lunedì 30 giugno 2014

Presentato da me un libro di aforismi di Silvana Baroni

Salve,
ritorno su queste pagine con la relazione che ho tenuto per la presentazione di un libro veramente speciale. Si tratta di "Parallele Bipedi" di Silvana Baroni. Aforismi e disegni. La presentazione si è svolta presso Empiria, il giorno 13 giugno di quest'anno, nel pomeriggio. Altra relatrice: Tiziana Colusso.

Ecco:


Recensire questa opera di Silvana Baroni è stata per me un’avventura decisamente intrigante, sia per il genere letterario, l’aforisma, sia per l’opera in sé, sia, e forse soprattutto, per l’autrice, complessa, prestigiosa,  poliedrica, qual è appunto Silvana Baroni.
Che è mia amica, di un’amicizia intelligente, sobria, costruita su una rara e preziosa filigrana intellettuale. E io ne sono orgogliosa.
Spesso il libro io lo sfoglio dal fondo, dall’ultima pagina risalendo all’introduzione, quando c’è e non lo so perché lo faccio e non so nemmeno se è un bene o un male. Così è.
Per Parallele Bipedi mi sono intrattenuta già sulla quarta di copertina: “Scrivere aforismi è un’arte funambolica. E’ pensare senza rete di protezione” così dichiara Silvana come in un testamento in funzione di dichiarazione di poetica.
L’autrice in questa pagina è al punto in cui saluta divertita il suo lettore e, come si avvisa il navigante sul viaggio che però ha già fatto, gli raccoglie le idee sulla sfida che ha attraversato (l’audacia del funambolismo), sperando che se ne sia accorto, perché lei ha azzardato e rischiato senza rete di protezione.
E, leggendo a ritroso, agevolata nel modo dall’inesistenza di una trama, fino alla premessa dove agisce l’occorrenza di altre note di dichiarazione poetica.
Innanzitutto la riflessione sul diverso uso delle tecniche espressive (la grafica e la parola) che per proprietà statutarie non omologhe suggeriscono l’approccio: più immediato e spontaneo, il segno grafico; più studiato e pensato il codice verbale.
“L’aforisma, cito dalla Premessa, necessita di ponderazione, di attenzione quasi ossessiva ai termini, al ritmo, alla concisione, al misurato uso di metafore, ossimori, antitesi, metonimie, paradossi, perché sia di stile proprio la tessitura, omogenea, e possibilmente spiazzante.”
E poi l’ex ergo, da Montaigne: “Che buon guanciale è il dubbio / per una testa ben costrutta”. Ovviamente non si tratta del dubbio scettico, bensì di quello sistemico che certifica l’essere pensante. Vogliamo per caso sostenere che il buon Cartesio non avesse ragione:? “Dubito ergo sum”, perché, se dubito, vuol dire che penso e, se penso, sono. “Cogito ergo sum.”
E’ evidente che Descartes aveva una testa ben costrutta.
E ho il sospetto che anche quella di Silvana Baroni lo sia, ben costrutta, appunto. Date già le premesse.
E poi dentro al testo, anzi  al contesto. Un occhio alle parole che fluiscono nella loro misurata eleganza, attraversano ossimori e metafore, costruiscono antitesi e paradossi,  stringono e incastrano il lettore sullo stretto binario dello spiazzamento sistematico.
L’altro occhio alle siluette, sguscianti, irridenti, a colloquio tra loro.
Incuranti della curiosità dell’osservatore esse vivono nella narrazione stabilita dalla pagina in un tempo permanente e irreversibile.
Il fioretto non lo vedi ma ti resta dentro, lo avverti alla fine dell’aforisma. Con invisibili colpi, ma veri, anche se assestati con garbo, l’autrice analizza (non a caso è una psichiatra) l’io e il suo rapporto col sé e con l’altro da sé. 
Ne consegue un caleidoscopio di asserzioni, consigli, convinzioni rivolti a un lettore considerato molto presente e comunque interagente, filati e tessuti da una permanente ironia. 
Viene subito in mente Goethe:”L’ironia è la passione che si libera nel distacco” e quindi “passione”, nel senso che non passa semplicemente attraverso il mentale ma investe ben altro della persona.
L’ironia di Silvana Baroni è dissacrante nella misura in cui non offende e non ferisce, perché lei non si colloca al di fuori del sociale anzi vi è dentro con tutto il rispetto che si deve alle regole.
Mi sembra che qui lei indichi e si muova contro il maggior pericolo per l’io, che è prima del sociale. Questo pericolo non è il conformismo ipocrita che è, sì, pericoloso per l’io in quanto entità aprioristica del sé, ma non lo è quanto lo possono essere il banale, e la noia, che dal banale deriva. 
E l’io non avverte la presenza di questa insidia se non è in condizione di ricerca permanente del cosiddetto ubi consistam.
L’artista in genere lo è, ma parlo dell’artista consapevole, di colui che sa quello che fa. 
Mi viene in mente il Don Giovanni di Mozart-Da Ponte che è percepito da noi posteri come il mito della modernità.
Non a caso  questa figura viene elaborata alla vigilia della Rivoluzione Francese, quando la produzione di senso del momento elabora “la premessa fondamentale della cittadinanza, che è proprio l’individualità, finalmente conquistata sul piano storico, oltre che sul piano concettuale. E’ per questa via che si arriva alla costruzione del moderno: uno dei primi elementi della modernità è, infatti, l’idea assolutamente nuova dell’individuo. ” (Cito da Rino Malinconico, Brindisi a Dongiovanni, Ed. Melagrana, 2010)
Noi qui presenti, rispetto a Don Giovanni, siamo avanti di due secoli: abbiamo alle spalle l’Ottocento che ha massacrato l’individuo con la definizione e la codificazione dei ruoli, e il Novecento che per metà ha continuato quella mission e per l’altra metà ha ribaltato, distrutto, riveduto, spiazzato, identificando ed elaborando nuovi contesti modern e post-modern.
Sembrerebbe tuttavia che finora non siano state date risposte agli interrogativi sull’io, sul rapporto individuo, ragione, società.
Il conflitto che ci consegna Mozart col suo Don Giovanni, ritenuto il primo personaggio della Modernità, sembra essere permanente, pur passando attraverso soluzioni e definizioni.
Tuttavia bisogna provarci, a pensarlo questo problema a tentare un esito,  pur consapevoli che siamo ben lontani dal dare soluzioni. E non è detto che per questo dobbiamo considerarci perdenti, non è detto cioè che siamo destinati a sprofondare nelle fiamme dell’abisso come il di cui sopra. Non è detto che, una volta afferrato l’attimo dobbiamo accanirci a tenerlo fermo. E che attimo sarebbe?
Forse il senso della vita alloggia nella consapevolezza del gioco e nella capacità di stare al gioco.
Questa autrice, che è consapevolmente collocata nella sua storia e nella Storia, agisce appunto il gioco col distacco dell’ironia che non è mentale, non è a freddo. Si badi bene che Goethe la definisce passione.
Io direi: è’ fuori dal dramma.
O anche: è il dramma visto da lontano.
Il distacco, dunque, è la prima megametafora di questa opera che è poi un modo, visto che Silvana Baroni ha scritto anche altri libri di aforismi, ma non mi sentirei di indicarla come il sovrasenso che sta al di sopra degli altri e tutti li comprende.  
Ci sono, dentro questi testi, piccoli e terribili, le implicazioni del vivere quotidiano puntualmente “spiazzato” secondo l’ottica di un io (lo scrivo minuscolo perché non venga travolto dalla psicanalisi) che non è reazionario, né rivoluzionario, che non porta i cartelloni nei cortei, non fa i comizi, non predica né sui pulpiti, né in televisione.
Semplicemente è divergente, è il Trikster, come lei stessa ci suggerisce, “l’archetipo distruttore di regole e di convenzioni, l’acerrimo nemico del logos patriarcale”, cito ancora  dalla Premessa.
E’ l’antieroe irridente che si pone in antitesi e, hegelianamente, ci garantisce il divenire.
E come presupposto filosofico di una concezione antropologica, vi sembra poco?
Questo mi sembra essere il leit motiv di un libro che già nel titolo pone interrogativi e mette in moto il mentale, “Parallele Bipedi”, giocando su un ossimoro azzardato, desunto da due campi semantici del tutto inconciliabili (così come deve essere un ossimoro, d’altronde) e che ci legittima a chiederci se gli uomini (e le donne, ovviamente,), cioè i bipedi, si comportino (per destino, per scelta, per consuetudine, per stupidità, come parallele, che non si incontrano mai. 
Chiudo, girando la domanda a Silvana e temendo (o sperando?) che mi risponda che potrebbero incontrarsi all’infinito.
                                                                            Luciana Gravina

 



martedì 18 febbraio 2014

Un testo dal mio "M'attondo il giorno", 2003 "Elegia per Colonia"

Colonia è una città enigmatica con cui è difficile entrare in confidenza. 
Così mi dicevano i migranti italiani, intellettuali e tristi col marchio da esilio permanente.
Così mi è sembrato.

Elegia per Colonia

1
D'autunno la città lo attende che tracimi di biondo,
il Reno, proprio il Reno, lento macina la città annicchiata
nella storia. Abbiamo portato passi curiosi sugli urssprung
ipocriti, così pronti a smottare, ora che è autunno e che
anche qui (banalmente detto) cadono le foglie gialle nel
parco e assediano Guglielmo Secondo sul cavallo
di bronzo a fare l'inutile eroe di un freddo che sta per venire e che
non è più che a Firenze o a Milano ma che per loro è 
"quaggiù", perché l'inferno è sempre sotto come tra questi
invisti muri alti che le parole non attraversano
migranti (così li chiamano adesso) come gli uccelli
migratori, vengono e vanno, hanno anche amici deutsch, ma
è tutto lì, nella probabile straprevedibile sera.

2
Nella suite, in agguato l'abbiamo trovata, nella suite
royal, hotel Koln, ultimo piano, oltre la finestra esangue,
algida, la cattedrale nera di nervosa pazienza, la signora
infilzata nell'inguine della notte, nerasfiancata,
di un destino a lungo covato. L'abbiamo sorpresa a guardia
di una repressa luna tedesca, calante d'un pieno
mancante di spicchio, la superba, la frigida, cocciuta
cattedrale ai cui piedi la città lecchina ricama un'ombra
sbordata. Cosicché nel buio, del tutto sprofilati,
infiliamo parole per toccarci (Albertustrasse, passeggiata
nel pomeriggio, preme recente e la gallerista rossa parla
spagnolo con gli Italiani), ora che la cattedrale ci sorveglia
nera appunto, e in agguato, svelta ad avvelenare
l'ambra di che si ama anche a ritroso, perché è un cuneo tossico
nel nontempo di questa tedesca notte bastarda.

3
Il gomito di Franz per tutta la sera,rintanato
nella manica nera di pelle nera, ha vibrato all'unisono
col mio dirimpettaio. Come se niente 
fosse, ancorati allo sfioro, parlano, come se
niente. Il nostro tavolo naviga in fumo folto, ho la testa nel
sauerbraten, la candita sul purè di mele è rossa (ciliegia,
credo), ho voglia di stagnare col succo di mirtilli sul manzo
stracotto. Le parole, non più di tante, vanno e tornano e vanno
dicono di un male che non passa per voce. Perché qui il sole
è diverso e il cameriere sguscia veloce, beve ogni ultimo
bicchiere del kurbis e le parole ci tramano una rete esangue perché
le voci vanno e vengono e non restano. Ce ne siamo andati a tarda
quando la furia da esilio era ormai sblenda e nel gomito
a gomito il veleno era appaciato in vista di un assolo per
placare la notte. A notte tarda ce ne siamo andati, con l'odore
dell'amore tra uomini, ce ne siamo. Tagliati nel fumo
della birreria, tutti insieme come uccelli migratori.

Prefazione di Raffaele Nigro al mio libro di poesia La Polena del 1986

Certamente lo conoscete. Raffaele Nigro è uno dei maggiori intellettuali meridionali. Lucano di origine, vive a Bari. E' giornalista e autore di numerosi romanzi, oltre che di opere di poesia, pieces teatrali e saggi.
Ciao, Raffaele.

Un'atmosfera tragica e angosciata lega questa serie di frammenti all'esperienza sentimentale e letteraria dei lirici greci.
Il vento disperato che spira nella voce di Saffo sembra filtrare nell'espressione poetica di Luciana Gravina, come per richiami di creature solitarie, condannate a guardare la plaga del mondo da isolati pinnacoli , rocce emergenti dalle nebbie di un'Ade senza speranze.
E' fin troppo facile il rinvio all'esperienza drammatica di Isabella Morra, autrice e donna sconsolata, tramite e legamento di queste voci lontane tra loro nello spazio e nel tempo, ma così vicine nell'evocazione e nell'ansia di esorcismo della disperazione. Questo clamare in deserto è il modulo più convincente del libro (protasi, intermezzo), che è denso di atmosfere ad alto contenuto emotivo. Gli occhi della polena, occhi di legno, sono gettati sulle onde, cercano nel fondo e nel cerchio dell'orizzonte, secondo il compito che è stato imposto loro di leggere per primi le mete, le distanze, scrutare i fondali sabbiosi e i pericoli delle scogliere. La polena qui mi pare il simbolo dell'avventura umana, speranza di uomini in cerca di terraferma, di acque e di fortuna, ma la sua bocca di legno o di metallo dice parole alle brezze. Condannata a sperimentare la vita, in solitudine, questa polena è bocca inascoltata, e si sfogherà con le onde, con la superficie del mare, col vento, in attesa che un fiato umano la consoli, perché la parola lenisce, attenua le sconfitte. Il libro si riempie di nomi di fiori, di piante; orologi che scandiscono le ore e sottolineano i silenzi, si fa attento ai paesaggi, spazi metafisici e distese interiori, ma invano cerchi creature umane, soggetti ai quali possa ancorarsi la fiducia dell'autrice nella vita, nel consorzio sociale, negli uomini.
L'aridità dei rapporti denuncia anche l'aridità dei sentimenti nella civiltà che la circonda, che la sconvolge e la prostra, siano, "iene e colombe", la vita è un "bivacco", il tempo è "uno sfatto ...di paese  incompiuto". Manca la religiosità e la fiducia di una fede positiva, regna un'atmosfera pagana di nebulosità infernale, una notte senza  speranza di alba, un limbo su cui si è acquattato un cielo afoso, di piombo.
La resa paganeggiante viene sapientemente  determinata da un corredo  immaginifico di ascendenza classica, citazioni di creature e personaggi del mito greco, con una punta massima di fulgurazione lirica in una sorta di eroide inviata a Orfeo da Luciana-Euridice, condannata all'Ade, ma condannata in corpo e spirito, se è vero quanto dichiara "ti scrivo dalla mia carne", e con dentro un pugno di serpenti aggrovigliati, da "baccante demente" che batte "il piede isterico". 
Tuttavia il verso della Gravina non risente in maniere immediata di questo tumulto psicofisico, la resa è meditata, la mediazione della ragione la sottopone a una sorta di contenimento delle reazioni, mi pare che ancora una volta siano le letture classiche a frenarla. Petrarca probabilmente e, tra i più recenti, gli ermetici, l'aiutano a pesare le parole e il verso, fino ad attirarla verso compiaciute cadenze endecasillabiche, verso reperti linguistici desueti, contribuiscono a farle la voce bassa, sussurrante, come di una baccante cieca o di un Edipo che racconta i suoi trascorsi, medita sull'esistenza, ma in un'allucinata e allucinante capacità di contenzione dei tumulti interiori, quasi dietro una maschera, la maschera cieca della tragedia classica. E nella regola di questi maestri, il verso procede, perlopiù per continui legamenti sintattici, talvolta per gusti analogici isolati, perlopiù discorsivo e piano, talvolta irto di puntigliosità e di arroccamenti ermetici, come per una reazione improvvisa all'apertura, all'effusione che ha concesso a se stessa e all'aria, al vento e alle cose e per un imperativo precedente o conseguente che l'ha costretta a trincerarsi "nel bozzolo".


Un testo da La polena, un mio libro del 1986

E' chiara soltanto l'assenza di vento nell'aria
fuori qualcuno stana nuvole squiete
chi bussa al sordo troncone disfogliato?
La linfa si corica piano cerca la via
batte ostinata ai polsi fischia stanca
consola sottovento la sua ombra.
Nella sera di marzo l'ultima spada di luce
strazia l'estremo gulag del pensiero.