mercoledì 29 maggio 2013

Intervento critico di Antonio Lotierzo per il mio libro "Del senso e del sé" uscito nel 2006 per i tipi di Edizioni ArtEuropa


Antonio Lotierzo
Intorno a “Del senso e del sé” di Luciana Gravina
Pubblicata nelle Edizioni ArtEuropa, nel 2006, quest’ultima opera di poesia di Luciana Gravina si rivela di una doppia creatività: l’una suggerita dal confronto e dall’interazione con un arazzo parigino, l’altra lirica e ricognitiva  sui significati di un ritorno nei luoghi meridionali.
Tutta la prima parte è un’intensa relazione mentale e poetica  che la Gravina istituisce  con gli arazzi della Fiandra che hanno per tema “La dame à la Licorne”, relazione che sempre tanti poeti hanno stabilito con un tema pittorico e dal cui confronto è scaturita una poesia eccellente (si pensi, per restare a Parigi, a Baudelaire).
Ma qui la relazione è più profonda ed è di natura simbolica, per la carica di ambiguità che gli arazzi contengono e le pluriespressive valenze cui rinviano, verso l’alto e verso il basso.
Dirò subito che, intesa in tale direzione, l’intera operazione poetica della Gravina si configura come un percorso alessandrino e calligrafico, come un pezzo di bravura, come un intarsio barocco di parole che riavvolgono i fili di una vita qui estremamente rarefatta.
In una premessa che vale da commento e guida ai testi, la Gravina ripercorre la rappresentazione degli arazzi, che verte sui cinque sensi, mentre il sesto appare ispirato al libero arbitrio (“Al mio desiderio soltanto”). Sono noti arazzi del Cinquecento, in cui una nobildonna illustra il piacere dei sensi, a cui, tuttavia, ella stessa non pare cedere, quasi astenendosi dal vissuto.
Sembrerebbe un percorso iconografico di tipo neoplatonico, del tutto opposto al sanguigno pulsare delle indagini di un Montaigne. Anzi, parlare del liocorno ci rimanda ancora più indietro, al bestiario medioevale ed ai poteri connessi a tale animale (fantastico, direbbe Borges).
La Gravina sottolinea che qui una donna tiene a bada le passioni, esprime la perfezione della rinuncia, la gioia della sublimazione ma tuttavia non è una Madonna, non rivolge al sacro la sua vita ma sembra voler godere e gioire di piaceri inusuali, quelli dell’immaginario. E tuttavia siamo nel polo apposto a un “giardino delle delizie” di H. Bosh e lontanissimi dalla carnalità del comico.
La Gravina, nella sua mente creativa, si mette ad interagire con tutta questa materia simbolica, operando  un confronto fra la cultura del corpo dell’arazzo e la valutazione positiva del corpo come equilibrio tra individuo e natura (il tema venne discusso, ad es. dall’educazione estetica da Shiller e Marcuse, ed è stato ripreso da U. Galimberti).
Mentre il presente dei nostri vissuti è così dilacerato e morsicato, nelle poesie della Gravina si ritrova un corpo armonizzato con lo spirito, viene resa presente l’armonia dell’universo, secondo una condizione mistica che era degli gnostici, prima che di Plotino.
E’ da questo crogiuolo di ideologia che la Gravina lascia precipitare la sua versificazione, è lei che, pertanto, risponde alle stesse caratteristiche degli arazzi, perché la poetessa diventa il liocorno, è lei che si specchia con le sue brame, adoperando la vista come il senso mirato per trascendere verso Dio, un Dio che è innamoramento e desiderio più che amore e possesso quieto.
La Gravina tende verso l’”oltre”, ma affina il mirare, giungendo alla visione di Dio, appagante e risolutiva delle differenze che scompaiono nel mistico amalgama..
La poetessa si lascia attraversare dal suono che sottopelle l’attraversa, portandola a confondersi panicamente con le cose (questa dimensione panica è relazionabile, forse,alla “Pioggia nel pineto”, tentativo altrettanto riuscito di muovere le parole a musica).
Con assonanze (giusto/gusto) si intreccia la bocca ad assaggiare situazioni marine e sofferte assenze di movimenti.
L’odorato consente di entrare, con uno squarcio caravaggesco, in una dimensione realistica, la pura e fedele resa di una cronaca parigina di dialogo fra tassista e viaggiatrice. L’odorato è una guida per raggiungere la casa. Verso Montmartre; è col fiuto che si scopre la pioggia, un umore in cui lasciare camminare la propria esistenza.
Poi viene il tocco, le carezze di seta, l’indugio delle mani fra i capelli, lo scavo che “di profondo prende”.
E nella nuova assonanza “resta quella ressa” si coniuga il “con/tatto”, anche del “ricordo/ suo che mi tiene” e si precipita verso un verso, se non petrarchesco, certo classicistico, un decasillabo, credo, di suadente ritmicità: “Ora che odo e vedo e di profumo”, che è un buon esempio di questa scrittura controllata e ambigua, che ha capacità di rinviare ad indefinite sensazioni, più che di esprimere univocamente, come il “vizio della conta”.
Nello spazio successivo, (A mon seul désir), con il determinativo “ora”, riesplode l’ora del desiderio e l’alchimia del dolore, da cui ci allontaniamo fissando i gioielli che si separano dal corpo e cerchiamo di rientrare in noi stessi (ricondurre “il sé disperso e sé).
E con un gioco di rinvii e riprese, sia da Saffo e sia dal Cantico dei Cantici, la Gravina intreccia l’ultima e più lunga poesia degli arazzi.
Si giunge così alla diversa scansione, ai versi de “I sensi del nostos”, in cui si ritorna alle brume di Policastro, che però la Gravina lega alle composizioni parigine attraverso un continuo “anche qui” ed il rientro del migrante è rimugino della fuga e del contrasto del vivere.
Con un solo lessema dialettale, la Gravina riecheggia la “vita mbruscinata”, quel necessario macchiarsi, sporcarsi con i compromessi che è proprio della quotidianità nostra, del modo con cui ognuno mastica e rimastica la vita stessa.
La poetessa si riprende il Sé, tollera la pace che le è concessa, ma s’avvede, con dolore stupefatto, della dissipazione inevitabile che è contenuta in ogni esistenza.
Con questa quinta raccolta la Gravina arricchisce il mosaico delle sue proposte e continua la scelta di un linguaggio sperimentale, che si sa piegare all’espressione pura che è della poesia del nostro tempo, non senza corredare i testi di classici rinvii (ad es. anche della Didone virgiliana) e con la consapevolezza che fine della poesia è anche la meraviglia della tessitura, quasi come per un arazzo.
21.11.2006


lunedì 13 maggio 2013

Intervento critico di Mario Lunetta per il libro M'attondo il giorno di Luciana Gravina

Pubblico questo straordinario intervento critico fatto da Mario Lunetta in occasione della Presentazione del mio libro di poesia M'attondo il giorno", al Notegen di Roma il 31 marzo 2004.





Nella tradizione poetica italiana il canto lirico è assolutamente predominante, malgrado l’exemplum magnum del Dante della Commedia. La speculare (e dolcemente aggressiva) esperienza di Petrarca lo depotenzia e si afferma rapidamente come egemone. Dal cantore di Laura al Novecento più immediatamente prossimo la linea della forma-pathos è vincente, e le ragioni, schematicamente dette, possono essere queste: maggior immediatezza vs oscurità allegorica; minore problematicità e più intenta esplorazione del proprio vissuto; più acuta inclinazione al ripiegamento su di sé come privatissima e munita totalità; illusione che i Sentimenti siano eterni, quindi più poeticamente legittimi di un’attenzione alle cose del mondo e del collettivo con relativo ingaggio nelle contraddizioni della storia; pretesa purezza del monolinguismo rispetto al plurilinguismo mescidato anche coi gerghi: insomma, alle corte, Spiritualismo contro Materialismo. Di conseguenza, ai danni della linea “dantesca”, una secolare politica culturale dettata dall’ufficialità, fino ai nostri giorni, con messa ai margini (antologie scolastiche e non, università, ecc.) dei poeti più scomodi, più critici verso il mondo e il linguaggio. “La poesia è ben altro che voltolarsi nelle melodie” dice Auden.

Esempi ancor oggi incandescenti, che costituiscono scandalo, continuano a darsi con imperterrita impudenza. Tra gli altri: figure della statura di Emilio Villa e Edoardo Cacciatore, regolarmente esclusi dal pantheon conclamato – (si veda l’abietta antologia Meridiani (ristampa aggiornata) di Cucchi e Giovanardi).
C’è un provincialismo mafioso della cultura italiana che non si decide a morire, e anzi continua a celebrare i propri fasti funerei nelle sedi più accreditate del conformismo nazionale. Eppure, in questa triste Italia delle combriccole e degli scambi di favori, non mancano voci ben caratterizzate, di forte caratura antilirica e antipatetica.

Quella di Luciana Gravina, ad esempio, mi interessa e mi convince, per  molti versi e varie ragioni: perché  non canta, ma tratta la questione del linguaggio con la necessaria consapevolezza (anche filosofica): si vedano i due esergo che aprono il suo libro, da Genette e Neruda: segni in lei di lucida consapevolezza anche teorica dell’agire poetico.
La sua voce parla – e parla sempre d’altro, perché non crede all’immediatezza, e nutre una totale sfiducia nei confronti del pathos di primo grado, che si giustificherebbe poeticamente solo in virtù della propria sincerità, spontaneità, ecc.

Gravina sa che la parola poetica mente (Pessoa, Manganelli), in quanto costruzione artificiale che non dice ma rivela invariabilmente un enigma linguistico: e l’enigma è nella novità dell’invenzione. Si ricordi, quindi, in proposito, il termine priem (artificio, in russo) caro ai grandi formalisti russi degli anni Dieci/Venti del ‘900: Sklovskij, Jakobson, Tynianov, alle cui scoperte non hanno mai cessato di guardare le esperienze di punta del secondo Novecento.

Gravina è una tessitrice, e il suo telaio è costituito da una paratassi accentuata.
Tutto il suo libro si configura non in momenti staccati riuniti poi in un assemblaggio volontaristico, ma piuttosto come partitura sistematica, da piccolo poema in cui la scissione dell’io trova un possibile risarcimento nell’ordine della musica e nella carica visiva dei colori. La contrapposizione dialettica è allora, appunto, tra il caos dell’ES e la musica, non in quanto evasione sonora ma in quanto insieme organizzato di strutture.
Lo dice con chiarezza Natale Antonio Rossi, in un passaggio della sua intelligente prefazione: “In realtà, il problema che si pone in questo testo è che il linguaggio di cui è fatto, con cui è costruito (e null’altro esiste sul testo, neppure il suo profumo) non è tanto espressione dell’essere, quanto forma dell’essere, comprendendo anche la forte componente del dato esistenziale”.

La struttura del libro mira quindi a un organismo poematico, e la lingua vi si muove liberamente, nell’arco della scissura permanente del sé in rapporto speculare-dialettico con l’altro: “io sdoppiata e a raddoppio, speculare di me, testimoniale del tu / (altra me) a cui tendendo…”
Ma specialmente significativo a me pare il poemetto in XXVII movimenti che si intitola “Agogica dei verbi” (variazioni) – con quegli attacchi perentoriamente esortativi, quasi a comando: a se stessa o a un interlocutore/trice da immaginarsi fisicamente prossimo/a, con una serie di torsioni che verbalizzano il sostantivo (in un effetto di forte energia espressionistica): “E tu sradica. Smonta l’azzeramento, ora che nel vento s’è persa / tutta l’eco possibile del tuo risibile / fantasiare o poesiare e lampi a guizzare / nella stagione rovente, oscillante per colpa e/o innocenza / e trappole nell’aria e la terra di insidie e congiunture”.

Tutto il linguaggio di M’attondo il giorno ha movenze contratte e spastiche, dentro la griglia di una versificazione prevalentemente ipèrmetra, da discussione o da polemica, con inclinazioni teorico-filosofiche: nella deformezza della norma, come si legge a pag. 23 (“E tu sregola. Rieditare la pratica del vuoto per colmazione dello iato, / fosse questa la destituzione dei vati (delle cosiddette certezze) / la contezza dell’ironia, la follia intermittente, la rinnovata ambiguità / di uno scenario sacrificale, graziosa deformezza della norma”).
E allora, ecco che la scrittura quasi si svelle da se stessa, e trova nuove forme neologistiche di indubbia efficacia straniante: brividare flautare oboare suitare (pag. 25).

La musica come strappo percussivo e straniante, non come carezza per la psiche scissa. Non c’è l’abisso, ma l’abissità, c’è la qualunquità: in una sorta di riappropriazione sotto specie di categoria filosofica delle parole più trite. E’ anche in questa rottura degli steccati grammaticali, sintattici e semantici (nella loro alterazione costante e nel loro continuo mutamento di ruolo all’interno di una consecutio terremotata) che sta la particolare significanza di questa scrittura: una scrittura – per dirla con Pagliarani – “senza carità di se stessa” (v. pag. 64, Rosso cavallo: un ricordo-omaggio a Rosso corpo lingua del poeta de La ragazza Carla).

La poesia di Gravina, pure carica di sensualità e di memorie, di corporeità e di vibrazioni interiori, è soprattutto interessata a “spraticare la norma”: e in questo progetto riposa la lucidità del suo gesto.
Il groviglio del mondo, la tragica pantomima del cosiddetto reale si definiscono, così, soltanto nella precisione e nella durezza di una scrittura poetica molto scolpita, che funziona come giudizio impavido sul vivere e sullo scrivere, sul senso (sempre estremamente precario, labile, incerto: forse inverificabile) che il primo ha in rapporto al secondo: e che tutti i poeti sono condannati a perseguire senza mai toccarne il cuore, che non c’è.

In un testo come “M’attondo il giorno”, che dà titolo all’intero libro, si attua una tecnica di bel conio allegorico di sistemazione e di controllo del piccolo caos quotidiano. La serie dei “Sonetti imperfetti del mio nome” (pagg. 38-44) funziona brillantemente a mo’ di acrostico allentato. Così, il dis-essere e la furia esistenziale che attraversano questa poesia a suo modo catastrofica – ma catafratta per consapevolezza di tono e di accento - ne fanno un esempio significativo di scrittura poetica problematica. Una poesia sliricata, insomma, che si fonda sempre su lucide capacità retoriche e non si sofferma mai a rimirarsi nella lastra inattendibile del proprio narcisismo.
                                                                                                  Mario Lunetta