venerdì 11 gennaio 2013

In ricordo di Maria Racioppi





Maria Racioppi, intellettuale romana di origine pugliese, è scomparsa un mese fa.
Non è facile pensare a lei come ad una persona che non c’è più, perché lei è stata nelle nostre vite, credo, in ciascuna a suo modo, come una presenza forte, affidabile, con tutto il suo contributo di una personalità complessa e rigorosa di indiscusso riferimento.
Almeno così per me.
Di lei, portatrice di molteplici doti umane, culturali e intellettuali, ammiravo e amavo soprattutto l’onestà intellettuale e l’apertura mentale con cui si accostava, e spesso affrontava, ogni aspetto della vita.
Per queste doti la sua produzione letteraria, che va dalla poesia, alla narrativa, al teatro, alla saggistica, pur essendo incastonata nel classicismo e nella tradizione, ne supera agilmente i limiti, per collocarsi in una dimensione di utilità umana e sociale e di godibilità estetica, classica e moderna ad un tempo.
E’ per questo che nella sua cifra di poeta, cantore convinto del potere salvifico della storia, sicuramente ha lasciato una traccia di indelebile sua permanenza presso i posteri.
Ne sono sicura.
Di lei ricordo la tante avventure intellettuali corse insieme in uno scambio di esperienze, di amicizia vera,  di emozioni, di stima reciproca.
Ho avuto modo di farle visita negli ultimi tempi della sua esistenza terrena. Avrei voluto farlo con maggiore assiduità e non soltanto perché lei meritava ma anche perché, pur in situazione estrema, almeno per me è stata un esempio.
Non si poteva non restare ammirati della lucidità e della consapevolezza con cui ha preparato e condotto il distacco del suo Spirito dal corpo che, rapidamente e quasi a tradimento, non ha reso più ragione della bellezza sua di una volta.

Eppure, dalla decadenza del corpo il suo Spirito di donna, di madre, di intellettuale, di artista, di amica, prendeva vigore, coraggio, splendore.
Io so con certezza che posso ricordarla così e sogno egoisticamente che non se ne vada troppo lontana da me.
So anche che è un sogno impossibile: Maria amava viaggiare e chissà come se ne andrà beata per i cosiddetti ”pascoli del cielo.
Ma io non voglio dirle addio.
                                                       



venerdì 4 gennaio 2013

Di Francesco D'Episcopo sulla mia poesia

E' questo il primo post del 2013.
Auguro a tutti i miei lettori un felice anno.

Nel 2003 uscì, dopo un lunghissimo periodo di afasia, il mio libro di poesia "M'attondo il giorno" e tra le altre sedi, fu presentato anche a Napoli, presso l'Istituto Italiano di Studi Filosofici.
Ne parlò il prof. Francesco D'Episcopo dell'Università di Napoli.
La relazione che ne fece mi è capitata sott'occhio e, poiché credo che niente accada per caso, ho pensato ad un suo desiderio (dico della relazione) di venire alla luce. 
D'altronde merita.
Francesco D'Episcopo è un intelletuale vero, senza infingimenti nel cuore e nella mente. 
Mi piace dunque postare il suo intervento per salutarlo e ringraziarlo ancora. 
Eccolo:



M’attondo il giorno di Luciana Gravina

Presentazione di Francesco D’Episcopo
Napoli, 11 novembre 2003
Istituto Italiano di Studi Filosofici


Ogni poeta ha un suo laboratorio critico e creativo nel quale realizza i suoi artifici.
Io ho presentato Luciana Gravina tanti anni fa.
Eravamo in un posto magico, uno forse dei più intriganti dell’Italia meridionale: La Scaletta di Matera.
Il nome di Scaletta, come scoprii dopo, fu dato da un poeta che io amavo e che non ho mai smesso di amare (ci sono poeti che non si può fare a meno di amare, come degli amici, le persone con cui si ha frequentazione di amicizia e di simpatia) e cioè Alfonso Gatto il quale, tra l’altro, diceva il titolare della Scaletta, consigliò a Pasolini di girare Il Vangelo secondo Matteo proprio in quell’ambiente. Pasolini era  andato in Palestina perché era convinto di trovare lì il territorio giusto e invece lì trovò soprattutto le droghe e rimase scandalizzato. Gli fu detto: “Renditi conto di che cosa hai davanti a te” e chi è stato nei Sassi sa appunto di quella realtà.
Quella in cui presentai Luciana Gravina fu una serata molto bella, molto intensa, da mettere appunto nel grembo di un sasso, diciamo così, materano, in cui si respirava quest’aria magica e ricordo che io, parlando di tante cose, ebbi l’idea di suggerire di fare un’antologia di poetesse lucane (allora Luciana Gravina era a Montalbano Jonico, in Lucania, c’eravamo incontrati a Pisticci). C’era lì una poetessa che colse al volo questo suggerimento e di lì a qualche anno pubblicò con una piccola casa editrice una raccolta delle poetesse lucane in cui figura anche la poesia di Luciana Gravina. Lo voglio ricordare perché c’è stato un lungo abbandono della poesia da parte di Luciana, forse perché anche la sua vita è cambiata. Sono accadute tante cose: la sua andata a Roma,  la sua intensa attività ministeriale e poi il suo impegno con l’UNSA, Unione Nazionale Scrittori e Artisti, questo bellissimo sindacato che sta operando, non dico per il bene dell’umanità, ma sicuramente per il bene della poesia, non solo a Roma, ma in tutta  Italia.
A questo libro arriva dopo un lungo silenzio.
I silenzi sono generalmente favorevoli nel senso che i silenzi sono seri: se non si scrive, se non si pubblica, non lo si fa per evidenti ragioni, avrebbe detto Croce o qualche altro, di ispirazione, anche se alcune cose erano state partorite, quindi comunque erano nate, erano state messe da parte per aspettare il momento buono perché in fondo lo scrittore  aspetta sempre il momento buono non solo per l’ispirazione, ma anche per la pubblicazione perché queste cose che nascono trovino la loro consistenza, una loro armonia.
E direi che questo libro, infatti, un po’ come tutti i libri di Luciana Gravina è un libro orchestrale, cioè un libro  non direi rapsodico, ma sinfonico, nel senso che rispecchia una certa costruzione mentale da parte della poetessa e la necessità di mettere ordine in questo labirinto, in questo dedalo di emozioni, di pensieri che chiedono di venire alla luce, di esprimersi, di trovare un accordo o un disaccordo, e qui infatti l’orchestrazione non è certo sinfonica in senso tradizionale, ma direi quasi dodecafonica, del senso che Luciana Gravina da sempre rigetta tutto ciò che è bello, tra virgolette, cercate però di capirmi, perché vorrei dare il senso di questa bellezza, cerca in fondo ciò che si nasconde, insomma, ciò che è più difficile, cerca anche quel suffisso negativo greco che ricorre spesso nelle sue costruzioni poetiche, quell’ius, che ci avevano insegnato al liceo e che ci avevano confermato all’università, che è il senso un po’ negativo dell’essere, dal quale bisogna partire per cominciare a costruire la poesia e l’esistenza stessa.
E questo si nota, c’è una sorta di corpo a corpo in questa raccolta tra le parole che nascono e hanno una sorta di sviluppo biologico nel senso che  nel momento in cui sono nate, sono come le cellule apparentemente impazzite che però non trovano il luogo, il grembo giusto per la fecondazione, cioè il grembo dell’espressione, una sorta di ovulazione verbale, se così si può dire, qualcosa in cui si realizza questa maternità che è forse espressione di un altro segreto, l’antro più segreto forse della femminilità, quell’antro che non si scopre non per pudore, ma proprio perché il pudore appartiene a quella natura più genuina dell’essere donna, dell’essere foemina, di quell’essere appunto, come diceva Enzo Striano, l’ostia della storia, questa femminilità offerta in qualche modo alla vita.
Si comincia per flauto e oboe, ci sono gli intermezzi e si arriva ad una terza sezione composta da scherzi, elegie e lamenti e questo già dà il senso di un forte sperimentalismo, sia poetico che verbale, cioè Luciana sa bene come parte in genere quando comincia a fare le cose, perché voi sapete che il termine più genuino di poesia è proprio fare, poiein, cioè fare le parole, fare la vita, forse rifare la vita, che in qualche modo abbia con la vita a che fare, ma sempre fino ad un certo punto anche confondiamo spesso il lato autobiografico con la poesia, siamo sempre dei dilettanti portati  a immaginare che la poesia debba esprimere qualcosa della nostra esistenza, qualche volta la poesia è un surplus rispetto alla stessa esistenza, è qualcosa che viene prima o che viene dopo, non ha niente a che spartire con le cose che si fanno, anche i suoi percorsi: è veramente un laboratorio che a volte se ne va per i fatti suoi e questo è un senso di grande modernità, la parola inventa i propri percorsi. Credo che gli aspetti più significativi della poesia di Luciana Gravina siano proprio nell’invenzione della parola come invenzione del mondo, cioè la capacità di creare parole, attraverso un gioco a volte anche spericolato, molto serio, in cui queste parole trovano suoni, immagini, metafore, analogie, sinestesie soprattutto di carattere fisico e mentale, perché questa è una poesia di sdoppiamenti e raddoppiamenti, come in fondo ogni poesia consapevolmente contemporanea; sdoppiamenti nel senso che c’è sempre questo rapporto molto importante nella poesia  tra il corpo e la mente, alla ricerca dell’equilibrio, alla ricerca di una funzione che possa in qualche modo unificare le spinte di questi elementi: il corpo con le sue esigenze primordiali e la mente che rischia in qualche modo di apparire mostruosa rispetto allo stesso corpo, di non armonizzarsi a volte totalmente, come un’altra forma di sdoppiamento, per esempio, l’io, questo io il quale invoca umilmente di ritornare a un siamo, ecco l’io sono che desidera inventare una prospettiva in cui è possibile  veramente avvolgere non solo il se stesso poetico, ma non per una forma di compiacimento, perché non credo che in questa poesia  ci sia, ma per il rischio effettivo di una poesia autoreferenziale che parli poi alla fine unicamente di se stessi, questa volta vuole uscire da sé per incontrare anche gli altri, ecco perché io sono, noi siamo. Poi , come in tutte le cose più avvertite, c’è un senso fortemente intelligente, si potrebbe anche dire troppo, ma che non guasta invece, perché è un’intelligenza profondamente accoppiata, nel senso fisico del termine a una delle doti che poi dell’intelligenza è la conseguenza più acuta, e cioè l’ironia. Essere ironici significa conservare un rapporto di passione e di distacco con la realtà e consente a volte anche un processo di teatralizzazione, cioè vedere come se stesso proiettato anche ironicamente su uno schermo dal quale in qualche modo ci si allontani, come mettersi da una parte per riconoscersi, per ritrovarsi, ma anche qualche volta, non dico per rinnegarsi, ma per stabilire un rapporto di distanza  da quell’io appunto così forte, così intenso e così ossessivo che in genere invade il mondo dei poeti. E’ un rischio dal quale Montale consigliava spesso di difendersi e ci riusciva in tanti modi, anche accostando poesia e prosa.
Non credo che in questa poesia ci sia un tentativo di mettere insieme questi due elementi: la poesia è poesia e basta, ha i suoi percorsi fondamentalmente alti, nel senso che il linguaggio è sempre fortemente consapevole, sostenuto, è un linguaggio ritmico, avete infatti visto come ha recitato la sua poesia, come se fosse un’incarnazione del proprio corpo e della propria mente, come è sempre auspicabile che un buon poeta legga se stesso, secondo i sussulti del proprio sangue e soprattutto rendendo anche le immagini che sono nate da quel silenzio, da quella solitudine che genera generalmente la poesia, le sensazioni che sono state date e nello stesso tempo poi una fortissima abilità anche prosodica che riguarda la costruzione del sonetto e dei tanti generi letterari che si assemblano all’interno di questa raccolta  che quindi è una raccolta molto interessante.
Io ho avuto sempre molta stima della poesia di Luciana Gravina, stima che ho confermato anche qualche attimo fa  e secondo me meriterebbe anche un migliore destino editoriale,( voi sapete che le cose che facciamo, anche se ottime, quando non hanno un corrispettivo editoriale adeguato, nonostante gli sforzi, anche meritori, che tutti qui facciamo per creare un’editoria che possa arrivare in qualche modo al pubblico, ma purtroppo tutti sappiamo qual è la strategia delle case editrici in Italia), è una poesia che meriterebbe una maggiore attenzione, un maggiore ascolto, una maggiore diffusione, perché ci sono veramente tutti gli elementi per imporre Luciana Gravina all’attenzione più vasta, per la complessità per la varietà dei temi, per il gioco, perché la poesia è anche gioco, è ludus nel senso più genuino del termine.