sabato 4 novembre 2017

Ginestre e libri proibiti. Recensione del prof. Antonio Rondinelli

SUGGESTIONI ED EMOZIONI LEGGENDO
-GINESTRE E LIBRI PROIBITI-
DI LUCIANA GRAVINA
    Il furto di un pericoloso manoscritto ed un inspiegabile assassinio creano  un giallo-non-giallo, che caratterizza e movimenta dalla metà in poi questo romanzo di Luciana Gravina. Ambientato nella greve Italia della Controriforma, in uno dei più sperduti recessi dell’Italia Meridionale, in un Cilento ancora medievale, soffocato da sottomissione feudale al signore e contemporaneamente succube e sottomesso ad annullamento critico nei dogmi ed all’asservimento fisico, morale e spirituale alla Chiesa, a quella post-tridentina, per giunta, ed all’Inquisizione, si risolve (non poteva essere diversamente) col ricorso alla componente onirica e magica, lascito filosofico e culturale della Magna Grecia, di cui le coste meridionali dell’Italia e del Cilento furono culla e teatro e al condizionamento e controllo delle coscienze di cui il sacramento della  confessione era (era?) strumento usatissimo, essenziale ed efficace.
     Non so con quanta cosciente consapevolezza la Gravina, in appendice, motivando il libro nella “Nota dell’autrice” lo colloca nel nobile tòpos letterario del rinvenimento di un manoscritto d’epoca, ponendosi, senza sfigurare, sulla scia di A. Manzoni, del dilavato e graffiato autografo e di U. Eco cui  Il 16 agosto 1968 …fu messo tra le mani un libro dovuto alla penna di tale abate Vallet  (che) asseriva di riprodurre fedelmente un manoscritto del XIV secolo. Il testo si inerisce  anche nell’attuale voga letteraria del romanzo di taglio poliziesco, di spionaggio o thriller, di ambientazione storica, inaugurata da –Il nome della rosa-, seguito      da –Il codice da Vinci-, dalla saga –Roma caput mundi- di A. Frediani  ed altri, con ricco e documentato corredo di notazioni  e ricostruzione di fatti e protagonisti, con precisione ed approfondimento di particolari quanto più si tratta di momenti o personaggi minori. Nel caso della Nostra Autrice questo è nobilitato (altro tòpos letterario) dal riferimento ad un proprio nobile, inventato antenato: monsignor Biagio Gravina, spirito critico, asfissiato dal clima controriformistico del XVII secolo, vissuto e visto dall’angolazione del Sud più sperduto e negletto, poco presente nella storiografia ufficiale, anche se in quell’epoca Napoli era forse la vera capitale della penisola, non esistendo ancora uno Stato italiano. In questo vedo una rivalutazione della micro-regione del Cilento, terra di origine di Luciana e di tanti filosofi umanisti contemporanei o di poco precedenti l’epoca del romanzo o dei successivi illuministi, ed un ulteriore merito del libro. Al richiamo all'insofferente antenato associo una sottesa, inconscia e, forse, inconsapevole, orgogliosa rivendicazione ed affermazione dell'intelligenza critica e vigile, caratterizzata da un sentire umanistico e da una mente illuministica, dell'Autrice.   
    Non mi pongo il problema sul taglio autobiografico del romanzo, chiarita l’invenzione del nobile antenato e dato comunque atto del Cilento terra d’origine dell’Autrice, non posso tacere la tanta cultura fusa-profusa con nonchalance in ogni pagina del romanzo con le dissertazioni sulla filosofia di S. Agostino, Aristotele, N. Cusano, B. Telesio, T. Campanella G. Bruno, sul libero arbitrio e sulla linguistica con i passaggi fonici e grafici dal greco antico ai dialetti meridionali, né poteva mancare Dante per colei che nei giovanili anni di professoressa brava e coinvolgente veniva chiamata Beatrice dai suoi ammaliati studenti!
     Il romanzo si legge con piacere per la piacevolezza dello scorrere dei periodi e per la levità dello stile , ricco di motti in latino ed espressioni in  francese, che vi appaiono naturali, come la citazione linguistica di C. E. Gadda nei dialoghi in  dialetto dei personaggi minori, efficace e godibile l'atto notarile in prosa secentesca, che rinvia alla prosa ironica di certe pagine de -I Promessi Sposi-, circostanziata la descrizione delle tecniche di stampa nel XVII secolo.  Personalmente ho associato  e immaginato il modo con cui monsignor Biagio Gravina si prepara a scrivere il suo libro al modo di Luciana, che lodo (mi si permetta) per la sottile, elegante suspence  nel preparare la scoperta del furto del manoscritto e per il finale stemperato nel testo, non rutilante, non retoricamente sbalorditivo, ma nobilitato dal colpo d'ala del “Post”(spiazzante!) e dalla “Nota dell'Autrice”. Tutto questo dona eleganza e classe al romanzo.


venerdì 3 novembre 2017

Il mio recente libro di narrativa. 9 racconti eccentrici

Uno stralcio

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 ...........  mentre il funzionario dell’acea si piegava di lato per estrarre qualcosa dalla cartella che aveva appoggiata in terra accanto alla sua sedia e spingeva nel frattempo gli occhi verso i miei piedi (o i miei sandali?) posizionati sotto il tavolo, sguardandoli a lungo.
Mi venne naturale fare, a occhio e croce, il punto della mia situazione pedestre: piedi senza calze, perché si era a maggio inoltrato, portati sotto gonna lunga, curati per recente pedicure, in sandali di discreta eleganza e di un mio stile preferito e cioè “alla francescana” che sarebbe a due fasce orizzontali a tenere bene il piede e cinturetta con fibbia che corre dietro il tallone passando da un lato all’altro del piede stesso, tacco basso, color marrone scuro come ne avevo portati tanti nella mia vita e come continuo a portarne, anche perché, dopo la frattura alla caviglia sinistra, sono capitolata sul “francescano bene” interpretato da dott. Shöll, Pescura, Sanagens e altri, acquistabile in farmacia.
Lo sguardo gettato ai miei piedi non era stato né lungo, né impudico, né intrigante, né curiosante, né immorale, né impertinente, né forzato, né sconcio, né volgare, né intraprendente, né insolente, né offensivo, né ammiccante, né... Sembrava piuttosto una sguardata involontaria che, però, aveva avuto il potere di collegare la propaggine fonica di cui dicemmo, e cioè la voce del funzionario dell’acea, appoggiata all’apertura esagerata delle vocali che lo inscriveva immediatamente in un quadro di origine meridionale (Sicilia, Calabria, Basilicata), ad una denominazione arcaica dei sandali e cioè alla parola “calzari”.
Avevo sempre abbinato i calzari agli dei e agli eroi. Mercurio, messaggero degli dei, svolazza da una parte all’altra del mondo omerico agitando il caduceo, in virtù dei suoi calzari alati.
Spesso i destinatari dei suoi messaggi ne avvertono la presenza, prima ancora di vederlo, perché sentono nell’aria le vibrazioni dei suoi calzari alati e cominciano ad agitarsi.
Perché il più delle volte porta i rimproveri di quel rompiballe di Giove che lo invia a richiamare gli uomini agli obblighi del loro destino, come quando lo spedì presso Enea, quel fannullone che si era parcheggiato con tutto il suo popolo a Cartagine e si scopava la regina Didone: si era dimenticato.........

(Da Le scarpe, se dette calzari, sono altro, 9 racconti eccentrici, AltrEdizioni, 2017)  


lunedì 23 ottobre 2017

Luciana Gravina, 9 racconti eccentrici, AltrEdizioni, agosto 2017

Il mio nuovo libro di narrativa.

Dal sito di AltrEdizioni

Autore: Luciana Gravina
Narrativa, Riflessi
Senza alcun dubbio contemporaneo, questo libro raccoglie nove racconti, scritti tra il 1992 e il 2000. Nove racconti di donne/personaggi improbabili, calate in situazioni spesso inusuali, impreziositi da quattro opere fotografiche dell'Artista D-Aria, proposte all'interno e in copertina.

"Ripescati nei meandri di un vecchio Mac, questi racconti, scritti tra il 1992 e il 2000, si propongono come eccentrici in quanto credono (loro) di non aver un nucleo unitario attorno a cui vivere.
In realtà sono quasi tutti collegati da richiami, riferimenti, ammiccamenti con cui si tengono per mano." (dalla nota dell'Autrice)
Zazà si è perduta nella folla, o si era allontanata volontariamente per misteriosi motivi? Era questo il dubbio amletico che pullulava nella mia mente ogni volta che sul grammofono di casa qualcuno accordava la puntina col disco di vinile per ascoltare "Dove sta Zazà", canzone napoletana del 1944, di Raffaele Cutolo e Giuseppe Cioffi.(tratto da Ma, insomma, dove sta Zazà?


Format
o 12x17
·  Pagine: 114
·  Lingua: italiano
·  ISBN: 97888890968761
·  Rilasciato: agosto 2017

·  Editore: AltrEdizioni Casa Editrice

sabato 23 settembre 2017

Per Ginestre e libri proibiti, intervento di Redenta Formisano

Pubblico questo intervento che Redenta Formisano ha fatto per la presentazione del mio romanzo alla Mondadori di Nocera Inferiore il 24 aprile 2017.
Redenta Formisano è una scrittrice affermata, autrice di numerose opere di narrativa, conoscitrice della scrittura e della narratologia.
Questo intervento rivela una lettura colta, sensibile, approfondita. 
Grazie a Redenta.

E così, camminando dentro queste contraddizioni e questi interrogativi, se n’era andato in Chiesa”.

Così Luciana Gravina, l’autrice del bellissimo romanzo Ginestre e libri proibiti, ad un certo punto della narrazione, descrive Don Biagio Gravina, il prete di Torraca, l’antenato immaginario che non ha avuto ma che avrebbe voluto avere e che veramente appartiene alla linea dei suoi avi, dal punto di vista culturale: Don Biagio, una creatura sua e un suo rimpianto nostalgico, Don Biagio, il lettore dei libri proibiti, il protagonista ma non il solo, di questo complesso, molteplice e polifonico romanzo. Don Biagio cammina dentro le contraddizioni, vi è perso e cerca di risolvere almeno qualcuno dei suoi dilemmi, di trovare una via di uscita, il filo da disbrogliare che finalmente metta “nel mezzo di una verità”, come direbbe il poeta.
Insomma, non gli basta, in un secolo come il Seicento, di fedeltà assoluta e imposta ai dettami della santa madre chiesa, starsene contento al quia, come consiglia il vecchio Dante.
Nel piccolo paese di Torraca, a Sud del Sud c’è un genius loci, il vento, che non è un evento climatico, è il guerriero, è il movimento, l’assenza di quiete, di stabilità, sconvolge i panorami, irrompe prepotente. Non sta fermo, sembra placarsi e riprende. E anche la testa di Don Biagio è sconvolta da refoli impietosi, lui che preferirebbe starsene contento al quia, che amerebbe arrendersi alla tranquillità della fede. Refoli che spifferano e se ne vanno in libertà per incontrollabili percorsi.
Una via di uscita ai suoi dilemmi Don Biagio crede di averla trovata, alla fine, quando incontra due romani, Maria e Pasquale, non acculturati ma che hanno da chiarirgli molte cose, seguaci di Paolo Maris, il teorico della crescita personale e dei punti di percezione. Ma, infine, quel che importa a Don Biagio è dimostrare che si può essere liberi nel pensiero, che l’uomo riscatta la sua dignità non nella soggezione a schemi preordinati ma nell’autonomia della coscienza. “…Che la percezione del reale non si può fermare nella percezione dei cinque sensi e che esistono dei punti di percezione nel nostro nucleo energetico che ci fanno indagare su un ambito ben più complesso del dato epifanico in cui viviamo immersi.”
 O meglio, l’ultima via d’uscita gli sembra di averla finalmente trovata quando diventa narratore, quando si siede al suo scrittoio, mette meticolosamente in ordine, sceglie i cento fogli che ritiene gli siano necessari e narra, ora con dolorosa passione, ora con l’occhio inutilmente distaccato dell’umorista, tratti tipici di chi scrive di sé, la vicenda che è qui, in questo libro. E che Luciana ha narrato. E che Luciana ha narrato dopo essersi imbattuta in un’opera autentica di Palamolla Giovan Giacomo, personaggio, questo sì, storico, trovata in una libreria antiquaria nel 1998. E che l’autrice aspettava di incontrare.
I libri antichi e nuovi, proibiti e non, si moltiplicano e si riflettono, in uno straordinario gioco.
Insomma, in un affascinante gioco di specchi e di finzioni ci sono due narratori. Entrambi hanno scelto di mettersi in gioco e di mettersi addirittura in pericolo.
La scrittura, però, fino a quel momento, quando decide di sedersi e narrare, Don Biagio l’aveva lasciata al suo amico Giovan Giacomo, barone Palamolla. Meno furbo don Biagio, però, di lui, che scriveva sonetti, panegirici, tutti a carattere sacro, in apparenza. Nemmeno il trattato De l’ornamento de l’oratione l’aveva compromesso, con quella dedica finale, in cui si dichiarava servitore dell’illustrissimo sig. Antonio Asinari.
Quella dedica adulatoria non gli era proprio piaciuta a Don Biagio.
               
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Luciana Gravina, ha scritto un romanzo complesso, nel quale è possibile effettuare un vero e proprio scavo per portare alla luce significati e scoprire nelle pieghe della Storia colore e calore di storie, attraverso la benedetta maledetta curiosità.
            
 Ginestre e libri proibiti è il romanzo degli incontri e degli abbandoni, degli arrivi e delle partenze, delle solitudini e della tenerezza.
E’ una storia molteplice, che contiene potenti ossimori e oasi tra dolcezze e furori. Il romanzo si apre senza preamboli, ci fa capire subito di che si racconterà: la dicotomia, la divergenza tra mente e corpo.
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Questa storia di contraddizioni, è una storia moderna? Sì, lo è.
Nel Seicento l’uomo ha definitivamente perso la sua centralità, è un secolo in cui tutto è centro e tutto è periferia, secondo il pensiero di Giordano Bruno, il cantore dell’infinità dei mondi, l’altro grande protagonista nascosto del romanzo.
Del Seicento vengono colti i caratteri dominanti, così diversi eppure così simili a quelli dell’epoca in cui viviamo.
I tempi sono lontani eppure così nostri, per il conformismo, l’omologazione e la necessità che avvertiamo, tra le strettoie e i labirinti, di andare oltre le nostre inquietudini e di ritrovare una strada, un pensiero eretico che spalanchi nuovi orizzonti.
Don Biagio, Giovan Giacomo, l’alter ego del prete di Torraca, il suo amico, e Ludovica, la protagonista tra tanti personaggi di donne, devono navigare in un oceano d’ incertezze, malgrado la certezza che la fede dovrebbe loro dare.
L’uomo del Seicento – dopo la crisi che si spalancò nella percezione del mondo in seguito alle scoperte scientifiche e geografiche, da cui il Mediterraneo venne bruscamente relegato a un ruolo economico marginale – dovette escogitare una nuova struttura dell’intelletto, cercandola in un fragile punto di equilibrio tra immaginazione e logica, istinto e ragione, vita e forma.
La nostra attualità ha bisogno di risolvere lo stesso problema: l’uomo rotola “dal centro verso la x, spinto oltre il bordo dell’abisso dalla demolizione delle Grandi Narrazioni filosofiche e scientifiche.
Ed ecco i temi tipici dell’Esistenzialismo novecentesco «la morte, l’errore, la colpa, il nulla, l’impotenza, il tempo» li ritroviamo tutti in alternanza ossimorica dominante che nasce, ora come allora, in piccoli paesi o in grandi città, dal problema dell’uomo, del suo rapporto con il vuoto, con l’assurdo, con la libertà, con la speranza e la realtà.
E’ il romanzo della sfida al pensiero unico, è il romanzo dell’utopia “Forse sarebbe venuta la fine di questo mondo, sarebbe scomparso il mondo per come era stato fino a quel momento: allora le guerre sarebbero finite, le ricchezze equamente distribuite, i governanti sarebbero stati onesti, attenti al benessere collettivo”.

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E’ un romanzo simbolico? Sì, lo è, a partire dal titolo: Ginestre e libri proibiti. Esiste una ricca messe di simbolismo collegata a questa pianta: i fiori gialli sono simbolo di intelligenza, vitalità, energia.
Nel linguaggio dei fiori la ginestra simboleggia la modestia e l’umiltà. E il pensiero va a Leopardi, alla sua odorosa ginestra che i deserti consola.
Ma, nell’opera di Gravina la pianta rappresenta insieme l’eterno ciclo di vita e di morte di fronte al quale l’uomo deve arrendersi, non senza essersi stupito, e di stupore epifanico, della straordinaria bellezza della natura: Aveva inspirato a lungo il profumo delle ginestre che veniva dal basso del balcone: stavano lì le ginestre imperterrite nel loro rituale ciclo di vita morte, niente, qualunque cosa accadesse agli uomini poteva mutarne il ritmo, la pertinenza e l’ironia.
E c’è un oggetto che domina simbolicamente: è un coltello che Don Biagio sente che gli appartiene.
Le terre del Cilento, sembrano così lontane da Roma, l’Inquisizione sembra lontana da Torraca, ma è lì, ha permeato le menti e la sensibilità. E quel coltello lo ribadisce con forza.
E con quel coltello si chiude una vicenda e prende l’avvio un viaggio misterioso di don Biagio, verso Torino, verso Parigi? Comunque verso un luogo dove era nato uno dei suoi libri proibiti.
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Ginestre e libri proibiti è un romanzo storico? Sì, lo è. Narra un’intricata vicende d’amori e di passioni, di briganti e di osterie, di miseria e di sprechi, di odori e di sapori, di vita e di morte che ha inizio il 3 maggio del 1667.
Da sempre l’uomo ha cercato una via per tornare indietro nel tempo.
 Ogni volta ha dovuto ammettere la propria sconfitta. Ma ci sono cose che solo la letteratura può fare, anche sconvolgere i tempi, mescolarli.
Il cronotopo cioè l’interconnessione spaziale temporale con cui la letteratura si impadronisce dello spazio e del tempo, dell’uomo storico reale e lo fa rivivere di vita propria, in questo romanzo scorre tra due coordinate, Roma e Cilento, scorre tra esistenze, miserie, feste, danaro, scorre tra la vita della provincia, della borghesia ottusa, dell’altrettanto ottusa intellighenzia romana.
Gli oggetti hanno un ruolo importante in un narrato così come in poesia.
Luciana è anche un’artista e conosce la gioia di creare con metalli e pietre raffinati gioielli. Sa cosa significare manipolare, plasmare, scoprire come la materia, rame, argento, pietre dure, possano ubbidire all’immaginazione e interpretare forme rigide e in movimento.
Nel romanzo si legge un rispetto per gli oggetti, oggetti destinati a durare, nel tempo: il cuozzo del vino, i cappelli con la piuma, le porcellane, le tovaglie a testa di re, i pavimenti di mattone in cotto.
C’è un’opera di George Perec, Les Choses. La storia narra di una coppia che viene a poco a poco inghiottita dagli oggetti che ha intorno: elettrodomestici, riproduzioni di quadri famosi, pubblicità. Perec enfatizza così l’effimero che diventa però vitale, il tutto attraverso un occhio analitico e ironico che non perde di vista l’ossessione dell’uomo di possedere la materia. Il processo di mercificazione ha accentuato la natura di importanza e contemporaneamente di precarietà degli oggetti, simboli di proprietà e ricchezza, ma allo stesso tempo destinati a divenire rifiuti e detriti.”
Nel romanzo di Luciana Gravina, negli ambienti di Torraca, gli oggetti vanno oltre il mero uso estrinseco, spesso sono simbolo di uno stato d’animo, di una classe sociale, di un sentimento.
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E’ un romanzo autobiografico? Sì, lo è
Dov’è l’autrice? Si nasconde sapientemente, ma la ritroviamo e ritroviamo tracce dei suoi ricordi.


Non c’è modo di decidere prima quel che poi si ricorderà. I ricordi hanno un che di imponderabile e di imprevedibile. Non sono frutti che vengono giù dall’albero dopo una lunga maturazione. Hanno piuttosto le sembianze di conigli che sbucano all’improvviso da dietro un cespuglio.


Il mondo moderno è basato sull’attualità, mentre la scrittura non è assolutamente attualità.
Attraverso la televisione molte persone raccontano la loro esistenza in poche parole, vogliono fissare l’attimo. Ma così la vita diventa un caos completo, un grande fuoco d’artificio in cui esplodono mille pezzi di esistenze.
Luciana, quando si è seduta a scrivere, ha anche risposto all’esigenza di ordinare, di capire, di congiungere i pezzi del presente, della sua vita in una rete di passato e presente, in una trama di molte e ricche esistenze.
Nel romanzo l’autrice rivela pienamente l’amore per la sua terra e la sua parlata che lascia intatta, senza mimesi e contraffazioni.
Si ritrova in alcuni tratti il modo di raccontare tipico della cultura orale. Ci sono gli ambienti del piccolo paese del Cilento e nel contrasto tra palazzi e cortile, la simpatia dell’autrice va ai cortili.
 Scrisse Pasolini:
Ho nostalgia della gente povera e vera. Erano esclusi da tutto e nessuno li aveva colonizzati. E poi è salita silenziosa l’acqua dell’omologazione.
Anche Luciana nutre un nostalgico rimpianto di quel mondo?

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É un romanzo scritto con sapienza narrativa.
Una fondamentale accuratezza d’espressione è il solo e unico principio morale della scrittura. Che poi è la cura verso le opere e i giorni degli uomini.
La scrittura di Luciana si connota della dimensione, della simpatia e della compassione nella disponibilità a guardare la realtà con lo sguardo di chi sta ai margini, di chi soffre, dei poveri, degli infelici, con la disponibilità a incrociare lo sguardo di chi è inquieto, di chi cerca una verità, di chi cede. Di chi con disperata speranza naufraga e si perde nei libri proibiti.