martedì 18 febbraio 2014

Un testo dal mio "M'attondo il giorno", 2003 "Elegia per Colonia"

Colonia è una città enigmatica con cui è difficile entrare in confidenza. 
Così mi dicevano i migranti italiani, intellettuali e tristi col marchio da esilio permanente.
Così mi è sembrato.

Elegia per Colonia

1
D'autunno la città lo attende che tracimi di biondo,
il Reno, proprio il Reno, lento macina la città annicchiata
nella storia. Abbiamo portato passi curiosi sugli urssprung
ipocriti, così pronti a smottare, ora che è autunno e che
anche qui (banalmente detto) cadono le foglie gialle nel
parco e assediano Guglielmo Secondo sul cavallo
di bronzo a fare l'inutile eroe di un freddo che sta per venire e che
non è più che a Firenze o a Milano ma che per loro è 
"quaggiù", perché l'inferno è sempre sotto come tra questi
invisti muri alti che le parole non attraversano
migranti (così li chiamano adesso) come gli uccelli
migratori, vengono e vanno, hanno anche amici deutsch, ma
è tutto lì, nella probabile straprevedibile sera.

2
Nella suite, in agguato l'abbiamo trovata, nella suite
royal, hotel Koln, ultimo piano, oltre la finestra esangue,
algida, la cattedrale nera di nervosa pazienza, la signora
infilzata nell'inguine della notte, nerasfiancata,
di un destino a lungo covato. L'abbiamo sorpresa a guardia
di una repressa luna tedesca, calante d'un pieno
mancante di spicchio, la superba, la frigida, cocciuta
cattedrale ai cui piedi la città lecchina ricama un'ombra
sbordata. Cosicché nel buio, del tutto sprofilati,
infiliamo parole per toccarci (Albertustrasse, passeggiata
nel pomeriggio, preme recente e la gallerista rossa parla
spagnolo con gli Italiani), ora che la cattedrale ci sorveglia
nera appunto, e in agguato, svelta ad avvelenare
l'ambra di che si ama anche a ritroso, perché è un cuneo tossico
nel nontempo di questa tedesca notte bastarda.

3
Il gomito di Franz per tutta la sera,rintanato
nella manica nera di pelle nera, ha vibrato all'unisono
col mio dirimpettaio. Come se niente 
fosse, ancorati allo sfioro, parlano, come se
niente. Il nostro tavolo naviga in fumo folto, ho la testa nel
sauerbraten, la candita sul purè di mele è rossa (ciliegia,
credo), ho voglia di stagnare col succo di mirtilli sul manzo
stracotto. Le parole, non più di tante, vanno e tornano e vanno
dicono di un male che non passa per voce. Perché qui il sole
è diverso e il cameriere sguscia veloce, beve ogni ultimo
bicchiere del kurbis e le parole ci tramano una rete esangue perché
le voci vanno e vengono e non restano. Ce ne siamo andati a tarda
quando la furia da esilio era ormai sblenda e nel gomito
a gomito il veleno era appaciato in vista di un assolo per
placare la notte. A notte tarda ce ne siamo andati, con l'odore
dell'amore tra uomini, ce ne siamo. Tagliati nel fumo
della birreria, tutti insieme come uccelli migratori.

Prefazione di Raffaele Nigro al mio libro di poesia La Polena del 1986

Certamente lo conoscete. Raffaele Nigro è uno dei maggiori intellettuali meridionali. Lucano di origine, vive a Bari. E' giornalista e autore di numerosi romanzi, oltre che di opere di poesia, pieces teatrali e saggi.
Ciao, Raffaele.

Un'atmosfera tragica e angosciata lega questa serie di frammenti all'esperienza sentimentale e letteraria dei lirici greci.
Il vento disperato che spira nella voce di Saffo sembra filtrare nell'espressione poetica di Luciana Gravina, come per richiami di creature solitarie, condannate a guardare la plaga del mondo da isolati pinnacoli , rocce emergenti dalle nebbie di un'Ade senza speranze.
E' fin troppo facile il rinvio all'esperienza drammatica di Isabella Morra, autrice e donna sconsolata, tramite e legamento di queste voci lontane tra loro nello spazio e nel tempo, ma così vicine nell'evocazione e nell'ansia di esorcismo della disperazione. Questo clamare in deserto è il modulo più convincente del libro (protasi, intermezzo), che è denso di atmosfere ad alto contenuto emotivo. Gli occhi della polena, occhi di legno, sono gettati sulle onde, cercano nel fondo e nel cerchio dell'orizzonte, secondo il compito che è stato imposto loro di leggere per primi le mete, le distanze, scrutare i fondali sabbiosi e i pericoli delle scogliere. La polena qui mi pare il simbolo dell'avventura umana, speranza di uomini in cerca di terraferma, di acque e di fortuna, ma la sua bocca di legno o di metallo dice parole alle brezze. Condannata a sperimentare la vita, in solitudine, questa polena è bocca inascoltata, e si sfogherà con le onde, con la superficie del mare, col vento, in attesa che un fiato umano la consoli, perché la parola lenisce, attenua le sconfitte. Il libro si riempie di nomi di fiori, di piante; orologi che scandiscono le ore e sottolineano i silenzi, si fa attento ai paesaggi, spazi metafisici e distese interiori, ma invano cerchi creature umane, soggetti ai quali possa ancorarsi la fiducia dell'autrice nella vita, nel consorzio sociale, negli uomini.
L'aridità dei rapporti denuncia anche l'aridità dei sentimenti nella civiltà che la circonda, che la sconvolge e la prostra, siano, "iene e colombe", la vita è un "bivacco", il tempo è "uno sfatto ...di paese  incompiuto". Manca la religiosità e la fiducia di una fede positiva, regna un'atmosfera pagana di nebulosità infernale, una notte senza  speranza di alba, un limbo su cui si è acquattato un cielo afoso, di piombo.
La resa paganeggiante viene sapientemente  determinata da un corredo  immaginifico di ascendenza classica, citazioni di creature e personaggi del mito greco, con una punta massima di fulgurazione lirica in una sorta di eroide inviata a Orfeo da Luciana-Euridice, condannata all'Ade, ma condannata in corpo e spirito, se è vero quanto dichiara "ti scrivo dalla mia carne", e con dentro un pugno di serpenti aggrovigliati, da "baccante demente" che batte "il piede isterico". 
Tuttavia il verso della Gravina non risente in maniere immediata di questo tumulto psicofisico, la resa è meditata, la mediazione della ragione la sottopone a una sorta di contenimento delle reazioni, mi pare che ancora una volta siano le letture classiche a frenarla. Petrarca probabilmente e, tra i più recenti, gli ermetici, l'aiutano a pesare le parole e il verso, fino ad attirarla verso compiaciute cadenze endecasillabiche, verso reperti linguistici desueti, contribuiscono a farle la voce bassa, sussurrante, come di una baccante cieca o di un Edipo che racconta i suoi trascorsi, medita sull'esistenza, ma in un'allucinata e allucinante capacità di contenzione dei tumulti interiori, quasi dietro una maschera, la maschera cieca della tragedia classica. E nella regola di questi maestri, il verso procede, perlopiù per continui legamenti sintattici, talvolta per gusti analogici isolati, perlopiù discorsivo e piano, talvolta irto di puntigliosità e di arroccamenti ermetici, come per una reazione improvvisa all'apertura, all'effusione che ha concesso a se stessa e all'aria, al vento e alle cose e per un imperativo precedente o conseguente che l'ha costretta a trincerarsi "nel bozzolo".


Un testo da La polena, un mio libro del 1986

E' chiara soltanto l'assenza di vento nell'aria
fuori qualcuno stana nuvole squiete
chi bussa al sordo troncone disfogliato?
La linfa si corica piano cerca la via
batte ostinata ai polsi fischia stanca
consola sottovento la sua ombra.
Nella sera di marzo l'ultima spada di luce
strazia l'estremo gulag del pensiero.