mercoledì 13 aprile 2011

Letti per voi. "Il tempo e le parole" di Maria Racioppi

Maria Racioppi, Il tempo e le parole

Note di Luciana Gravina

Con questa nuova silloge Maria Racioppi segna un’altra interessante tappa del suo percorso poetico attraverso l’elaborazione di un approdo filosofico che in nuce preesiste nella precedente produzione ma che qui trova esplicitazione e chiarificazione nutrendosi della creatività immaginifica di visioni poetiche di rara contemplazione estetica.

Se è vero, come è vero, che il titolo è cifra di decodificazione dell’opera, qui il percorso poetico è indicato con la chiarezza che soltanto la poesia matura e sicura di sè può possedere, in quanto purificata dagli orpelli e portatrice di una verità che si fregia della parola poetica per esigenza di trasparenza.

Il concetto di Tempo ha sedutto sempre pensatori, filosofi, poeti, oltre che gli scienziati.

Per i Greci O’Kronos, Crono, Saturno per i Romani, e per noi il Tempo, quello con la T maiuscola, è l'archetipo di una condizione maschile primordiale, contenente in sé anche il femminile, di cui evidenzia gli aspetti negativi.
 Crono è un padre che ama i suoi figli di un amore ossessivo e disperato, al punto che li divora. Non dà ai figli la possibilità di crescere, ma li assume dentro di sé, e li stritola.

Da questo archetipo discendono le altre concezioni del Tempo che, nella sua millenaria produzione di senso, l’umanità ha elaborato attraverso i suoi pensatori.

Maria Racioppi, in questa silloge affronta il problema prendendone, come dicono i Francesi, le devant, cioé direttamente, proponendolo non soltanto in titolo, ma dedicando al concetto di Tempo alcune prestigiose liriche quali Onnipotente il Tempo, Il Tempo e le parole, Si sfalda il Tempo, Eterno il Tempo, Eterno il Tempo?, Tiranno il Tempo. In esse avviene una dichiarazione di statuto filosofico dal quale possono dipartirsi le fila di tutta la Welthanshauung racioppiana.

Qui si pone in chiarezza e in condizione sistemica il pensiero/Tempo che, è vero, risente di precedenti elaborazioni, ma è condizione innanzitutto vissuta nella coscienza.

Dunque il Tempo è onnipotente (Onnipotente il Tempo di se stesso / figlio e di voragine di secoli / che travalicano ogni memoria / da parte degli umani destinati / sin dalla nascita ad essere terra.)

Vi appare subito un’umanità oppressa da un destino di inanità. L’uomo si affanna a studiare, a costruire, a progettare i segni della sua evoluzione, che comunque è destinata a perire divorata dal Tempo (e onnipotente su tutto / il Tempo divoratore). Nel processo di ampliamento dell’io soggettivo a quello collettivo, sociale, storico, Maria Racioppi non lascia spiragli: questa è la realtà esperita non solo attraverso gli studi, ma innanzitutto, come già detto, nella sua coscienza.

E’ vero: è facile individuare un Foscolo dei Sepolcri (e le rovine / della terra e del ciel traveste il Tempo) e si potrebbero anche individuare altri esempi. E’ facile ed anche piacevole la suggestione culturale in una poetessa che ha una cultura smisurata. Ma non è così che funziona l’elaborazione di pensiero in una personalità autonoma, e soprattutto complessa, come quella di Maria Racioppi.

Notiamo infatti, in questa stessa lirica, il lessema “memoria”, che connessa a Tempo, ci riconduce direttamente a Bergson il quale affida alla memoria il compito di estrapolare dentro la coscienza dell’uomo il passato e ricongiungerlo al presente e quindi costituire l’elemento di continuità sul quale il tempo procede. Con questo non voglio dire che la poetessa abbia mutuato alcunché da Bergson, questo, di fatto non lo so. Voglio dire soltanto che essendo Bergson più vicino alla nostra epoca (è morto nel 1941) è facile che le due sensibilità si sfiorino e si appartengano nella contemporaneità.

Tuttavia il Tempo, pur così prepotente, è fragile (si veda Si sfalda il Tempo), si frantuma nei singoli destini degli uomini che si illudono di nascere uguali per natura.

Menzogna fra le infinite menzone, sostiene la poetessa: gli uomini sono uguali soltanto di fronte alla morte. Perciò ciascuno consuma il suo tempo individuale con modalità diverse negli alti e bassi della sua vicenda individuale.

Continua in questa sezione le definizione del Tempo archetipico e astratto: il Tempo è eterno e travolge con le catastrofi naturali la terra: e inutili sono i perché che l’uomo si pone su questi apparenti assurdi.

Ma l’eternità del Tempo determina anche dubbi: Mi chiedo se il tempo giace stanco / o siamo noi stanchi di inseguirlo / senza prendere respiro, / ma pure nell’inconscio del sogno /si rallentano i muscoli ipertesi / e si acquieta d’improvviso il cuore, /combattuto tra la vita e la morte, / fra sensazioni e disperato nulla.

Conclusionio lucide, razionali che sembrerebbero non concedere nulla al sogno e alla speranza.

In realtà l’uomo, davanti al malessere e all’ipotesi del nulla si è attrezzato con un arma che dura nei secoli e che possiede il tempo in quanto lo “dice”. Le parole, la voce poetica, nella loro funzione di formatività della storia, possono addirittura essere protette dal Tempo: E il Tempo tutte le raccoglie / le parole corrucciate e cortesi / con la benevolenza di una madre / che sempre spera e a volte non cancella.

Già in Europa Europa la voce/parola poetica si evidenzia per il sua determinatezza strutturale in quanto topos (voce-parola-poesia) presente soprattutto nella seconda sezione del libro, intitolata appunto, La tua voce, dove si elabora una poetica, un concetto inequivocabile di poesia.

In questo ultimo testo la parola poetica si pone come urgenza e quasi sofferenza (E fra tutte la più pressante / è la parola poetica / che ti insegue, non ti dà scampo /perché uscita dalla tua carne / come un figlio dall’utero fecondo), assimilando la sua produzione al parto ed evocando la maternità che è presente nel femminino racioppiano in maniera forte e spesso dirompente.

La parola - poesia è il topos magico che accerchia il tempo e lo performa dentro la memoria e dentro la coscienza, ristrutturando l’io poetico spaventato, e rendendolo creativo di situazioni oniriche e visioni immaginifiche. Accade quando la lucida razionalità cede al ricordo come in Cherry Blossom (Dove più assoluta armonia / di quella esplosiva fioritura / che si specchiava con la freschezza / di una sposa nell’abito nuziale?) Dentro il ricordo si fa strada spesso l’immagine della giovane madre (Ma allora… nel parco gli scoiattoli / dall’albero scendevano al richiamo / di mio figli che sgambettava appena, / mentre attorno al laghetto maturava / il miracolo del Cherry Blossom.)

Accade quando il tempo si cristallizza nella meditazione sulla Sacralità dell’ora, in un testo di trasparenti visioni e di ritmi classici che evidenziano quanta dimestichezza la poetessa abbia con la poesia e quanto sia profonda conoscitrice dei suoi percorsi formali.

E così nei testi a seguire dove la poetessa riproduce le percezioni del suo complesso ed emozionato io profondo davanti ai luoghi e agli spettacoli della natura. Si tratta di un io che pur nella sua lucida condizione razionale è capce di emozionarsi e di vibrare davati a un tramonto, alle acque quiete del lago di Trevignano, al volo dei gabbiani, dove al sogno corriponde un altro sogno di un altro tempo e una visione ad un’altra, in un gioco caleidoscopico di rimandi e di specularità gestito con la grazie della donna e con la sapienza del poeta che sa quello che fa.

A mio avviso in questa ultima raccolta di Maria Racioppi sembrerebbe che al di là di una premessa di lucido, laico pessimismo sul nulla eterno a cui il Tempo tiranno e divoratore conduce, ci sia il recupero di io sognante, assolutamente giovane, inattaccabile proprio dal tempo, di un io capace di passione, di amore e di emozione.

Mi sia concesso di concludere e scusate se mi cito, con le parole che ho già espresso per Maria Racioppi in occasione della presentazione alla libreria Croce del volume Europa Europa.

Mi piace sottolineare la consapevolezza dell’autrice di un pensiero poetico e, se vogliamo, di una poesia filosofica bene innestata nel suo tempo, negli attuali modi di essere, di pensare, di esprimersi, una poesia cioé tutta nostra, di noi che viviamo nel ventunesimo secolo.

La poesia di Maria Racioppi è una produzione di spessore non comune, ci appartiene ed è ormai parte integrante della civiltà contemporanea perché ci interpetra con simultaneità e ricostruisce le radici del nostro tempo con attenzione e con passione.

L'infinito presente. Intervento critico di Carlo Livia

Carlo Livia
Note critiche a “L’infinito presente “di Luciana Gravina


Sacralizzato e profanato, idealizzato e posto al vertice ontologico- noetico dell’esistenza (la “casa dell’essere” di Heidegger ), e insieme violato, abusato, vulnerato da divergenti esperimenti trasgressivi-rigenerativi dei suoi “custodi”, poeti e filosofi, il linguaggio, da elemento di mediazione del numinoso e del metafisico, nella poetica e speculazione medievale, negli ultimi secoli è diventato strumento di evasione nel meraviglioso, scandaglio dell’inconscio, sorgente di visioni e astrazioni dal reale, e di analisi sempre più interiorizzate, volte a cogliere le forme evolutive-performative del suo generarsi e modellarsi, nella reciproca inferenza – dialettica e antagonistica – col pensiero e con l’emozione.

In questo senso è stato fondamentale l’apporto delle scienze linguistiche e cognitive, come la semiotica di Eco e la psicolinguistica di Vigosky, che hanno esaminato le dinamiche formative del pensiero, che dalla dimensione emotiva-sentimentale, proprio attraverso i modelli linguistici forniti dal contesto culturale, si struttura, si espande, si modifica ed evolve, articolandosi nelle diverse esigenze e dimensioni teoriche, pratiche e creative.

In particolare la lingua poetica, come notava Nietzsche, contribuisce con la maggiore tensione eversiva e palingenetica ad ampliare e rimodellare forme e contenuti semantici, liberando pensiero e linguaggio dall’implicita oppressione dei modelli costituiti, cristallizzati ed obsoleti, per evincere ed esprimere, con nuovi traslati, metafore, assimilazioni e dislocazioni, nuove istanze ideali e morali, suggestioni emotive e modelli estetici, intuizioni meta-razionali ed agnizioni metafisiche.

Estremamente significativo, in questo contesto culturale, il contributo offerto dall’ultima opera di Luciana Gravina, “ L’infinito presente “, in cui vengono portati ad un grado di risultanza icastica quasi insostenibile – per mancanza di confronti e convergenze possibili - esperienze e tematiche già affrontate con notevole originalità formale e profondità concettuale in opere precedenti.

L’incanto – e il senso di smarrimento – che promanano dalla lingua di Gravina, nascono dall’implicita “ hybris “ di un gesto comunicativo ambizioso ed ieratico, nel voler catturare il nucleo rovente della sua verità, ma insieme tragico e grottesco, perché consapevole dell’inanità di tale titanico obiettivo, e quindi immediatamente intriso di umorismo e autoironia. Come nell’universo tragicomico e post-umano di Beckett, il pensiero - linguaggio si corrompe e dissacra, avvertendo l’invalicabile confine a cui è giunto, l’abissale aporia intravista, che determina conflitto, disincanto e senso del grottesco:


” Hic proprio qui dove l’inizio e la fine squiquano e sfinano,

spersi. Qui a inizio e fine sdentrati avviene d’essere a

illusione di infinito e a non luogo, perciò fermi ci

smottiamo a percorrere l’universo: di pensiero dico…”


Come si vede, la tensione aggregativa-disgregativa, concettuale-semantica s’imprime violentemente nella lingua, ne intacca l’integrità logico-sintattica, l’equilibrio prosodico-formale, ma contestualmente ne amplifica la dimensione semantica, moltiplicando le implicanze emotivo-musicali. Complesse e stratificate anche le afferenze filosofiche, che alludono ( come nel titolo del volume ) alla nuova concezione del tempo che, da Nietzsche a Bergson, ne sovverte linearità e consecutività, concependolo come espansione ciclica, infinita dell’attimo presente.

La transizione da “ logos “ a “ melos “, scopo comune a tutta la poesia di ascendenza orfico-simbolista, sintomo di disagio ad accettare l’immanenza dell’essere, incapacità a limitarsi ad un orizzonte esistenziale codificato dalla ragione empirica ed esigenza di trasfigurazione ed ascesi dalla realtà quotidiana, qui assume una fisionomia drammatica e provocatoria: si assiste come ad un rivolgersi della lingua su se stessa, per evocare il proprio percorso generativo, analizzarne i limiti, evidenziarne contrasti e lacune, traducendoli e sublimandoli in sorprendenti neologismi, che lasciano ammirati e storditi, per la loro frequenza, complessità strutturale e polivalenza semantica:


“ Avessi spersuaso l’occhio alla

crudezza eunte del biondo capello, della sottigliezza al

fianco esperta, trafilata sul nunc...

Cosicché è l’io che attracca sfrantato e si addimora nel

contorno di liquido sfocato che si sdrama alle mani…”


Le possibili ascendenze e contiguità stilistiche – Joyce, Zanzotto, Sanguineti – possono solo in parte illustrare e definire trame e percorsi di questa lingua ricca di cangianti sfumature e suggestioni, che non sono mai gratuite ma funzionali ad un’impervia inquisizione epistemologica:


“ Transeunte

passeggero, caduco, come suol dirsi, mi pare ora, nunc,

appunto, ma allora apparvemi il tutto, l’essenza, la pienezza,

non il refolo dell’hic, di quando il tempo prigioniero

si cammina dimidiato tra passato e futuro….”


La violenza esercitata sul linguaggio è necessitata dall’ansia di liberazione dalle catene logico-razionali che impediscono di attingere l’ultima verità. L’agnosticismo di Gravina, erede di quello dei grandi ermetici, come Montale o Celan, si esprime con un suggestivo percorso catabatico-anagogico, sprofondato nella fisicità dell’io, come in un labirinto di codici da decifrare, per recuperare la visione perduta dell’autentica verità e salvezza:

L’avessi saputa la via, la mia, quella giusta che dalla rotula

dei ginocchi, di entrambi dico, sul punto che la svela, se

consapevole andassi. L’avessi visto il punto, del quinto

dico, cosicché messo a energia, mi chiarisse un sentiero

almeno, di quelli giusti, non dico la via, ma la direzione che

diretta mi conducesse, un piccolo straforo di luce,

un’illusione di delirio, di quello giusto, appunto,

di giusta direzione. “

Ancora una volta – come in Mallarmè, Kafka, Camus e in molti dei maggiori autori del novecento – è il tono della disfatta, della resa ( anche se gloriosa, inebriante, seduttiva ) che prevale. In una cultura che molti definiscono postuma, che sopravvive a dogmi e codici perduti, il cammino verso la luce di un’autentica verità sembra precluso. Ma se ci sono ancora voci poetiche così intense e appassionate, ricche di memoria e slancio verso una possibile palingenesi, non è detto che debba esserlo per sempre.

Carlo Livia

L'infinito presente. Prefazione di Rino Malinconico

La faticosa riconciliazione col mondo

note su L’infinito presente di Luciana Gravina

di Rino Malinconico

Sono particolarmente avvolgenti questi versi di Luciana Gravina; e se vengono letti a voce alta trascinano senza sforzo con sé i sensi del lettore. Chiedono, infatti, di essere soprattutto ascoltati, talvolta alla maniera delle affabulazioni cui ci ha abituati Carmelo Bene, talaltra come un buon jazz “freddo”, quando i fiati prolungano in un lungo volo lo strazio infinito della solitudine.

E’ lo stile ormai consolidato dell’autrice, che va accolta come una delle voci più originali e consapevoli del neosperimen-talismo poetico, nel solco dell’avanguardia che ha segnato in maniera estremamente significativa l’ultima nostra produ-zione letteraria, dal gruppo ‘63 al gruppo ’93 fino ai nostri giorni.

La voce di Gravina è particolarmente felice nel contraddire linguisticamente ogni regola ed ogni convenzione. Le parole sono piegate a significazioni inusitate, i neologismi si sus-seguono in maniera vertiginosa, connotando col suono e l'evocazione semantica il fluire stringente del verso. Continua così l'azione di contrasto che Gravina persegue fin dall’avvio della sua personalissima ricerca poetica: contrasto verso il manierismo ermetico, verso l'accademismo di tanta poesia civile, verso il sentimentalismo della tradizione

romantica italiana, che ancora prosegue per infiniti rivoli.

Stavolta però, perché c'è un però in questo suo libro, si coglie agevolmente, da più punti di vista, se non un cambiamento assoluto, di certo una mutazione di percorso, una sorta di nuovo inizio. E’ particolarmente vero sul piano dei contenuti e dell'orizzonte ideale, ma è possibile rinvenirlo anche nella resa stilistica. I neologismi, le allitterazioni, le anafore, gli enjambement, le anastrofi, gli asindeti divengono in questi versi più nitidi e diretti, quasi come se si recuperasse intenzionalmente, seppure con la distanza del tempo, l'eleganza sonora di Petrarca e del suo Canzoniere. Ovviamente l’unitarietà del linguaggio petrarchesco ne esce sbriciolata: siamo pur sempre sul versante dello sperimentalismo poetico; e la pluralità (peraltro sempre controllata e mai fine a se stessa) dei registri ritmici e linguistici non è messa affatto in discussione. Ma si intravede facilmente anche una delicatezza rarefatta del lessico e una allusività quasi colloquiale del verso; e questa lucida tensione alla compostezza ci dice della chiara novità intervenuta sul piano del paesaggio, dell’emozione e degli oggetti che la poesia di Gravina si propone di portare alla luce.

Per certi versi si tratta di uno sviluppo del panismo già proposto con la raccolta “Del senso e del sé”; ma a distanza di cinque anni il residuo simbolico tende a

convertirsi quanto più possibile nella densità delle cose. Il testo d’apertura racconta di un gioiello a forma di spirale. Indagato con stupefatta aulicità di linguaggio, viene proposto come trasparente specchio del sé e delle molteplici sinuosità dell’animo umano. Permane ancora la valenza simbolica, ma quel gioiello si presenta soprattutto in quanto concreto percorso di “facimento”: è costruzione della cosa e contemporaneamente costruzione del soggetto che produce la cosa, l’uomo/a per come l’aveva disegnato Leonardo nel disegno notissimo ispirato alle misure classiche definite da Vitruvio. Proprio producendolo/a (o descrivendolo/a, è lo stesso) egli/ella alfine sevince, consegnandoci con l’esito finale anche uno splendido neologismo, ambiguamente agente, che mette assieme la seduzione e la vittoria, il trionfo e la sconfitta.

Il piano del lavoro poetico diventa perciò un vero e proprio “compiersi”, esattamente nel suo duplice significato: come conclusione dello slancio vitale (… ricondurre ogni / clamore e morìrlo questo èlan bergsoniano), ma anche in quanto caos che si vive (ricompattarlo il caos / e vivìrlo). Il percorso di Gravina si precisa dunque come un guadare l'avventura, come enèrgheia, come flusso permanente e irrisolto che giunge infine ad un approdo, sia pure instabile e provvisorio, ad una sorta di momentanea condizione statica. E’ un risultato che appassiona (in quanto amore intellettuale di sé, in quanto dialogo interiore) e contemporaneamente dà tormento, poiché allude inevitabilmente alla finitudine:

cosicché

trovatala, ad hora quasi tarda, mi passiona.

Questa ambiziosa e riuscitissima prova poetica è strutturata in tre parti, con un vero e proprio poemetto centrale, preceduto da un lungo testo (Spiralitudine, termine che potrebbe significare più cose: dalla più immediata “latitudine del fuoco” alla sua evocazione trasognata, e persino al lamento per la sua consumazione), e seguito da una sezione di “recuperi”, poesie apparse su riviste, proposte qui per la prima volta nel loro insieme.

Il poemetto (Percezioni), che a sua volta presenta una propria straordinaria introduzione poetica, è ovviamente il cuore del libro. E però non lo esaurisce. Ha bisogno, per fissarsi in modo definitivo, del testo poetico d’apertura, ma anche delle poesie messe a conclusione, di modo che l’architettura dell’impianto e la successione dei testi contribuiscono proprio alla dimensione concettuale dell’“infinito presente”, che non è solo un titolo ma la vera posta in gioco, la conquista finale che Gravina persegue sul piano dei contenuti non meno che sul piano dello stile.

Già, l’infinito presente. Non è qualcosa che ci viene regalato, ma una conquista faticosa. E non è neppure rinuncia al tempo tripartito o al funambolismo insopprimibile dell’essere umano (biduo, triduo, multiforme milliguo), poiché comprende dentro di sé ogni cosa: la provvisorietà del presente e contemporaneamente la irrevocabilità del passato e l’inconosciuto del futuro. Ma si arriva a questo possesso per un sentiero tortuoso, che è di conoscenza del sé non meno che lavoro di trasformazione del se medesimo.

L'introduzione del poemetto è un vero e proprio manifesto programmatico, svolto in forma di racconto favoloso. Di fronte a noi agiscono dicotomicamente l’esprit de finesse (poesia, sentimento, emozione) e l’esprit de geometrie (logica, pensiero, costruzione). Non si tratta soltanto delle dinamiche conoscitive esaminate da Pascal, ma di due modi distinti di vivere e viversi. La loro tendenza naturale è di procedere per sentieri distinti, tendenzialmente opposti; e però almeno una volta l'autrice è riuscita ad incontrarle assieme queste due forme umane, come tutto, pienezza, essenza. Non è stata la visione distinta di una testa ancipite, ma un flusso intensissimo di sensazioni, vissute direttamente dal corpo, alla maniera di come avviene per il concerto numero 21 di Mozart, auscultato, appunto, attraverso la pelle. La verità si precisa, allora, come liberazione di vibrazioni, e questa sua fisicità permette all’uomo/donna di sottrarre finalmente all’oblio le sue quattro dita inerti sull’attesa di suonare un oboe (splendido omaggio a Quasimodo, col quale Gravina condivide il sotterraneo riferimento alla lirica greca), troppo a lungo sommerso dalle sedimentazioni plurime dell'esistenza.

Il poemetto porta a piena evidenza quanto affermato dall’introduzione: tanto l’incontro con sé quanto l’incontro di sé col mondo sono mediati dai punti del chakra, la “ruota” che nella tradizione indiana, ma anche in alcune teosofie occidentali, collega i centri di forza vitali del nostro corpo: dal petto, dove le iridescenze e le collere tengo alle mani, alla mente, che si configura come poiein e mette a punto d'azione, alla deam-bulazione (la rotula dei ginocchi), che non ci dice da che parte stia la giusta direzione, e però ci permette di avviarci a un piccolo straforo di luce, un'illusione di delirio. E poi ci sono le vertebre del collo, che indicano la tensione all'altro, l'amore (sapessi... amarlo l'amore... perché splenda di luce finalmente assolta), la spalla sinistra, che dà il coraggio di restar fermi, il tallone, per ricomporre la figura, pur se mi ci sdrovino ripetuta, fatta fragile...

Ma non serve qui ripercorrere la mappa complessa che Gravina sapientemente traccia lungo il corpo di ciascuno di noi. Va colto invece come quei punti configurino un procedere faticoso di conquista che spacca il limite presunto e si proietta oltre il causativo pensiero. Un cammino agro, impietoso, perfino crudele, nel cui tracciato le voglie si sderenano e obliquamente distrama l'infinito. Ma c'è alla fine un approdo, sia pure provvisorio: è l'equilibrio inaspettato del sé reso consapevole, una spirale perfetta dove si satura questo passato a spigoli.

Ecco allora l'infinito presente, come epifania dell’armonia, come verità nascosta. Un lungo viaggio dell’anima che parte come slancio, il me vera, come ceneri date a un vento irrisolto, ed è poi spinto in avanti dal desiderio di possederli tutti, i punti ottusi, riattivandoli con la forza stessa del percorso per sfondarli i limiti e attramarli di nuovo come di fresca nascita. Qui è dunque la svolta. Gravina ci indica il modo di passare da una vita rimediata ad una vita riappropriata perché quisqueciascuno è fabbro, e l'azione poetica è davvero capace di smottarla questa oscurità permanente riconducendo l’umano a luce di fresca nascita di un infinito presente. La novità si precisa dunque come ricomposizione, come possibile amicizia con le cose.

La neoavanguardia e lo sperimentalismo poetico si sono mossi costantemente sulla linea del contrasto. Gravina ha tesaurizzato tutta la ricchezza formale dell'esperienza sperimentalista, ma la piega in questa sua ultima fatica poetica alla conquista dell’altro. Non più solo l'autore e il suo linguaggio, ma l'autore, il suo linguaggio e il lettore, in direzione di un nuovo ponte comunicativo additato quasi come possibile e necessaria maturazione della stessa vicenda poetica della neoavanguardia.

Così le poesie poste a conclusione, che rinviano a un altro periodo della produzione artistica di Gravina, si pongono a compiuto suggello: sono il lontano punto di partenza che l'autrice, raggiunto finalmente un orizzonte di significazione generale, si volta a contemplare con un miscuglio di distanza e simpatia. Senza di essi, senza la radicale operazione di rottura col “poetese” della tradizione, questo ritrovamento di sé in un contesto che postula anche l'altro e questa espli-citazione dello hic et nunc che postula anche lo inde et semper non si sarebbero potuti compiere.

Il mio ultimo libro di poesia


E' fresco di stampa, per AltrEdizioni Casa Editrice, il mio ultimo lavoro poetico "L'infinito presente". E' stato presentato il 31 marzo presso la Biblioteca Vallicelliana di Roma con un notevole intervento di Rino Malinconico.