lunedì 30 gennaio 2017

La poesia di Luciana Gravina di Gennaro Mercogliano

Ho trovato tra le mie carte un dattiloscritto di Gennaro Mercogliano sulla mia poesia. Una critica attenta e appassionata, che per me è importante perché mi costringe a ripensare alla mia poesia prima maniera che avevo tenuto un po' in disparte, quasi nascosta, sembrandomi troppo lontana dalla mia maniera attuale. E invece non è così: le riflessioni colte, consapevoli e acute di un intellettuale prestigioso come il Mercogliano  rimettono in discussione lo sperimentalismo linguistico presente anche nei mie testi precedenti.
Devo riflettere, dunque.

Ecco l'intervento critico d

La poesia di Luciana Gravina a cura de Gennaro Mercogliano


Tale tipo d'approccio, diciamo tematico contenutistico ai versi della Gravina è il meno indicato a comprendere non il significato dei versi che comunque contengono sempre un messaggio che va sceverato e chiarito, bensì il travaglio del fare poetico, cioè la forma, la particolare forma che discorso assume nella individuale ricerca, nella quale risiede (Jakobson, Todorov, Chomsky insegnano) la poesia stessa come fatto compiuto, cioè scritto e destinato così alla comunicazione.

In effetti, il discorso sulla parola poetica di Luciana Gravina si fa sempre più convincente e persuaso, direi anche più serrato, a mano a mano che si procede dalla prima raccolta alla seconda, La polena(1984), laddove quel primitivo procedere “a folle”, parole in libertà tutto sommato, ma nell'uso controllatissimo di stilemi più o meno fecondi e originali, da una posizione di impegno gradualmente crescente già nella prima silloge, si rivela essere problematico quesito sulle possibilità che ha la parola di raccontare per intera una storia, personale sempre, ma che, orbitando con più evidenza nelle regioni del mito e delle metafore, ha speranza di approdare ad un più franco territorio di interesse universale, ad una speranza di poesia che, pur parlando un linguaggio individuale E personale(la poetessa non vi rinuncia affatto), riesca a coinvolgere anche un po' di destino collettivo, sull'onda di non smentite sollecitazioni psicanalistiche e suggestioni cabalistiche.
Un'ipotesi di vittoria della parola Sulla vita, dunque, la polena, alter ego del poeta dibattuto tra le mille difficoltà della racconto esistenziale e della mente memore d’un canto antico che sa di illusioni, d favole, di mito. E quel fascinoso simulacro ligneo, posto Sulla prua di mitici viaggi senza ritorno, dove si gioca intera l'avventura della vita umana sublimata ai livelli della divinità eroica, diviene emblema del meraviglioso viaggio del poeta nella parola, il simbolo arcano di una cecità che vuol farsi omerica profezia, dell'afasia che vuole ancora illudersi di un canto nel muto colloquio che la donna-sirena-simulacro ingaggia con l'infinita distesa del mare, metafora del tutto e del nulla, della speranza e della perdizione: ”Gli occhi della Polena- dice Raffaele Nigro in una essenziale prefazione-occhi di legno, sono gettati sulle onde, cercano nel fondo E nel cerchio dell'orizzonte, Secondo il compito che è stato loro imposto di leggere per primi le mete, le distanze, scrutare i fondali sabbiosi pericoli delle scogliere. La polena qui mi pare simbolo dell'avventura umana. 
“Un viatico veleno”-precisa la poetessa ad apertura di libro-perché ne conosce fin d'ora la difficoltà complessiva, tutta intensità nell'espressione nella pronuncia, ma ancora e sempre presente in ordine alle difficoltà delle mete, al loro essere indistinto, al grosso rischio che si corre, reso ancora in termini che ricordano Dante, Il cui messaggio riverbera aggiornato dalla lezione novecentesca E ancora montaliana nell'intenso sapore di paesaggio che si respira all'esordio periclitante:
Ormai quali stagioni può scandire
L'arbusto di villa sullo strapiombo
Tesse inabili attese sul confine
Dove l'orto divaga
Sul chiaro del mattino.
Occhieggia anche la pergola del glicine
Battendo il compromesso alla memoria
Dròsera dionea dedalo incauto
Convolvolo di tempo sul coriambo
Fuorimoda si ostina l'orologio
Non dargli diretta chiuditi nel bozzolo
Non t’inganni il viatico veleno.
Liberatasi dell'armamentario ritmico trofico già nella prima raccolta, ora la poetessa realizza un ductus continuo senza segni di interpunzione nè scansioni metriche. Esita qualche punto e, più avanti occhieggia l'interiezione, l'uno e l'altra intesi(leggi: sentiti) come positure tra lasse, che infrangono come pause sintattiche il discorso che procede a ondate successive. Sarà uno vero è proprio remigare sulle onde di quel mare infinito che ho bisogno di qualche respiro per garantirsi in qualche modo la continuità della rotta e l'incerta interezza del percorso, per il tratto ipotizzato come possibile, cui questa particolare uso, audace, dell'enjembment convenientemente si attaglia. E se il poeta perciò serve un suo dettato istintivo, nondimeno saprà essere immemore delle sue acquisizioni coscienti, cultura e uso del verso inclusi. Difatti, A voler leggere con un po' d'attenzione, risalta non solo la accennata adesione al grande tòpos del viaggio e la disponibilità a trattare in tale e tanto spazio letterario, ma anche la tendenza duplice a fare e disfare la poesia, in adesione, cioè, e in polemica col criterio metrico assodato e sublime di fare versi: l’endecasillabo.
La Gravina offre, infatti, già in questa prima lirica della Polena, rotondi endecasillabi di qualificata classicità (10 versi su 12 sono endecasillabi, e gli altri due settenari, l'accoppiata suggestiva della canzone e non sarà un caso), e, contestualmente, ne smembra internamente la valenza sintattica, se il primo verso si completa, mediante enjambment con la metà del secondo, e il rimanente emistichio, allo stesso modo, va a colmare la prima parte del terzo verso, di cui la seconda è grammaticalmente preliminare al quarto verso settenario, definitivamente integrato come concetto nel quinto verso isometrico, antecedente la pausa ritmica che-come si è detto-è pausa interiore. 
Segno, questo, che la poetessa è tutta nel gioco del rinnovamento, accetta e rifiuta la tradizione e n organizza una sua personalissima categoria ludica, ma di quel gioco che dice l'impegno a farsi voce nuova nella gran messe della produzione poetica degli anni 80, nel bel mezzo della restaurazione poematica e del ritorno post-moderno alla classicità, ma anche nel crogiuolo d’una sperimentazione ormai perdente e nondimeno attiva coi suoi epigoni e coi suoi maestri di sempre, Sanguineti in primis e l'avanguardia novella del sedicente “Gruppo 93”, che ne richiama un altro, certo più vero e fecondo.
La Gravina occupa una mediana posizione di virtù, restaura e rinnova con oculato giudizio e circospezione e soprattutto ci sa fare, lavora sul verso, lo scompone, lo porta a finitezza dopo grande lavorio, perché sa il poeta è soprattutto un carducciano “artiere” dalla vita difficile, meglio ancora un dimesso artigiano cui difficilmente si concede spazio nella torre limbica dei poeti acclamati,il più delle volte spinti e sostenuti da grossi apparati editoriali e dall'industria del Nord. Lo stesso sentimento che anima questa seconda raccolta non esce dal contesto di melodiosa malinconia che aveva caratterizzato la prima, anzi, tale sentimento si fa ancora più delicato e dolente nell'impatto con quella metafora del silenzio che la Polena, dominatrice inerte e impassibile delle grandi distanze, rovello di sogni passati, incerto emblema del fluire della vita verso le sue rive estreme, agli orizzonti del nulla dove la vita non sorride o non sorride mai più.
La poetessa aderisce in toto, non tanto al cliché letterario, Quanto al portato concettuale e analitico di quella figura del mito che vorrebbe compiersi in una storia, in una grande storia dell'anima che approdi alla felicità o alla riva cimmeria, non importa, realizza con la Polena un luogo della mente e una condizione della psiche consapevolmente sofferta e vissuta in assenza di vita, come le rose non colte di Gozzano o di Rodenbach, e anche con qualche cruenta traccia di languore più che crepuscolare e di risentita motivazione e amputazione di forza di vivere:

Così se la polena sulla chiglia
nutre le impraticabili effemeridi
mia voce veleggiano senza voce
imperturbabile sugli aghi del crepacuore
ti salva la memoria di ogni grido
da perdere hai acerba ed innocente
l’ostinazione che dietro gli smalti
nutrica la polena senza braccia
sul gioco congelato il volo obliquo
sull'odore di sangue cerchio magico
sui tizzoni crisalidi crollate.

Tentativo notevole, questo, di sperimentazione fatto sul corpo stesso la classicità, laddove qualcosa si crea e qualcosa si distrugge, come per un aggiornato aforisma del Lavoisier. La fucina del poeta è incandescente, affina e tesaurizza il suo gruzzolo, esibisce e nasconde il cuore suo, gioca con i versi ma fa sul serio, tenta con essi una sublimazione gratificante, ma rimane conficcata nel male del vivere, procede “col passo lento di chi non ha meta”, saluta il tracollo dei sogni e delle speranze in un eccesso memore di vita vissuta nel mondo delle favole belle e nel trionfo dei riti pagani: 

addio primavere di anemoni
come un vecchio priapo stravaccato
Il mio coraggio ubriaco.

Come si vede, un addio al sublime, abbastanza moderno nella ricerca di quegli anni, sicuramente ad un sublime in cui la vita non è eroicamente esaltata e proclamata vittoriosa in un Olimpo sereno, ma stremata e trascesa da eventi di rabbioso desiderio di compiutezza, in” randagia confidenza con la morte”.
La Polena, funambolico viaggio nella vita nelle ombre con la parola accanto, realizza anche diversi esempi di agglutinazione verbale (vegelegno, fiatopianto, Euridiceorfeo), con discreta fortuna e con audacia innovativa notevole, se si considera il punto di partenza, adotta neologismi ed esotismi però memore dell'antico fastigio della parola, infrange consolidate unità stilistiche, sperimenta la possibilità che una ricerca intraverbale, a fronte di chances espressive che vengono meno per l'usura della parola poetica codificata.
Così di volta in volta identificandosi ancora in figure del mito, della letteratura, e qualche volta anche della storia (limitazione, questa, dovuta al prevalere della impellenza esistenziale e simbolica), Euridice Orfeo Elettra Ofelia, il poeta prosegue il suo viaggio tra un brivido cosmico, una promessa ho una delusione della parola, rischiando più volte di perdersi lungo il tragitto disseminato di black out e di errori istintivamente corretti, come Palinuro che per sempre mancò all'approdo grande di Enea: 

Palinuro alghe verdi sul corpo di marinaio
inconsunta memoria Morfeo ancora abbàcina
smunte diaspore innervano formule e sussidiari
-ghiaccio di foce e caldo di sorgente-
la storia e questo equivoco di infanzia e adolescenza
recisa ci appartiene sfilacciata di nebbia
revival registrato feedback.

Dell'intera raccolta, questa è la lirica più sperimentale e nuova, impiantata su un verso ipermetro e sul quasi grado zero della scrittura, sull'impiego parodico e parco di ritmi consolidati, e soprattutto su un impianto lessicale polivalente e schizoide chiamato a sussumere l'incompiuto inespresso in originale bifrontismo: con una faccia rivolta alla luce che fu (alla memoria, al sonno, alla foce, alla sorgente, alla storia) e con l'altra rabbuiata dall'angoscia della carente prospettiva della parola pronunciata ad ogni costo e in tutte le forme con quei rischi che la vita stessa non corre.
Né è uno scivolare nell'estetismo e nella preziosità accademica, perché-come si è detto-dentro “ci è l'uomo, non l'uomo storico di Francesco De Santis, l'intellettuale che va sulle barricate, ma la donna compresa di ogni denuncia, vogliosa di vivere anche una rigogliosa stagione dell'intelletto e un ultimo paradosso epocale della poesia.
Per il resto, Luciana Gravina racconta ancora se stessa, il suo essere apolide e nomade incompiuto, Il suo bipolarismo abbrividente tra città e provincia, Il suo bipolarismo anche formale come sin dagli esordi vede Donato Valli, che parla di una poesia organizzata su due campi semantici: “il primo afferente alla sfera della natura e della realtà, il secondo a quello dei segni e dei simboli”.
E se prevalente dev’essere, come si notava, indagine stilistica, nel caso della Gravina, certo non ci lasceremo sfuggire la suggestione devo una ulteriore nota tematica nella Polena, Tutta implicita programmato intermezzo e poi dispiegate dentro le cose, tra la Lucania e Roma, tra l'incanto e il disincanto contestuale della terra dolente E dello spirito terragno, con” Pisticci/ trespolo di lucciole/ sulla notte accosciata al bianco degli ulivi”, e Roma, “paese d’ombre", cerchio chiuso ed immenso di “afa e di fiato”, senza spazio e senza tempo, luogo di conflitti tra le cose (l'asfalto, Il metrò e poi la luna, gli olivastri, gli eucalipti), Roma: luogo mentale dove il viaggio sosta e prosegue, essendo tutto viaggio interiore, percorso dell'anima tradita da ogni vicissitudine:

Mi porto a casa incartocciata
la tua dolcissima ipocrita pietà
e a tradimento sulla pelle
questa voglia di fiato e di mani.

È infatti su una triplice valenza lessicale e semantica che si gioca intera la partita e il viaggio ha modo di concludersi e ricominciare mille volte o d’interrompersi, com’è nell'Intermezzo suddetto, laddove la parola “cuore”, visceralmente rediviva, e la parola “mani”, presente con la stessa viscerale valenza, scandiscono il gioco della parola poetica e la tappa intermedia di questo viaggio che insegue veramente un fantasma: la fisicità della parola, onde poterla palpare, possedere, storcerla ai fini voluti, al fine di condurre la propria vita a un orizzonte fisico concreto, senza il quale c'è lacerazione e utopia, Il doloroso tormento del non luogo a vivere.
Una scrittura sperimentale, qual è quella di Luciana Gravina, Convinta corifea di questa premessa di metodo, è, come sostiene Barilli, sempre una scrittura materialistica, o-come precisano i movimenti d'avanguardia-una scrittura di massa.
Luciana Gravina rivendica il dato individuale al fare del poeta, Ma di quelle premesse accetta il dato concreto sensoriale della manomissione E della manipolazione linguistica, Della messa in crisi della letteratura fino a un certo punto.
Con tale cauto equilibrio ella ancora si avventura nella sua più

recente ricerca, affidata ancora al piano delle ipotesi (E se... 1968), giocate sempre più sulla parola, quasi per progressivo spegnimento di vitali spasimi, e alle prove sue nuovissime, apparse in Artista Arti segrete, Dove non si spegne un suo inesausto innamoramento, l’ eco della sua passata adesione alle altezze vertiginose della poesia, ad un suo Leopardi era una sua luna “SILENZIOSA SOLINGA IMMORTALE”. Come la poesia stessa.