venerdì 12 ottobre 2012

Cetta Petrollo, Ve la racconto così, 2012

Salve,
vi posto anche la presentazione che ho fatto presso Alef di questo delizioso volume di narrativa di Cetta Petrollo.



Con questo nuovo lavoro Cetta Petrollo continua a proporre la qualità di una ricerca narratoriale che è esistenziale e linguistica e che parte da lontano. Comincia infatti già  in quel Senza permesso di soggiorno che inaugurava coraggiosamente uno strano linguaggio, quello della badante extracomunitaria, linguaggio riproposto poi in Salto della corda, attraverso il recupero di un’epoca della propria esistenza.
 Mi sembrava che l’orizzonte di senso del percorso memoriale messo in essere da quella scrittura consistesse in una progressiva autointerpretazione e autodefinizione esistenziale.
Nel senso che, la ricerca, esperita attraverso la formatività della parola che mette in codice la memoria, mirasse non tanto a consegnare l’esperienza al lettore, trovandoci in realtà davanti a un lettore più in fabula che in causa, quanto ad appropriarsi della esperienza in questione in virtù della specularità realtà/letteratura.
A partire dal titolo Il salto della corda,  portatore, come buona parte dei titoli, di enigma, che si chiarisce  progressivamente nello sviluppo del testo.
In questo nuovo lavoro mi pare che l’impianto retorico abbia un balzo, una chiara apertura intenzionale, sia per quanto riguarda il genere, sia per quanto riguarda l’interlocutore/lettore. Già nel titolo.
Te racconto così enuncia un tu nel quale il lettore si sente immediatamente coinvolto, anche se poi vedremo che questo tu è rivolto ad altro o anche ad altro.  Significa che il processo di seduzione del lettore da parte del testo comincia con una stoccata di faccia, e poi “chi ha coraggio mi segua”.
(Quando parlo di seduzione del testo alludo alla definizione che ne ha dato Roland Barthes “Le texte que vous ècrivez doit me donner la peuvre qu’il me desire. Cette peuvre existe: c’est l’écriture. L’écriture est ceci: la science des jouissances du language, son kãmãsutra (de cette science, il n’y a qu’un traité: l’écriture elle-même)”. (Il testo che voi scrivete deve darmi la prova che mi desidera. Questa prova esiste: è la scrittura. La scrittura è questo: la scienza del godimento del linguaggio, il suo kamasutra (di questa scienza non v’è che un trattato: la scrittura ella stessa.)”
Tornando al titolo, Te la racconto così, rinveniamo subito un altro enunciato importante: il genere letterario, il racconto.
E perché l’autrice sente il bisogno di enunciarlo? Perché non si tratta di un libro di racconti costruiti secondo teoria, per esempio con un incipit, un corpus, un finale che lo metta in tondo, l’azione, il protagonista, i personaggi minori, l’attenzione ai tempi. No.
Qui, tutto il libro è un racconto con i suoi tempi impertinenti che non rispettano le ore e le stagioni, ma tuttavia le descrivono, spesso evocandole, con due protagoniste che non hanno nome, perché non ce n’è bisogno, talmente sono individuabili, con questa interlocutrice che sembra stare in sottofondo ma poi di tanto in tanto all’improvviso con un’abile zoommata balza in primo piano.
E il tutto è dentro una megametafora, come avvolto in un velo trasparente.
Perché questo racconto è raccontato così (ed è questa l’altra indicazione del titolo Te la racconto così), come si sono sempre raccontati gli uomini: dai dipinti sulle pareti delle caverne, ai clips delle webcam, gli uomini hanno fissato il sé e il fuori da sé nel grande corpus della produzione di senso che è alla base della civiltà umana.
Ora, mentre il raccontare è un bisogno primordiale, il come, se è legato al processo estetico, non origina da una funzione ragionante: “è affare di libertà” direbbe Pareyson.
Ma non è neanche arbitrio.
E il Così enuncia la modalità della produzione testuale, che quindi non è semplicismo o ignoranza o inadempienza della norma.
La scrittrice sa bene che qualunque scrittura è un gioco normato e lei le regole le conosce così bene che può proporre le proprie. (Quando so esattamente come si fa, posso anche deviare)
Mi sembra, che questo titolo così aperto e che, per dirla con Greimas, è un “débrayage enunciazionale”, abbia alle spalle una narratrice che “costruendo il discorso, si mette in discorso” (Marsciani).
E così ho guardato al testo in questione nell’ottica di questa strategia narrativa. 
La fluidità di questa scrittura esprime lo sguardo leggero, ma non superficiale, con cui l’autrice si imbarca nelle vicende della vita e osserva il mondo.
Sembra buttata giù di getto e invece è molto costruita, molto scritta, pur nella sua cifra veloce, scorrevole, colloquiale, che sembra davvero impensata nel senso che non appare il frutto di un lungo cogitare, e il che può essere, perché non sappiamo quanto a lungo queste scritture abbiano parcheggiato e sonnecchiato nel retropensiero.
E’ dentro questo andamento espressivo, provocatorio e divertente, gioioso e a volte anche  attraversato da una sottile e appena percettibile malinconia, che questa scrittura sembra brillare di luce propria perché ha le sue regole, dove il pronome relativo non ci  pensa proprio a declinarsi, alla faccia di tutte le grammatiche, e gli accapo muovono il testo come una poesia, dove le cose e le sensazioni minime, che sembravano dimenticate, tornano in superficie immaginifiche ed emozionali.
Proprio dentro questa jouissance si snodano le storie che molte volte nel testo sono definite anche favole. E lo sono perché spesso si concludono con  la battuta spiazzante, proprio come si conviene alla favole ed è ciò che la differenzia dalla fiaba che non ha la morale.
E ovviamente la Favolissima è quella della propria vita, della propria nascita nell’anno 1950, quello dell’Anno Santo e degli antibiotici, un ricordo capace di situarsi anche prima della nascita, nella pancia della mamma di cui la foto sotto il muro.
Riporto appunto da Favolissima, a pag 60 “…gli uomini sono come le favole, uno simile all’altro non ce n’è, e la favola che si conosce meglio è la propria anche se è senza conclusione che la vedi intanto che la racconti e più tempo passi a raccontarla e più la vedi.”  Mi sembra l’appropriazione della propria vita attraverso il raccontare: come è anche a pag 104 “…ecco la nostra favola sarà diversa e la potremo raccontare solo noi  e nessuno ci potrà scippare la nostra vita anche se intorno si affollano giocatori in età.”
Una nota costante di questo testo è il rapporto con l’interlocutore che prevede il vezzo di definirlo solo in parte, per lasciare aperto lo spazio dell’immaginazione. E’ comunque un dialogo ininterrotto.
Io ho immaginato che fosse una bambina (la figlia? la generazione giovane?) che si apre alla vita e che l’autrice conduce alla scoperta dei misteri della vita, appunto, non i misteri dei massimi sistemi, bensì quelli della vita quotidiana e l’autrice è convinta che passarle un po’ della sua esperienza infantile e adolescenziale possa darle degli strumenti in più per orientarsi. E quindi spesso il racconto si scioglie in consigli, raccomandazioni.
Ma, come ho già detto in apertura, immagino che l’interlocutore sia metaforicamente il lettore.
E’ la struttura retorica che tiene fino in fondo.
Un racconto interessante è sicuramente “Mogli”.  Ci sono racconti brevissimi di poche parole, ma che contengono in sé un tempo lunghissimo, come per esempio quel famoso racconto brevissimo di Augusto Monterroso “Quando despertò el dinosaurio todavia estava allì” che in sette parole allude ad tempo lunghissimo. Ebbene, c’è una frase di questo racconto di Cetta Petrollo che per me ha la medesima forza espressiva. “Una volta le badanti si chiamavano mogli”.(pag.42) Dentro c’è un tempo lunghissimo che è quello del femminismo, che comincia dalle mogli e arriva alle badanti. C’è tutto il femminismo, dentro.
L’autrice è sicuramente esperta della tecnica della cumulatio, una figura retorica adoperata da sempre dagli scrittori, una elencazione di cose o luoghi e fatti in sequenza e in questo testo, proprio per l’autonomia espressiva rivendicata dall’autrice, è rigorosamente senza le virgole, e che nel contesto assume una funzione informativo/ evocativa di effetto.
Dunque, tanti racconti o storie o favole, piccoli, a volte cortissimi e sorprendenti: un mosaico dalle tessere luminose e trasparenti che ci riportano a un tempo recente, ma che sarebbe irrimediabilmente perso, se non ci fossero i libri come questo di Cetta Petrollo a inchiodarli nella memoria. 
Cosicché, il così del titolo si definisce anche in questo modo garbato, leggero, veloce, colloquiale, antigrammaticale libero, di una libertà fortemente voluta, con cui ci vengono consegnati fatti, persone, oggetti, emozioni, pensieri, riflessioni: Procida, Amanti, Maria Concetta, Caffè, Il gelato, Favolissima, Sorelle, Vecchiaia e Come mi piace raccontare. Sono soltanto alcuni titoli dei numerosi racconti di cui è costituito il volume.
Giustamente nella postfazione della Sgavicchia è stato indicato in questo narrare l’arte della gioia, ma se è vero, come è vero, che “scrivere è essere”, l’arte della gioia è anche nel vivere e nell’essere di questa feconda narratrice. E di ciò è portatrice questa scrittura, oltre che di cultura e di intellettualità. Questa scrittura così femmina, piuttosto che femminista.                                                             Luciana Gravina




 


Roseward, Fantasmi e paure, Il giro di vite oltre Britten e James, Altredizioni, 2012 alla Fiera del Libro di Spoleto.


Questo libro che ho presentato il primo settembre  alla fiera del libro di Spoleto
propone un tema inquietante: quello del mistero dell'uomo dopo la morte.
Mi ha intrigato molto e vi posto la relazione che ho tenuto in quella sede.

Roseward, Fantasmi e paure, Il giro di vite oltre  Britten e James, Altredizioni, 2012
Il primo titolo della collana  Telos Eisioteo di Altredizioni  enuncia di per sé la complessità dell’argomento in quanto attinente a due condizioni umane primordiali e problematiche quali la paura e l’inquietudine del post mortem.
Questi Temi vengono esplorati in un’opera proposta da due autori quanto mai problematici in generi diversi, James, narratore  e Britten, musicista, ma che hanno ispirato anche molti cineasti come Jack Clyton, Peter Weigl, Ben Bolt,  Katie Mitchel, Tim Fywell e alludo ai film direttamente riferiti all’opera in questione, glissando su quelli che ne hanno tratto soltanto ispirazione.
Nella Prefazione il curatore, Edoardo Ciampi,  espone subito una dichiarazione di metodo; enuncia cioè la prospettiva entro la quale intende analizzare l’opera che è quella esoterica, chiosando in primis (pag. 7) il termine “esoterico” in quanto “ciò che è interno (come principio di ciò che è esterno e complementare), mentre il senso anagogico fa riferimento ad un intimo significato spirituale, “ciò che viene elevato”).
L’approccio anagogico chiarisce ed è in linea col “telos”, la finalità della collana editoriale che è un invito all’accostamento al Mistero inteso nella sua pura etimologia che è “mysterion” in cui la radice “mu” indica la bocca chiusa, il tacere, il silenzio, a protezione di ciò che è indicibile, ma intellegibile.
Emerge subito che la maggior fonte di riferimento dell’autore è René Guènon, il filosofo contemporaneo che ha dedicato molti suoi studi alle Tradizioni e d’altronde l’autore stesso ha all’attivo una pubblicazione su Gli esegeti della Tradizione, pubblicato con Terre sommerse.
Dunque la cifra interpretativa è decisamente lontana dalle esegesi che la critica contemporanea chiude nel cerchio limitato della sfera mentale,  psichica e razionale, ignorando l’unità spirituale che è al fondo di un’opera d’arte e che si serve del linguaggio estetico per veicolare il senso profondo del Mistero.
Nell’Introduzione l’autore enuncia le altre finalità della ricerca in atto. Così emerge a pag. 29: “Lo studio comparato di un’opera lirica e la sua fonte letteraria, ha il fine di portare alla luce quegli arricchimenti, o le eventuali entropie (che il processo di traduzione  di un testo narrativo in quello drammaturgico necessariamente comporta) che altrimenti rimarrebbero probabilmente nascosti al fruitore. Scegliere poi un testo complesso  ed enigmatico come Il giro di vite, comporta di per sé un particolare rischio: quello di un’analisi critica moderna, che nella sua ricerca spasmodica di svelare ‘tutto’, possa addirittura finire per sfinire il tutto.
Obiettivo chiaro e consapevole che denota innanzitutto una considerevole igiene mentale, degna della migliore Accademia in virtù della quale Ciampi affronta tutto il corpus del trattato passando attraverso le fasi di rito, tra le quali l’analisi dell’opera letteraria e del suo autore, Henry James, e quella di un Britten drammaturgo fortemente coeso con la dimensione di operista.
Ciò avviene attraverso un percorso comparato non solo del processo di genesi delle due opere, ma anche dei numerosi interventi critici stabilizzati soprattutto sul dualismo intimistico e psicanalitico.
A questo dualismo il Nostro oppone metodo e modus che è quello di un intellettuale che si muove dentro la filosofia delle Tradizioni iniziatiche, privilegiando l’ Ermetismo  e proponendo una ricerca nella Via dello Spirito.
Si tratta sicuramente di un testo complesso che, per il suo formato, cosiddetto “tascabile”, tende a cogliere un lettore inopinantem, cioè che non se l’aspetta, ma che poi resta coinvolto, sedotto nel senso “barthesiano, dalla lettura.
E’ inoltre un testo pregevole per la ricchezza della chiosature, che propone un tale complesso di note da potere esplicare una vera e propria funzione di indottrinamento.
L’attribuzione formale  a Roseward fa riferimento al “ristretto gruppo di persone dedite a studi di arte tradizionale e metafisica”, ma ritengo (e auspico) che per il suo valore illuminante questo lavoro possa raggiungere un pubblico ben più ampio.
                                                                   Luciana Gravina