lo consegna innanzitutto alla percezione del sé: si scrive per scoprirsi, per conoscersi e per prendere forma in virtù della funzione di formatività propria della parola, prima che per farsi conoscere. Questo processo in Livia Naccarato è spontaneo e naturale, ma anche colto e sorvegliato. Cosicché dentro un percorso universale la poetessa distilla piccole immagini di conclusa bellezza (Per es. e sussurri s’annidano / fra cosa e cosa / e lenti gesti;/ da Sono nottate, pag 345, oppure Per il mondo siamo andati / con quella leggerezza fra le mani /a forma di tenera corolla / camminando quieti /…. da Uno sguardo, pag 461, oppure E s’è vestita d’amore la montagna /al tocco dell’autunno /… in E’ passato il principe d’oro, a pag 337) tanto per citare minimamente.

Il volume (ancora lui) è costituito, come già accennato, dalle sillogi pubblicate nel tempo, Al ritorno di ogni stagione,1986, Canzone d’amore, 1986, Andare e tornare, 1988,Cercando amore,1991, Il ritorno,1998, Presenza,2000, Il cammino,2003, Verso l’altrove, 2009, accompagnate da prefazioni e presentazioni di intellettuali importanti.

Ciò che conta è il percorso di lettura, ma anche di emozione, e di esperienza esistenziale indiretta che ci propone, affabulando e intrigandoci a volte con drammatica leggerezza, e sospingendoci in un viaggio bruciante e consolatorio nello stesso tempo.


venerdì 22 luglio 2011

Dante Maffia su L'infinito presente di Luciana Gravina

LUCIANA GRAVINA, L’infinito presente, Altredizioni, 2011

Luciana Gravina è un poeta sperimentale che non è mai venuto meno alla ricerca, che non si è mai adagiata sugli allori e non ha mai rinnegato il suo percorso per seguire “finzioni” che avrebbero potuto agevolarla nel suo cammino di studiosa, di letterata, di autrice che ha sempre sentito viva la parola nel suo farsi e nel suo disfarsi, nel suo evolversi e nel suo perdersi per scoscendimenti che a volte hanno rinverdito il canto e a volte lo ha portato su percorsi insoliti. Ricordo alcuni suoi libri fondamentali come A folle da uno a due, del 1979, o come M’attondo il giorno, del 2003, in cui un magma ardente tentava di uscire allo scoperto per seguire le tracce di un senso intravisto e mai goduto appieno e ricordo lo strazio della sua parola gorgogliante, accesa di un universo di significati che non trovavano requie se non in altre e più complesse diramazioni e penso che ella abbia contribuito a svecchiare manierismi che perdurano in molti poeti anche oggi. Ovviamente non si tratta di polemica, io appartengo al versante dei lirici, figuriamoci! E’ che soprattutto i lirici devono trovare il coraggio e la lealtà di uscire dallo stantio e percorrere la loro strada bevendo al loro cuore e non alle alchimie del disfacimento. Ma questo è altra faccenda. Tornando alla Gravina bisogna dire che si sente costante la sua “preoccupazione” di trovare la strada che la porti dentro il flusso incandescente e irruente del compiuto che in questo libro mi pare abbia trovato. Infatti, e lo dice con chiarezza Rino Malinconico, “questi versi di Luciana Gravina… Chiedono di essere ascoltati, talvolta alla maniera delle affabulazioni cui ci ha abituati Carmelo Bene, talaltra come un buon jazz ‘freddo’, quando i fiati prolungano in un lungo volo lo strazio infinito della solitudine”. Ecco, Malinconico ha colto il senso profondo dell’operazione poetica di Luciana, che va letta al di sopra e al di là del semplice dettato, servendosi di tutto ciò che rimbomba attorno, delle risonanze, degli strascichi, degli aloni, del rimbombare ora acuto ora drasticamente acceso, ora illuminato da indicazioni perfino filosofiche e ora addensato in un luccichio di funamboleschi approdi. Certo, non è poesia facile e facilmente condivisibile, ma si tratta di un corpo a corpo con tutto ciò che dilaga all’interno dell’umano, di tutto ciò che deborda e non trova il solco della compiacenza. Dunque è anche poesia scomoda, che non lascia respirare, che non permette abbandoni e patetismi e che si oppone al diluviare di un senso troppo chiuso nei parametri delle acquisizioni infeconde. La Gravina vuole provocare e nel provocare accendere i lumi di un’alterità che deve sconfinare in un principio di acquisizione semanticamente fuori dalle abitudini. Bisogna dire che gli esiti sono di alto livello, perché L’infinito presente nasce da una reale esigenza espressiva in cui sono coinvolti storia, antropologia, linguistica, politica, e pedagogia: “Nel colloquio affilato sulla doppia partita / doppia l’immensa notte del progresso celato / cela del mio coraggio la falsa archimandrita / falsifica nell’ordine debolezza spaiata”.

Dante Maffìa

lunedì 6 giugno 2011

Luciana Gravina, L'infinito presente, AltrEdizioni, Casa Editrice, 2011

Un testo da L'infinito presente

Percezioni

Hic proprio qui dove l’inizio e la fine squiquano e sfinano,

spersi. Qui a inizio e fine sdentrati avviene d’essere a

illusione di infinito e a non luogo, perciò fermi ci

smottiamo a percorrere l’universo: di pensiero, dico. Hic

dove la vita avviene. Nunc, proprio ora dove il tempo si

addensa in percezione e in globuli di fibre rimanda per

l’enèrgheia, il flusso permanente e più volte inconnu,

irrisolto, sdragato.


Fu quando mi

sedusse la luce come un fiume di sabbia luminosa a discesa

e a cascata dietro le palpebre e ancora mi inonda infilandosi

al petto, nel chakra cosiddetto del cardias. E io spietata

nella mia incredulezza a spiarlo dubbiosa questo fiume,

questa dilagazione di luce multicroma che ad apertura di

chakra, appunto, ogni volta avviene a palpebra chiusa e se

aperta mi si attacca alle mani, ai palmi e ai bordi.


Cosicché è l’io che attracca sfrantato e si addimora nel

contorno di liquido sfocato che si sdrama alle mani, ai

palmi appunto.

Una volta fu di bellezza, finesse, lo spirito voglio

dire e talvolta quasi a sfida di geometrie. O di entrambi,

ancipite insomma.


Transeunte,

passeggero, caduco, come suol dirsi, mi pare ora, nunc,

appunto, ma allora apparvemi il tutto, l’essenza, la pienezza,

non il refolo dell’hic, di quando il tempo prigioniero

si cammina dimidiato tra passato e futuro.

Avessi spersuaso l’occhio alla

crudezza eunte del biondo capello, della sottigliezza al

fianco esperta, strafilata sul nunc. Avessi di sradicata

pietà delle pietre nei profili delle fiaccole dove

l’ultimo rosso si assiepava, sulla siepe, appunto, di

frastagliate compiutezze credute totali, del ventre annidato

tra le pupille sazie, tra i sorrisi degli incubi, avessi

stramato appena la dicotomia triplice del tempo così

inconcluso tra passato e presente spesso anche a futuro

orbitato se in fantasma la mente si metteva a sogno.


L’avessi appunto

auscultato questo concerto n.21, Mozart permettendo, non

con le auricole fisiche sotto le mani e a vedersi anche per

occhi, ma con la pelle per vibrazioni convenute a

velocità non intercettabili, a vibrare, appunto, in tutti i pori,

dico tutti, dilatati per la spietata penetrazione a

sussulto estorto dalla testa alle ultime estremità nel corpo

dilaniato a percezione dal fondo, e funditus, per

incontrollabili deliri.


Lo avessi

auscultato, appunto, attraverso la pelle. Ma io,

maintenant, io a credere che l’esprit fosse appunto de finesse, al

limite, de geometrie, magari entrambi per una testa ancipite,

come già, bel viso, anche, d’una compiutezza, così mi

sembrava, ou tous se tenait, dove la svasatura del rischio sotto

controllo si glissasse egli medesimo sine cura.


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Letti per voi. Amalia Maria Amendola, Come presentare una proposta editoriale. Trucchi e consigli per farsi pubblicare, Bel-Ami Edizioni, 2011

Amalia Amendola, Come presentare una proposta editoriale. Trucchi e consigli per farsi pubblicare, Bel-Ami Edizioni, 2011.

Se un autore (narratore, saggista o che altro) mette la parola “fine” al suo lavoro e crede di aver terminato una grande fatica, si sbaglia. La fatica deve ancora cominciare ed è quella di trovare l’editore che sia disposto a pubblicare “il capolavoro”.

E’ questo l’avviso che inoltra Amalia Maria Amendola con un libro dal titolo intrigante e per certi versi impertinente. Perché infatti, non solo enuncia le modalità per formulare una proposta editoriale (Come presentare una proposta editoriale), ma sottotitola sorniona (Trucchi e consigli per farsi pubblicare).

Non è mistero che l’editore sia un animale inafferrabile e bizzarro, ma scoprire, grazie a un libro, per filo e per segno il pensiero complicato e discriminante dell’editore, appunto, e farsi guidare, sempre grazie allo stesso libro, nella formulazione della proposta editoriale, è cosa interessante, oltre che utile.

La proposta, stando a quanto ci svela Amalia Maria Amendola, non è un semplice inviare l’inedito all’editore, cartaceo o multimediale che sia, con la certezza che, proprio per essere un capolavoro, il nostro testo si metta a fare la danza del ventre sulla scrivania dell’addetto alla lettura e lo conquisti. Proprio no. E’ un percorso complesso, ragionato e intelligente, orientato a intercettare l’attenzione, il gusto e l’interesse dell’editore, che è influenzato da una molteplicità di variabili. Infatti l’obiettivo fondamentale, e forse il più difficile da raggiungere, è fare in modo che l’editore si accorga di voi”, considerando “a. la mole di opere inediti di autori sconosciuti che ogni giorno giungono in redazione; b. la concorrenza tra editori, che pubblicano tanto, sperando di vendere altrettanto; c. lo scarso peso dato in Italia alla lettura.” (pag. 3)

Davanti a questa difficoltà l’autrice chiarisce, commenta, consiglia, illustra con la competenza che le deriva dal suo corso di studi (Laurea in Lettere e Master in Editoria Cartacea e Multimediale) e dalle sue attuali attività (collaborazione presso Mondadori Education e dottorato di ricerca in Scienze del Testo presso L’Università degli Studi di Siena). Si sofferma sulle insidie del mercato editoriale che è una delle variabili che maggiormente influenzano l’editore e poi, passo passo, guida alla redazione della proposta editoriale che dovrebbe essere costituita da una serie di elementi variabili anche in base al genere di scrittura. Ad esempio per una fiction è sempre opportuno inviare tutto il testo, per un romanzo di genere basta una sintesi e uno stralcio di testo, per un saggio può essere utile un’ipotesi di lavoro. Non deve mai mancare la lettera di presentazione e via via il discorso si estende all’indice, al target di riferimento, al numero approssimativo di pagine, alle notizie sull’autore e quant’altro.

Ovviamente possono arrivare anche molte risposte negative: basta non farsi scoraggiare.

L’autrice passa poi ad analizzare la possibilità, o forse la necessità, che l’autore diventi promotore di se stesso, che si dichiari, e lo sia effettivamente, disponibile ad andare in giro a presentare il proprio libro in librerie e fiere, che si procuri recensioni e qualsivoglia occasione che garantisca la visibilità alla sua creatura.

L’analisi si estende anche al mondo del libro che ruota intorno al processo vero e proprio di produzione concreta del libro, in quanto oggetto. Si tratta delle agenzie letterarie, dei service editoriali, delle fiere del libro, delle scuole di scrittura creativa, di premi e concorsi letterari, dei siti web dedicati, riviste, giornali, Radio e Tv.

Appropriata e ricca anche la bibliogafia.

E’ un lavoro puntuale e complesso, un saggio, che si estende in n.6 capitoli e per un n. di 96 pagine, e che risulta essere un testo di lettura piacevole in quanto affidato ad una prosa di facile comunicazione dove la semplicità non è semplicismo incolto, ma frutto di mirata concretezza e di pregevole energia.

Luciana Gravina

mercoledì 13 aprile 2011

Letti per voi. "Il tempo e le parole" di Maria Racioppi

Maria Racioppi, Il tempo e le parole

Note di Luciana Gravina

Con questa nuova silloge Maria Racioppi segna un’altra interessante tappa del suo percorso poetico attraverso l’elaborazione di un approdo filosofico che in nuce preesiste nella precedente produzione ma che qui trova esplicitazione e chiarificazione nutrendosi della creatività immaginifica di visioni poetiche di rara contemplazione estetica.

Se è vero, come è vero, che il titolo è cifra di decodificazione dell’opera, qui il percorso poetico è indicato con la chiarezza che soltanto la poesia matura e sicura di sè può possedere, in quanto purificata dagli orpelli e portatrice di una verità che si fregia della parola poetica per esigenza di trasparenza.

Il concetto di Tempo ha sedutto sempre pensatori, filosofi, poeti, oltre che gli scienziati.

Per i Greci O’Kronos, Crono, Saturno per i Romani, e per noi il Tempo, quello con la T maiuscola, è l'archetipo di una condizione maschile primordiale, contenente in sé anche il femminile, di cui evidenzia gli aspetti negativi.
 Crono è un padre che ama i suoi figli di un amore ossessivo e disperato, al punto che li divora. Non dà ai figli la possibilità di crescere, ma li assume dentro di sé, e li stritola.

Da questo archetipo discendono le altre concezioni del Tempo che, nella sua millenaria produzione di senso, l’umanità ha elaborato attraverso i suoi pensatori.

Maria Racioppi, in questa silloge affronta il problema prendendone, come dicono i Francesi, le devant, cioé direttamente, proponendolo non soltanto in titolo, ma dedicando al concetto di Tempo alcune prestigiose liriche quali Onnipotente il Tempo, Il Tempo e le parole, Si sfalda il Tempo, Eterno il Tempo, Eterno il Tempo?, Tiranno il Tempo. In esse avviene una dichiarazione di statuto filosofico dal quale possono dipartirsi le fila di tutta la Welthanshauung racioppiana.

Qui si pone in chiarezza e in condizione sistemica il pensiero/Tempo che, è vero, risente di precedenti elaborazioni, ma è condizione innanzitutto vissuta nella coscienza.

Dunque il Tempo è onnipotente (Onnipotente il Tempo di se stesso / figlio e di voragine di secoli / che travalicano ogni memoria / da parte degli umani destinati / sin dalla nascita ad essere terra.)

Vi appare subito un’umanità oppressa da un destino di inanità. L’uomo si affanna a studiare, a costruire, a progettare i segni della sua evoluzione, che comunque è destinata a perire divorata dal Tempo (e onnipotente su tutto / il Tempo divoratore). Nel processo di ampliamento dell’io soggettivo a quello collettivo, sociale, storico, Maria Racioppi non lascia spiragli: questa è la realtà esperita non solo attraverso gli studi, ma innanzitutto, come già detto, nella sua coscienza.

E’ vero: è facile individuare un Foscolo dei Sepolcri (e le rovine / della terra e del ciel traveste il Tempo) e si potrebbero anche individuare altri esempi. E’ facile ed anche piacevole la suggestione culturale in una poetessa che ha una cultura smisurata. Ma non è così che funziona l’elaborazione di pensiero in una personalità autonoma, e soprattutto complessa, come quella di Maria Racioppi.

Notiamo infatti, in questa stessa lirica, il lessema “memoria”, che connessa a Tempo, ci riconduce direttamente a Bergson il quale affida alla memoria il compito di estrapolare dentro la coscienza dell’uomo il passato e ricongiungerlo al presente e quindi costituire l’elemento di continuità sul quale il tempo procede. Con questo non voglio dire che la poetessa abbia mutuato alcunché da Bergson, questo, di fatto non lo so. Voglio dire soltanto che essendo Bergson più vicino alla nostra epoca (è morto nel 1941) è facile che le due sensibilità si sfiorino e si appartengano nella contemporaneità.

Tuttavia il Tempo, pur così prepotente, è fragile (si veda Si sfalda il Tempo), si frantuma nei singoli destini degli uomini che si illudono di nascere uguali per natura.

Menzogna fra le infinite menzone, sostiene la poetessa: gli uomini sono uguali soltanto di fronte alla morte. Perciò ciascuno consuma il suo tempo individuale con modalità diverse negli alti e bassi della sua vicenda individuale.

Continua in questa sezione le definizione del Tempo archetipico e astratto: il Tempo è eterno e travolge con le catastrofi naturali la terra: e inutili sono i perché che l’uomo si pone su questi apparenti assurdi.

Ma l’eternità del Tempo determina anche dubbi: Mi chiedo se il tempo giace stanco / o siamo noi stanchi di inseguirlo / senza prendere respiro, / ma pure nell’inconscio del sogno /si rallentano i muscoli ipertesi / e si acquieta d’improvviso il cuore, /combattuto tra la vita e la morte, / fra sensazioni e disperato nulla.

Conclusionio lucide, razionali che sembrerebbero non concedere nulla al sogno e alla speranza.

In realtà l’uomo, davanti al malessere e all’ipotesi del nulla si è attrezzato con un arma che dura nei secoli e che possiede il tempo in quanto lo “dice”. Le parole, la voce poetica, nella loro funzione di formatività della storia, possono addirittura essere protette dal Tempo: E il Tempo tutte le raccoglie / le parole corrucciate e cortesi / con la benevolenza di una madre / che sempre spera e a volte non cancella.

Già in Europa Europa la voce/parola poetica si evidenzia per il sua determinatezza strutturale in quanto topos (voce-parola-poesia) presente soprattutto nella seconda sezione del libro, intitolata appunto, La tua voce, dove si elabora una poetica, un concetto inequivocabile di poesia.

In questo ultimo testo la parola poetica si pone come urgenza e quasi sofferenza (E fra tutte la più pressante / è la parola poetica / che ti insegue, non ti dà scampo /perché uscita dalla tua carne / come un figlio dall’utero fecondo), assimilando la sua produzione al parto ed evocando la maternità che è presente nel femminino racioppiano in maniera forte e spesso dirompente.

La parola - poesia è il topos magico che accerchia il tempo e lo performa dentro la memoria e dentro la coscienza, ristrutturando l’io poetico spaventato, e rendendolo creativo di situazioni oniriche e visioni immaginifiche. Accade quando la lucida razionalità cede al ricordo come in Cherry Blossom (Dove più assoluta armonia / di quella esplosiva fioritura / che si specchiava con la freschezza / di una sposa nell’abito nuziale?) Dentro il ricordo si fa strada spesso l’immagine della giovane madre (Ma allora… nel parco gli scoiattoli / dall’albero scendevano al richiamo / di mio figli che sgambettava appena, / mentre attorno al laghetto maturava / il miracolo del Cherry Blossom.)

Accade quando il tempo si cristallizza nella meditazione sulla Sacralità dell’ora, in un testo di trasparenti visioni e di ritmi classici che evidenziano quanta dimestichezza la poetessa abbia con la poesia e quanto sia profonda conoscitrice dei suoi percorsi formali.

E così nei testi a seguire dove la poetessa riproduce le percezioni del suo complesso ed emozionato io profondo davanti ai luoghi e agli spettacoli della natura. Si tratta di un io che pur nella sua lucida condizione razionale è capce di emozionarsi e di vibrare davati a un tramonto, alle acque quiete del lago di Trevignano, al volo dei gabbiani, dove al sogno corriponde un altro sogno di un altro tempo e una visione ad un’altra, in un gioco caleidoscopico di rimandi e di specularità gestito con la grazie della donna e con la sapienza del poeta che sa quello che fa.

A mio avviso in questa ultima raccolta di Maria Racioppi sembrerebbe che al di là di una premessa di lucido, laico pessimismo sul nulla eterno a cui il Tempo tiranno e divoratore conduce, ci sia il recupero di io sognante, assolutamente giovane, inattaccabile proprio dal tempo, di un io capace di passione, di amore e di emozione.

Mi sia concesso di concludere e scusate se mi cito, con le parole che ho già espresso per Maria Racioppi in occasione della presentazione alla libreria Croce del volume Europa Europa.

Mi piace sottolineare la consapevolezza dell’autrice di un pensiero poetico e, se vogliamo, di una poesia filosofica bene innestata nel suo tempo, negli attuali modi di essere, di pensare, di esprimersi, una poesia cioé tutta nostra, di noi che viviamo nel ventunesimo secolo.

La poesia di Maria Racioppi è una produzione di spessore non comune, ci appartiene ed è ormai parte integrante della civiltà contemporanea perché ci interpetra con simultaneità e ricostruisce le radici del nostro tempo con attenzione e con passione.

L'infinito presente. Intervento critico di Carlo Livia

Carlo Livia
Note critiche a “L’infinito presente “di Luciana Gravina


Sacralizzato e profanato, idealizzato e posto al vertice ontologico- noetico dell’esistenza (la “casa dell’essere” di Heidegger ), e insieme violato, abusato, vulnerato da divergenti esperimenti trasgressivi-rigenerativi dei suoi “custodi”, poeti e filosofi, il linguaggio, da elemento di mediazione del numinoso e del metafisico, nella poetica e speculazione medievale, negli ultimi secoli è diventato strumento di evasione nel meraviglioso, scandaglio dell’inconscio, sorgente di visioni e astrazioni dal reale, e di analisi sempre più interiorizzate, volte a cogliere le forme evolutive-performative del suo generarsi e modellarsi, nella reciproca inferenza – dialettica e antagonistica – col pensiero e con l’emozione.

In questo senso è stato fondamentale l’apporto delle scienze linguistiche e cognitive, come la semiotica di Eco e la psicolinguistica di Vigosky, che hanno esaminato le dinamiche formative del pensiero, che dalla dimensione emotiva-sentimentale, proprio attraverso i modelli linguistici forniti dal contesto culturale, si struttura, si espande, si modifica ed evolve, articolandosi nelle diverse esigenze e dimensioni teoriche, pratiche e creative.

In particolare la lingua poetica, come notava Nietzsche, contribuisce con la maggiore tensione eversiva e palingenetica ad ampliare e rimodellare forme e contenuti semantici, liberando pensiero e linguaggio dall’implicita oppressione dei modelli costituiti, cristallizzati ed obsoleti, per evincere ed esprimere, con nuovi traslati, metafore, assimilazioni e dislocazioni, nuove istanze ideali e morali, suggestioni emotive e modelli estetici, intuizioni meta-razionali ed agnizioni metafisiche.

Estremamente significativo, in questo contesto culturale, il contributo offerto dall’ultima opera di Luciana Gravina, “ L’infinito presente “, in cui vengono portati ad un grado di risultanza icastica quasi insostenibile – per mancanza di confronti e convergenze possibili - esperienze e tematiche già affrontate con notevole originalità formale e profondità concettuale in opere precedenti.

L’incanto – e il senso di smarrimento – che promanano dalla lingua di Gravina, nascono dall’implicita “ hybris “ di un gesto comunicativo ambizioso ed ieratico, nel voler catturare il nucleo rovente della sua verità, ma insieme tragico e grottesco, perché consapevole dell’inanità di tale titanico obiettivo, e quindi immediatamente intriso di umorismo e autoironia. Come nell’universo tragicomico e post-umano di Beckett, il pensiero - linguaggio si corrompe e dissacra, avvertendo l’invalicabile confine a cui è giunto, l’abissale aporia intravista, che determina conflitto, disincanto e senso del grottesco:


” Hic proprio qui dove l’inizio e la fine squiquano e sfinano,

spersi. Qui a inizio e fine sdentrati avviene d’essere a

illusione di infinito e a non luogo, perciò fermi ci

smottiamo a percorrere l’universo: di pensiero dico…”


Come si vede, la tensione aggregativa-disgregativa, concettuale-semantica s’imprime violentemente nella lingua, ne intacca l’integrità logico-sintattica, l’equilibrio prosodico-formale, ma contestualmente ne amplifica la dimensione semantica, moltiplicando le implicanze emotivo-musicali. Complesse e stratificate anche le afferenze filosofiche, che alludono ( come nel titolo del volume ) alla nuova concezione del tempo che, da Nietzsche a Bergson, ne sovverte linearità e consecutività, concependolo come espansione ciclica, infinita dell’attimo presente.

La transizione da “ logos “ a “ melos “, scopo comune a tutta la poesia di ascendenza orfico-simbolista, sintomo di disagio ad accettare l’immanenza dell’essere, incapacità a limitarsi ad un orizzonte esistenziale codificato dalla ragione empirica ed esigenza di trasfigurazione ed ascesi dalla realtà quotidiana, qui assume una fisionomia drammatica e provocatoria: si assiste come ad un rivolgersi della lingua su se stessa, per evocare il proprio percorso generativo, analizzarne i limiti, evidenziarne contrasti e lacune, traducendoli e sublimandoli in sorprendenti neologismi, che lasciano ammirati e storditi, per la loro frequenza, complessità strutturale e polivalenza semantica:


“ Avessi spersuaso l’occhio alla

crudezza eunte del biondo capello, della sottigliezza al

fianco esperta, trafilata sul nunc...

Cosicché è l’io che attracca sfrantato e si addimora nel

contorno di liquido sfocato che si sdrama alle mani…”


Le possibili ascendenze e contiguità stilistiche – Joyce, Zanzotto, Sanguineti – possono solo in parte illustrare e definire trame e percorsi di questa lingua ricca di cangianti sfumature e suggestioni, che non sono mai gratuite ma funzionali ad un’impervia inquisizione epistemologica:


“ Transeunte

passeggero, caduco, come suol dirsi, mi pare ora, nunc,

appunto, ma allora apparvemi il tutto, l’essenza, la pienezza,

non il refolo dell’hic, di quando il tempo prigioniero

si cammina dimidiato tra passato e futuro….”


La violenza esercitata sul linguaggio è necessitata dall’ansia di liberazione dalle catene logico-razionali che impediscono di attingere l’ultima verità. L’agnosticismo di Gravina, erede di quello dei grandi ermetici, come Montale o Celan, si esprime con un suggestivo percorso catabatico-anagogico, sprofondato nella fisicità dell’io, come in un labirinto di codici da decifrare, per recuperare la visione perduta dell’autentica verità e salvezza:

L’avessi saputa la via, la mia, quella giusta che dalla rotula

dei ginocchi, di entrambi dico, sul punto che la svela, se

consapevole andassi. L’avessi visto il punto, del quinto

dico, cosicché messo a energia, mi chiarisse un sentiero

almeno, di quelli giusti, non dico la via, ma la direzione che

diretta mi conducesse, un piccolo straforo di luce,

un’illusione di delirio, di quello giusto, appunto,

di giusta direzione. “

Ancora una volta – come in Mallarmè, Kafka, Camus e in molti dei maggiori autori del novecento – è il tono della disfatta, della resa ( anche se gloriosa, inebriante, seduttiva ) che prevale. In una cultura che molti definiscono postuma, che sopravvive a dogmi e codici perduti, il cammino verso la luce di un’autentica verità sembra precluso. Ma se ci sono ancora voci poetiche così intense e appassionate, ricche di memoria e slancio verso una possibile palingenesi, non è detto che debba esserlo per sempre.

Carlo Livia