martedì 5 febbraio 2013

Luciana Gravina e la spirale conoscitiva della sua poesia di Claudia Pagan

Salve a tutti,

mi piace  postare l'intervento che Claudia Pagan ha fatto sul mio ultimo libro L'infinito presente.
E' un intervento complesso e molto colto che prende le mosse dai poeti della Neoavanguardia e percorre nell'ottica sperimentale anche i miei due libri precedenti e cioè M'attondo il giorno del 2001 e Del senso e del sé del 2006. Claudia  Pagan ha interpetrato il percorso poetico dei miei ultimi tre libri con sensibilità, raffinatezza e appropriatezza confermandosi nella mia personale stima e considerazione come un'intellettuale moderna e attenta all'evoluzione dei fatti letterari che caratterizzano il nostro tempo. Per fortuna non è una passsatista con pregiudizi sulla poesia che un poco si discosti dal lirismo decadente e abusato del secolo scorso e pur evidenziando uno sforzo esegetico per le asperità del dettato della mia poesia ha il merito di averla affrontata con onestà mentale e con passione. Le sono molto grata.


Luciana Gravina e la spirale conoscitiva della sua poesia di Claudia Pagan 

Quando Luciana Gravina mi ha proposto di partecipare a un incontro sul suo “L’infinito presente” ho colto l’invito come un’occasione non solo per festeggiare la recente opera della cara amica, ma anche per riflettere su una fase particolarmente significativa della nostra storia letteraria.
Infatti Luciana mi raccontava che alcuni suoi testi erano stati pubblicati negli anni novanta sul Verri, la gloriosa rivista che nell’autunno del ‘56 portava un saggio di Luciano Anceschi di importanza storica, qualificandosi soprattutto come rivista degli scrittori della cosiddetta Neoavanguardia (per distinguersi dalle Avanguardie del primo Novecento) e in particolare di quello che si chiamò poi Gruppo 63.
A suo tempo, quando ancora vivevo in Friuli, ho seguito, per quanto marginalmente, le vicende di questo gruppo di punta. Ma purtroppo mi capita sempre più raramente di incontrare qualche testimone di quell’epoca straordinaria, così vitale, problematica e innovatrice. Uno dopo l’altro se ne sono andati i più illustri rappresentanti del gruppo dei Novissimi: Antonio Porta, scomparso nell’89, Alfredo Giuliani, Sanguineti e Pagliarani, che fino allo scorso anno sedeva in prima fila alla Vallicelliana.
Erano autori che,  nel vasto dibattito culturale di quegli anni e nel mutamento del generale contesto, ponevano a fondamento della loro azione (così amavano chiamarla) la polemica contro la tradizione letteraria postermetica e neorealista degli anni 50, in nome di un rinnovamento radicale di struttura, di linguaggio , di tecnica, coinvolgendo nel loro rifiuta l’intera società capitalistica  industriale tecnologica  masmediale con tutte le sue implicazioni.
Pur nella diversità delle posizioni, i Novissimi teorizzavano una rappresentazione della realtà che mettesse in luce quanto di caotico di assurdo di irrazionale essa contiene. Ecco appunto le figure del Caos e del Labirinto, la disarticolazione  delle strutture del linguaggio, il disordine del discorso, il pastiche linguistico, l’ironia mordace, il divertissement.
Il principio comune da difendere era che l’arte, qualsiasi arte, prima di preoccuparsi dei cosiddetti contenuti e messaggi, dovesse compiere in modo autonomo la sua rivoluzione prevalentemente formale ( era evidente l’intento provocatorio e l’influsso dello Strutturalismo di Saussure e dle formalismo di Jacobson).
Palestra per questi accesi dibattiti furono riviste come il citato Verri, Officina, fondata da Pasolini, (1955-58), il Quindici che ebbe vita piuttosto breve a causa di divergenze interne e il Caffè di Giambattista Vicari. Uscirono in quegli anni anche gli atti  dei due convegni di Palermo e del Convegno di Reggio Emilia.
Molto fervore dunque, ma anche incertezza per il futuro, per gil sviluppi della nostra letteratura. Lo stesso Anceschi aveva detto:”La novità non si presenta più sotto la forma della grande ribellione ma in un modo di discrezione in cui vive la consapevolezza che dietro la rottura si scopre presto la continuità  e che la continuità opera proprio attraverso la rottura”. Parole che si rivelarono profetiche quando, al logorarsi dell’esperienza neoavanguardistica si progettarono sviluppi e schieramenti diversi.
Riassumendo, potremmo individuare tre tendenze principali:
a)     Asserzione da parte di alcuni dell’impossibilità di qualsiasi comunicazione. Teoria della morte dell’arte. Afasia.
b)    Constatazione dell’insensatezza  del mondo, dell’alienazione, del caos, che può anche tradursi in un “gioco linguistico” (o meglio mistilinguistico, plurilinguistico) come il pastiche, il divertissement corrosivo (secondo l’esempio di Edoardo Sanguineti), l’Arcimboldo dei Novissimi. Il quale peraltro, nel frattempo dalle profonde oscurità di Laborintus  nella linea Pound, Eliot, Joys, era passato a testi meno aggressivi e più “leggibili” con influssi addirittura “crepuscolari”.
c)     Riflusso e recupero dei moduli tradizionali, retour à l’ordre, sia pure con gli apporti delle varie sperimentazioni, nel mutato contesto storico.


In questo quadro a me pare che Luciana Gravina possa essere accostata soprattutto al Sanguineti prima maniera cioè di Laborintus, per la musica atonale dei versi, l’uso sapiente del mistilinguismo e delle figure retoriche, per la densità dei contenuti psicologici onirici mitologici simbolici.
Il tutto, molto cerebrale, non esclude una venatura di sentimento, di pathos.

I tre ultimi libri di Gravina “M’attondo il giorno” del 2001, “Del senso e del sé” del 2006 e questo “L’infinito presente” del 2011 ( che contiene anche alcuni testi degli anni novanta pubblicati su varie riviste) vengono a formare quasi una trilogia che racconta un viaggio metaforico iniziatico, processo di conoscenza e di esperienza del mondo esterno e del mondo interno, cioè del proprio sé.
Come Sanguineti da Laborintus e dalla Palus putredinis, l’autrice prende le mosse per una sua discesa en abîme, per un suo processo di individuazione che, attraverso peripezie, catastrofi e infine catarsi, conduca ad una rinascita quasi alchemico-magica.
Questo percorso nel primo libro appare come una sorta di partitura musicale (Per flauto e oboe, Preludio, Intermezzi e scherzi) divisa in segmenti  (per la precisione 27) che corrispondono alle tappe di un cammino arduo e accidentato, tappe segnalate da verbi inusitati e sorprendenti ( E tu sradica … E tu brivida …. E tu dissolvi … incrocia …. resisti, ma anche Tu oboa … lamina, stregua, nudita, albica, figliati, strama, narcisa, smucchia, smargina) e via cantando e seguendo l’agogica del verbo, cioè l’impulso da cui scaturisce il ritmo musicale.
L’io  ha ceduto il passo a un tu che potrebbe essere l’alter ego dell’autrice. Il sono si trasforma in siamo. I punti di vista si moltiplicano e dopo “la caduta dell’altero io totale, scrutare l’intarsio di colori, di suoni per astuzia: suitare cosicché, oboando flautando….”
Sembra quindi  (a meno che non abbia male interpretato le asperità del dettato) che l’autrice, nonostante la destrutturazione dell’io, della lingua, e finanche dei nomi, tra dolore, depressione ed euforia, sia orientata in una direzione sostanzialmente costruttiva.
Lo attestano componimenti come quello eponimo intitolato  M’attondo il giorno, per il quale viene coniato un neologismo felicemente espressivo e Intermezzi e Scherzi in cui l’autrice spinge il pedale dell’ironia, volgendosi alla cura del corpo, al gioco erotico, come sempre pervicacemente linguistico e metalinguistico.
E anche quando a Parigi sosterà a contemplare i famosi arazzi rinascimentali  della Dame à la Licorne (la dama che, alludendo ai sensi tentatori, ispirandosi al mitico unicorno, indica le vie della virtù, della purezza, della religione) anche allora Gravina terrà ben desti i suoi cinque o sette o infiniti sensi e rivendicherà il diritto delle donne d’oggi alla cultura del corpo, alla libera sessualità, anche alla spiritualità in una visione olistica di corpo-anima, di uomo/donna e natura), visione consentanea alle filosofie orientali.
Siamo al secondo libro della trilogia e cito da pag. 11 “Cosicché pieni i cinque o sette o / infiniti ( i sensi  dico) avessi a vivermi a sfinito tempo e luogo di / natura intatta, li avessi dunque pieni, nonostante.” Nonostante che cosa? Il verso talora  si tronca bruscamente talaltra si inarca nell’enjambement, la sintassi si fa spesso trasgressiva a tradurre il magma emozionale, dove i luoghi dell’anima svariano da Granada a Milano, da Roma a Parigi, per tornare al paese dell’infanzia (vedi Nostos) al punto più profondo del suo viaggio interiore, al suo selbst.
Aleggia un senso di vanitas vanitatum, di eros e thanatos, di desiderio d’oltranza (e il mio oltre è più oltre).
Ma passiamo al terzo e ultimo libro che, almeno per il momento, sembra completare l’itinerarium mentis di Luciana Gravina.
I quattro versi riportati in quarta di copertina possono compendiare significanti e significati di queste non facili pagine “Quivi l’io mio mi riconduce e a mano mi / draga, per questo giro morbido a spirale, se di rame, se di / cuivre e, volendo anche di ottone e d’argento. Cosicché, trovatala / ad hora quasi tarda mi passiona.”
Senza l’aiuto dell’eccellente prefazione del prof. Rino Malinconico non avrei mai indovinato che la spirale, disegnata anche in copertina, non è una pura astrazione, bensì un concreto gioiello fabbricato dalla nostra amica, donna di multiforme ingegno.
La spirale, comunque sia, di rame o di altri più o meno nobili metalli,  ci appare ora come simbolo (o allegoria?) del viaggio di ricerca sempre aperto che appassiona (o fa patire?) l’autrice per quanto l’ora sia quasi tarda (e anche qui il senso è duplice, anceps).
Dopo questa aulica ouverture, nell’aura della parola e del suono due poemetti astrattamente connessi tra loro, Percezioni e Punti, ripercorrono la laboriosa quête esistenziale e letteraria della poetessa “guadare l’avventura  rimanente anche se a norma, il faut / ricondurre ogni clamore e morirlo questo elan / bergsoniano (se appena è possibile) ricompattarlo il caos / e vivìrlo.”
La scrittura presenta gli artifici retorici già notati nelle opere precedenti: molte citazioni, molte proposizioni parentetiche, neologismi (tratti dai linguaggi tecnici), latinismi, arcaismi, soprattutto francesismi, forme verbali anomale; ma, nonostante la ridondanza di questi elementi, il ritmo del verso non risulta appesantito, al contrario è trascinante (“come un buon jazz freddo, scrive Malinconico, quando i fiati prolungano in un lungo volo lo strazio infinito della solitudine.”)
Nel primo componimento predomina il rimpianto di un esprit de finesse misto a quello di geometrie, di una bellezza, di un tutto, di un’essenza e pienezza raggiungibili soltanto con l’ascolto di un concerto, del mozartiano n. 21, grazie a un fascio di sensazioni corporee che si tramutano in più nitide percezioni: conoscenza di sé e degli altri, fratellanza, tolleranza.
Al modo ottativo (ma dell’impossibilità “avessi spersuaso … avessi auscultato”) fa seguito il modo indicativo assertivo lapidario addirittura monosillabico “Io so ora di un qui ed ora……..Io ora so. E mi resetto quotidie in abitudine di vita / nova direi, anche per direzione che armonica e aperta  mi / convoglia di visione per hic et nunc. Ora e qui.”
L’intenzione è espressa in tono molto deciso. Nonostante i dolori, i rimpianti, i rimorsi, Luciana risalirà gradino per gradino le spirale della vita passando attraverso i ventuno punti previsti dalla teoria della Crescita Personale e della psicologia occidentale o i sette del Chakra cioè della ruota che nella tradizione induista o buddista collega i centri di forza vitali del nostro corpo, punti attraverso i quali dovrebbe risalire Kundalini  l’energia cosmica.
Siamo in pieno sincretismo. Il petto la mente la rotula dei ginocchi, le vertebre del collo, la spalla sinistra, il tallone …, non manca in questa elencazione una sottile venatura di ironia (che mi ricorda il Gaio corpo del poeta medico filosofo Armando Patti).
L’ottativo ormai volge alla possibilità desiderante (pag.22: “ potessi spalmare / questo tremore illuminato, limitarlo dunque / questo presente per l’infinito che ne viene e vivìrlo di chiara compiutezza e ancora mi piacerebbe cambiare / strada prossima allo sbaglio senza lunghe cogitazioni / invertire la rotta bypassando il prepensiero, corcare / l’attimo afferrato benché fuggente e vivìrlo di fresco questo /smottamento del cosiddetto amore perché / impensato, improgettato. Mi piacerebbe.”)