mercoledì 26 dicembre 2018

L'eresia dell'eros di Francesco D'Episcopo. Per Ginestre e libri proibiti. Postfazione alla seconda edizione.


Postfazione
L’eresia dell’eros
Francesco D’Episcopo

Romanzo sicuramente eretico è questo che Luciana Gravina ha scritto e che ho avuto modo personalmente di presentare nel castello Palamolla di Torraca, suggestivo paese cilentano che guarda il mare di Sapri e la cui storia attende ancora di essere integralmente riscoperta e riconsiderata. La famiglia della Gravina affonda le sue radici in questo bel paese, che lei quindi conosce da sempre, dove ha casa principalmente estiva; il che giustifica la conoscenza di posti e, in particolare, di un dialetto, a lei familiare, che mette in bocca ai suoi personaggi.
Due sacerdoti, il primo povero, Don Biagio; il secondo nobile, il Barone Giovan Giacomo, detto il Palemonio, della famiglia dei Palamolla; il primo, destinato a restare parroco del paese; il secondo, proiettato verso un futuro di vescovo, anche se in una landa solitaria e selvaggia del nostro Sud. E tutto il romanzo ruota intorno a questo ultimo evento, che chiama in causa le alte sfere religiose della capitale, con una serie di intrighi e interferenze di notevole momento. La Gravina ha così modo di dare ampia e articolata testimonianza di due delle sue patrie di vita e letteratura: Torraca e Roma, la città in cui vive.
Conosco Luciana Gravina da molti anni, quando viveva nella Lucania marina. Era una delle poetesse più alternative e avvertite nella sperimentalità di una parola avida e ardente, ma sempre consapevole e controllata nella strutturalità di un discorso poetico, aperto ad accogliere le istanze più avanzate e talvolta controverse del dibattito letterario contemporaneo.
Perché dico questo? Perché sono convinto che la nostra monade umana sia molto più compatta e coerente di quanto possa superficialmente sembrare e che sia quindi naturalmente, direi quasi biologicamente, indotta a riprodurre fedelmente ciò che si cela nei segreti del nostro essere più intimo e intenso. Questo accade, anche e soprattutto, a chi scrive poesia, prosa, che più degli altri è esposto a questo processo di espressione ed evidenziazione del proprio essere.
Ed è quanto accade, con estrema naturalezza, in questo romanzo, fondamentalmente eretico, perché eretica, nel senso generale che si è tentato di spiegare, è la sua autrice, rispetto a convenzioni e simulazioni di una storia, che la cronaca è costretta a tradire o, forse più semplicemente, a far rientrare nell’alveo, sempre vincente, di una natura, che reclama i suoi diritti più elementari ed essenziali.
Ma il discorso è più complesso, perché investe la vita dei due amici sacerdoti, i quali sono venuti inevitabilmente meno alla inflessibile regola della castità, proclamata dalla Chiesa in uno dei periodi più tormentati della sua storia, ma, come se non bastasse, sono attraversati da inquietudini teologiche di notevole spessore speculativo, che rilanciano, ad esempio, il controverso rapporto tra cristianesimo e ermetismo di Trimegisto, sulla scia  di libri proibiti, che i due amici cercano e leggono per dare sfogo a domande, destinate a rimanere senza risposta. In realtà, la loro scelta di farsi preti, come spesso accadeva in quel tempo, non era il risultato di una vocazione autentica ma di una costrizione familiare, necessariamente destinata a provocare irreversibili pulsioni fisiche e psicologiche. La costrizione è sempre una violenza della volontà, la quale è costretta a inventarsi altre strade, altri percorsi di vita e cultura. E l’autrice si rivela, in questo, pienamente sodale dell’inquietudine creativa e critica dei suoi personaggi, i quali sono chiamati ad elaborare una sorta di esperienza surrettizia a quella ufficialmente proclamata e rappresentata sulla scena della storia e della cronaca.
Merita, in tal senso, di essere evidenziato, quale elemento fortemente verosimile, l’interesse speculativo, in chiave non solo nazionale, ma europea, di un Sud, apparentemente abitato solo da villici primitivi e analfabeti. In realtà Don Biagio e il Barone Giovan Giacomo dimostrano che in questo luogo appartato del Sud si svolgevano conversari e dibattiti di alto livello culturale, ispirati, come spesso è accaduto da noi, da inoppugnabili elementi di intelligenza e ironia nei confronti del potere costituito.
E qui l’autrice ha modo di esprimere il meglio di se stessa, dando piena ragione all’efficacia esemplare di un titolo, che avrebbe altrimenti rischiato di apparire del tutto ermetico. Da un lato, infatti, ci sono i <<libri proibiti>>, dall’altro, ma non molto distanti, ci sono le <<ginestre>>, fiori selvaggi e carnali, che fioriscono dove il seme li porta ed hanno bisogno di poco, quasi di nulla, per sopravvivere, ma di molto, per amare ed essere amate. Le ginestre della Gravina sono i fiori solari della libertà e felicità, che la natura sa regalare a chi l’asseconda nelle sue invocazioni più autentiche e assolute, come quella Filomena, anch’essa fiore selvaggio e carnale di un Sud, che continua ad accendersi quando il sole batte forte e la frenesia del corpo si congiunge a quello di una mente, mai paga, ma sempre volta a frequentare territori inediti e imprevisti, come quelli che ricordano Torraca e conducono lungo le alte vie dei briganti e degli eroici martiri di Sapri.
C’è, insomma, un furor segreto, assai simile a quello che portò Giordano Bruno ad essere arso vivo a Roma, a Campo dei Fiori, e che trasmigrerà nelle geniali visioni di Telesio e Campanella, non a caso richiamati nel romanzo, che guida le umane vicende e che si contrappone alla fredda e rigida ragione del secolo che verrà. Peccato che talvolta i secoli interrompano il loro corso, per tornare indietro o andare avanti, dipende, perdendo, comunque, per non dire sciupando, l’energia faticosamente accumulata nel loro procedere storico. Giambattista Vico questo l’avrebbe lucidamente capito, rilanciando il tema di una ricorrenza e ripetitività, destinate ad imbrigliare la storia in incerti e, appunto, inquieti paradigmi.
Contro tutto ciò lottano i personaggi della Gravina, come la loro autrice, impegnati a inventarsi un presente e un futuro davvero consoni alle loro umane e intellettuali istanze più autentiche. Solo così, del resto, il profumo alternativo dei libri potrà congiungersi con quello, davvero stordente, delle ginestre, fiori di campo che rifiutano le serre…

*Il testo riproduce, in sintesi, il testo della presentazione del romanzo, tenuta a braccio nel Castello Palamolla di Torraca, il 24 luglio 2017.

domenica 24 giugno 2018

Luciana Gravina, cv


Luciana Gravina è scrittrice di narrativa, poesia e critica letteraria.

Proviene da una intensa esperienza di Ispettrice del MIUR, Preside e Docente nei Licei e nell’Università.
Le sue ultime pubblicazioni sono:
“Ginestre e libri proibiti”, romanzo, Onereed Edizioni, Milano, 2016
“Nove racconti eccentrici”, AltrEdizioni, Roma, 2017
“Bisegni”, racconti brevissimi illlustrati da Sivana Baroni, AltrEdizioni, 2015
“Burraco d’amore,” racconto in Pensieri di donna, Melagrana, 2008

 Inoltre.
Per la poesia ha pubblicato:
-"A folle da uno a due", La Scena Illustrata, con ipotesi di lettura di Saverio Pannunzio dell'Università - di Bari, 1979 

"La Polena "con prefazione di Raffaele Nigro, ed. Levante di Bari, 1984;
"E se..." con prefazione di Francesco D'Episcopo dell'Università di Napoli, ed. Rossi e Spera, Roma 1986
“M’attondo il giorno”, ArtEuropa , Edizioni ArtEuropa, Roma 2003

“Del senso e del sé”, Edizioni ArtEuropa, Roma 2006 
“L’infinito presente”, con prefazione di Rino Malinconico, AltrEdizioni, Roma 2011

Alcuni suoi testi sono presenti in riviste, quali "Il Verri" di Luciano Anceschi e Umberto Eco.
* E' presente nelle antologie:
"Le rose e i terremoti", di E. Catalano, Ed Osanna, Venosa, 1986,
"La svolta della rivolta” di Lotierzo, Nigro, Piromalli, Spinelli, Ed. Capuano, Francavilla, 1988,
“Le Lucane” di Rosa Maria Fusco, Ed. Osanna, 1980.

Per la saggistica ha pubblicato:
'Il segno e dintorni", testo di critica strutturale sulla poesia, Ed. Bibl. Prov. Matera, 1987

Nata a Buonabitacolo (SA), ha trascorso l’infanzia e la prima giovinezza a Torraca (Cilento), ha frequentato il Liceo Carlo Pisacane di Sapri e l’Università Federico II di Napoli, laureandosi il Lettere classiche. Ha abitato in Basilicata. Vive a Roma. Ha frequentato per molto tempo Parigi.
E’ stata Dirigente Superiore per i Servizi Ispettivi del Ministero della  Pubblica Istruzione. 
È stata docente presso la Siss, Università di Foro Italico di Roma, dove ha insegnato Scrittura del racconto per lo sviluppo della creatività e Nuove tecnologie educative.
È  stata Preside e docente nei Licei.
È  stata direttore editoriale di AltrEdizioni Casa Editrice.
È sta membro della Commissione OLAF della SIAE
È  scrittrice e critico letterario. 
Ha appreso l’arte del gioiello a Parigi con l’insegnamento della pittrice, orafa, scultrice iraniana Payandeh Shahanneh.




martedì 8 maggio 2018

Ricordo di un evento: Alma Mater Mamma Roma



E' il ricordo di un evento importante svoltosi presso la 
Biblioteca Vallicelliana di Roma.
La cartella di acqueforti del maestro Vanni Rinaldi su testi di Luciana Gravina ebbe una tiratura di 35 esemplari. Dunque è un'opera rara di cui una copia è stata donata dall'artista al Castello Baronale Palamolla di Torraca (SA), dove è esposta in una sala importante adibita a pinacoteca.





Gravina-Rinaldi: doppia immersione in una città inaccessibile
di Mario Lunetta

     Affrontare un tema come Roma con gli strumenti dell’arte e della poesia è, non da oggi soltanto, terribilmente scivoloso.
In primis, occorre dribblare la tentazione di un ennesimo hommage a quella che malgrado tutto (crescita disordinata, malgoverno, trascurataggine amministrativa, incultura e avidità di conquista di rendita di posizioni da parte di troppi responsabili, casualità incosciente delle soluzioni, deficienza dei piani regolatori, cattiva conservazione dei beni culturali, ecc.) resta ancora, la città più bella del mondo.
  Secondariamente, e in parallelo, adottare un’ottica di scrittura e di sguardo capace di controllare quanto più possibile il tasso di seduzione che ne emana.  Quindi, una soluzione di sospetto-abbandono, di resa ostile.
     Roma è superflua, nella post-modernità superficiale e iperveloce votata al puro consumismo nella quale viviamo. Lo è perché la sua natura scenografica si apre continuamente in termini di stupore teatrale, non in termini di funzionale attualità urbanistica. Quando nel 1896 Emile Zola pubblicò Rome, il suo romanzo dedicato alla capitale d’Italia, dichiarò che Roma non sarebbe mai stata una città moderna e attende ancora, in gran parte, di essere smentito.
      Un artista, un poeta che intendano misurarsi responsabilmente con questa realtà irreale, col suo caos odierno e le sue memorie iconico architettoniche che la permeano come un immenso abito di scena di impressionante mutevolezza, debbono avere il coraggio, come dire, la coscienza critica di compiere un’operazione di oblio ragionato nei confronti di una stratificazione di bellezza ormai mineraria. Un atteggiamento di sacrosanto cinismo, si direbbe. Solo così è possibile sottrarsi alla banale retorica dell’ossequio nei confronti di un fantasma consumatissimo e insieme inconsumabile come Roma.
      È appunto questa la scelta che, con la grande consapevolezza, hanno fatto un poeta come Luciana Gravina e un’artista come Vanni Rinaldi, implicando in modi trasversali le due condizioni a contrasto: la classica Alma Mater e la pasoliniana Mamma Roma;  quest’ ultima, non divinità vaporosa ma donna battuta dei primi anni 60 nel secolo scorso.
       Sicuramente, a dare legittimità di accostamento e di alleanza al poemetto di  Luciana Gravina in cinque brevi sezioni (Sinfonia  per  orme e uccelli) con le cinque acqueforti- acquetinte  a colori di Vanni Rinaldi  (Orme e uccelli; Sacro e profano; Cartoline; Alma mater; La soglia degli eventi) è, ben più che la comune tematica del gran teatro capitolino, una stessa inclinazione sperimentale, che sul piano linguistico attraversa con moderata tensione post-espressionista la maestà del patrimonio storico della Città Eterna scottandolo con le contraddittorie pulsioni dell’oggi piccolo borghese e sottoproletario.
     Così, il testo di Gravina si sviluppa a suo modo come un arazzo slabbrato, in cui fili e intrecci preziosi si annodano a sgorbiature e rammendi di materiali bassi. Il tono è efficacemente rosso, e in qualche misura rissoso. Ciò che più profondamente innerva questa diversificazione ipermetra è la cancellazione di quel principio di pura contemplatività, che rende così arcaica (e arcadica) tanta scrittura in versi dei nostri anni. Luciana guarda, sì, ma interviene su un sistema in dissesto, tra Grandi Ombre e Cartoline, aura ormai da tempo dissipata e odierno degrado: e la lingua si snoda, al pari di un organismo animale tra fantasmagorie oniriche e impellenze di realtà volgare, se non sconcia, con  sorde sonorità  e squilli improvvisi.  Una drammaticità diffusa e una lieve nausea mescolate, che di colpo, nella sezione III, si sghiribizzano in due strofette di ottonari piene di grazia dispettosa, quasi a alleggerire la tonalità grave e acuta di un discorso che si conclude fortemente con un’assunzione di responsabilità: “ Ora / sulla soglia degli eventi, egw disthmi. IO STO”.
         Le acqueforti di Vanni Rinaldi rispondono con autonoma energia alle sollecitazioni del poemetto, avventurandosi con la bussola di un istinto visionario ben temperato negli anni e nell’esperienza dentro i territori di una realtà disgregata, inafferrabile, magari indicibile. Vanni non cede alle tentazioni del racconto, che di fronte a un tema sovrano possono facilmente scivolare nell’illustrativo; ma punta piuttosto a una sintesi che definirei senz’altro allegorica.
      Gli elementi dispersi di una vicenda millenaria ridotta a pochi frammenti significanti sembrano galleggiare in un fluido che ospita nel suo fascino ambiguo memorie e sensualità, impennate e cadute, slanci e costrizioni: sempre con una consapevolezza di alto artigianato e di estremo rigore nel suo arbitrio stilistico, capace di coniugare brillantemente libertà dell’invenzione cromatica e sintassi delle geometrie.
          Rinaldi è un artista che non si è mai chiuso in una maniera, ma ha instancabilmente elaborato suo modus espressivo fondato sulla fermezza iconica e l’azzardo contaminatorio. Anche in questa impresa a stretto contatto con un testo poetico non si smentisce – e del resto numerosi e proficui si succedono a partire dagli anni Settanta, i suoi interventi di pittore e di grafico a ridosso di testualità letterarie (non ultima, e direi particolarmente cospicua, la serie recente di 100 tavole dedicate alla Commedia dantesca): delirio iconico infuso con metodo nella scansione cromatica dominante cui obbedisce ciascuna tavola (dal verdino al testa di moro, dall’azzurro al ruggine, con la non casuale presenza del nero in funzione di sottolineatura perentoria di qualche oscuro allarme): questo, direi, è il carattere che fa di questo intervento in cinque tempi un’interrogazione plurale che contiene già in sé la propria risposta.
                                                                                  Mario Lunetta
Accademia Platonica, febbraio 2011.