mercoledì 2 febbraio 2011

Spiralitudine

Spiralitudine

In principio fu dessa, l’archimedea, coi raggi tutti
pari, pari, uguali di misura che a chiocciola si pose, o
a rosa, figliata femmina all’enigma della luce che
s’abbatte e sbatte alla polifonia di equivoci contesti
annicchiata nell’aura della parola e nel suono. Strafilata.
Ora che l’epigenesi in corpo s’atteggia a epifania
salvifica, attraccata all’afona curva rossa
del rame, alla rosa rosea (di rame roseo
ovviamente), alla voluta bionda dell’ottone,
alla corniola sigillata allo iato abissale.

Avessi
divorato diagrammi e carte nautiche ,
bolle papali con lituo a sigillo (ma anche di
quello dico che qui s’arride a un’ambra di Praga).
Avessi. E l’anacrusi minimale a slittare tra
forme assenti e spazio liberato. Avessi. E
l’ansa preordinata del pensiero,
contromaterica avventura, enigma invalido,
claudicante eresia combinatoria di werther und sachen.

E così sprofilata mi attengo ai
brandelli, proprio gli ultimi, alle frange magari,
me ne cammino su queste, sui panorami, sugli
orizzonti sfuggenti, mentre le porte sbattono
beanti, avessi visto il sole, le soleil, la turbinosa
distrofia del progetto. Avessi visto. Cosicché
dondolandosi e inusuale godendolo il cerchio
(dico di avvedute infrazioni) lo traessi
del nuovo dal mio fianco, oltre che dalla testa, come
adamo da eva, come il sole dalla luna, sovvertendolo
l’ordine sterile ormai, perché a spirale mosso,
in vortice traverso alitare di vita, ipsiare
di se stessa, attorcersi a nuovo.

Qui Moebius non c’entra, non scorre, non
shechera colori, non dimostra che. Se ne sta,
sapendolo, annicchiata e quasi modesta
nelle sue curve di rame un po’brunito, quel
tanto fatto apposta in combutta con
l’umido, con l’aria, con l’ossigeno che scruta e
scura e muffa tutto e scansa la logaritmica
di infinita vita in sé risorgente toujours (eadem)
tra alfa (mutata) e omega (resurgo).

Potesse,
per quel dentro in me, per l’io che ordina e
travolge, per il corpo che nella parola avviene
e si concede, per il sé che il verbum
contraddice, potesse lo scarto ricorrente del
fiato superstite, disseminato nelle cose e l’ordine,
annientare, se l’esilio dell’io libero, appunto, è
la norma e non c’è tu che tenga perché è
l’ordine che sfalsa e sfasa, guadare l’avventura
rimanentente anche se a norma il fout) (ricondurre
ogni clamore e morirlo questo élan bergsoniano
(se appena è possible) ricompattarlo il caos
e vivirlo.

Ora che ad ogni mot avviene
la parola come legge presunta, ora dilatarlo ogni
senso caduto dentro il me che in me si contraddice e
il biguo e il triguo e il multiforme milliguo, per
ipotesi ammettendo che qui si puote, dentro
la parola affabulata di seduzione gioca.

Qui mi
sevince il vitruviano (l’uom/a), ovviamente, che
di maschio o femmina quivi non licet, ma
uomidonne che, sperimetrati, affondano di
morte, magari piccola e vanno via che non è
qui che il quidlibet li broglia e li travolge. L’io
mio mi riconduce e a mano mi draga per questo
giro morbido a spirale, se di rame, se di cuivre, e,
volendo, anche di ottone e d’argento. Cosicché,
trovatala, ad hora quasi tarda, mi passiona.

Letto per voi: Il salto della corda di Cetta Petrollo

Amici, vi consiglio una lettura gradevole e interessante.

Cetta Petrollo, Il salto della corda, Manni, 2010

Il territorio in cui si gioca la baruffa linguistico-esistenziale, che costituisce in questo libro il cimento di Cetta Petrollo, è l’analisi degli intricati equilibri deputati a definire quanto di sé appartenga al soggetto della narrazione, quanto stia saldamente compreso nelle sue mani e quanto sfugga ancora o definitivamente verso esiti incontrollabili.
E’ il gioco della consapevolezza ritmato e scandito dal salto del piede che pulsa a tempo la terra e crea lo spazio piccolo, ma certo, inconfutabile, destinato a far passare ogni volta la corda. Questo spazio è l’attesa dentro cui si esperiscono e si consumano le vicende, dove specularmente affiorano i Natali, anche quelli diversi, delle cozze e dell’insalata lavate alla fontanella del cortile, dove passa l’amore, anche quello del dubbio (io o noi?), dove parcheggia inesorabile il vuoto della perdita (in particolare quella della madre), dove affiora la maternità (che non si sa mai se è esperienza, bisogno esistenziale, generosità o che altro).
Dentro questo spazio tra la terra e il piede la corda introduce ritmicamente ricordi sensazioni emozioni che rimbalzano come fasci di luce inaspettata, inondano la percezione ma cuciono anche riflessi di misurazioni, di valutazioni e forse di giudizio.
E’ un’operazione letteraria dove la memorialità si propone come necessitante e diventa gioco normato la cui prima norma è la libertà della parola che fluisce facile, asseconda, a volte oltre il limite codificato, la spontaneità del pensiero, situandosi e accomodandosi in una sua concatenazione sintagmatica pur semplice, ma sicuramente anche classica.
Dunque autobiografismo, che non ha la sua ragione rinvenibile nella confessione in quanto “uscita allo scoperto”, per come lo ha inteso Maria Zambrano in La confessione come genere letterario, facendone un prodotto a cavallo tra letteratura e filosofia. ("Perché l'importante non è che siamo visti, ma che ci offriamo alla vista, uscire dall'isolamento e comunicare"). E qui la tentazione dell’individuazione di afferenze ad autorevoli modelli (Sant’Agostino, innanzitutto, ma anche Platone, Anacreonte, Spinoza, Nietzsche, Kierkegaard, Rousseau e poi Proust) è sicuramente forte.
In Cetta Petrollo il recupero memoriale è orientato verso un orizzonte di senso diverso.
Qui mi sembra di trovarci davanti ad una istanza, e letteraria, e filosofica, che non ha come riferimento il lettore in causa, semmai in fabula: mi sembra piuttosto una quête ineludibile, esperita attraverso la formatività della parola: come a costruirla, la propria vita, attraverso il miracolo creativo del codice verbale, farne un proprio saldo possesso, sottrarla, nella riconduzione alla letterarietà, all’insostenibile peso del to live, e riconsegnarla all’essere, al to be, al suo sostenibilissimo peso (Kundera permettendo), o per renderne, se vogliamo, sostenibile, appunto, il peso.
In questo senso il richiamo a Nadine Gardimer è inevitabile: “Scrivere è essere” dove l’identificazione della scrittura con la vita rende possibile e praticabile una vocazione testimoniale che comporta innanzitutto la consapevolezza del territorio (nello specifico, il rapporto con gli altri) e delle modalità con cui costruiamo la nostra esistenza personale. Una consapevolezza al femminile? o una consapevolezza, che proprio per appoggiarsi ad una istanza etica, supera la questione di genere e pone finalmente il problema della scrittura in un campo neutro che è quello della filosofia?
Ma non è tanto questo il punto, quanto il fatto che la narrazione autobiografica innesca un processo di ermeneutica del sé, il sè dell’uomo post-post-moderno che patisce lo smarrimento e la frammentarietà dell’io individuale dentro la complessità centrifuga della nostra storia attuale.
Mi sembra che la recherche de Il salto della corda vada verso un orizzonte di autointerpetrazione e autodefinizione esistenziale, in una modalità non cronologica, anzi volutamente frammentaria, perché non è di una mitopoiesi personale che si tratta. E’ per questo che il piano semantico su cui gioca l’asse linguistico sfugge complessivamente alla cosalità e all’astrazione per attestarsi su una riflessività quanto mai psicologica ed emozionale nella tensione permanente e ostinata dell’esserci e soprattutto dell’essere (l’autrice) non estranea al proprio corpo e alla propria anima.