martedì 8 maggio 2018

Ricordo di un evento: Alma Mater Mamma Roma



E' il ricordo di un evento importante svoltosi presso la 
Biblioteca Vallicelliana di Roma.
La cartella di acqueforti del maestro Vanni Rinaldi su testi di Luciana Gravina ebbe una tiratura di 35 esemplari. Dunque è un'opera rara di cui una copia è stata donata dall'artista al Castello Baronale Palamolla di Torraca (SA), dove è esposta in una sala importante adibita a pinacoteca.





Gravina-Rinaldi: doppia immersione in una città inaccessibile
di Mario Lunetta

     Affrontare un tema come Roma con gli strumenti dell’arte e della poesia è, non da oggi soltanto, terribilmente scivoloso.
In primis, occorre dribblare la tentazione di un ennesimo hommage a quella che malgrado tutto (crescita disordinata, malgoverno, trascurataggine amministrativa, incultura e avidità di conquista di rendita di posizioni da parte di troppi responsabili, casualità incosciente delle soluzioni, deficienza dei piani regolatori, cattiva conservazione dei beni culturali, ecc.) resta ancora, la città più bella del mondo.
  Secondariamente, e in parallelo, adottare un’ottica di scrittura e di sguardo capace di controllare quanto più possibile il tasso di seduzione che ne emana.  Quindi, una soluzione di sospetto-abbandono, di resa ostile.
     Roma è superflua, nella post-modernità superficiale e iperveloce votata al puro consumismo nella quale viviamo. Lo è perché la sua natura scenografica si apre continuamente in termini di stupore teatrale, non in termini di funzionale attualità urbanistica. Quando nel 1896 Emile Zola pubblicò Rome, il suo romanzo dedicato alla capitale d’Italia, dichiarò che Roma non sarebbe mai stata una città moderna e attende ancora, in gran parte, di essere smentito.
      Un artista, un poeta che intendano misurarsi responsabilmente con questa realtà irreale, col suo caos odierno e le sue memorie iconico architettoniche che la permeano come un immenso abito di scena di impressionante mutevolezza, debbono avere il coraggio, come dire, la coscienza critica di compiere un’operazione di oblio ragionato nei confronti di una stratificazione di bellezza ormai mineraria. Un atteggiamento di sacrosanto cinismo, si direbbe. Solo così è possibile sottrarsi alla banale retorica dell’ossequio nei confronti di un fantasma consumatissimo e insieme inconsumabile come Roma.
      È appunto questa la scelta che, con la grande consapevolezza, hanno fatto un poeta come Luciana Gravina e un’artista come Vanni Rinaldi, implicando in modi trasversali le due condizioni a contrasto: la classica Alma Mater e la pasoliniana Mamma Roma;  quest’ ultima, non divinità vaporosa ma donna battuta dei primi anni 60 nel secolo scorso.
       Sicuramente, a dare legittimità di accostamento e di alleanza al poemetto di  Luciana Gravina in cinque brevi sezioni (Sinfonia  per  orme e uccelli) con le cinque acqueforti- acquetinte  a colori di Vanni Rinaldi  (Orme e uccelli; Sacro e profano; Cartoline; Alma mater; La soglia degli eventi) è, ben più che la comune tematica del gran teatro capitolino, una stessa inclinazione sperimentale, che sul piano linguistico attraversa con moderata tensione post-espressionista la maestà del patrimonio storico della Città Eterna scottandolo con le contraddittorie pulsioni dell’oggi piccolo borghese e sottoproletario.
     Così, il testo di Gravina si sviluppa a suo modo come un arazzo slabbrato, in cui fili e intrecci preziosi si annodano a sgorbiature e rammendi di materiali bassi. Il tono è efficacemente rosso, e in qualche misura rissoso. Ciò che più profondamente innerva questa diversificazione ipermetra è la cancellazione di quel principio di pura contemplatività, che rende così arcaica (e arcadica) tanta scrittura in versi dei nostri anni. Luciana guarda, sì, ma interviene su un sistema in dissesto, tra Grandi Ombre e Cartoline, aura ormai da tempo dissipata e odierno degrado: e la lingua si snoda, al pari di un organismo animale tra fantasmagorie oniriche e impellenze di realtà volgare, se non sconcia, con  sorde sonorità  e squilli improvvisi.  Una drammaticità diffusa e una lieve nausea mescolate, che di colpo, nella sezione III, si sghiribizzano in due strofette di ottonari piene di grazia dispettosa, quasi a alleggerire la tonalità grave e acuta di un discorso che si conclude fortemente con un’assunzione di responsabilità: “ Ora / sulla soglia degli eventi, egw disthmi. IO STO”.
         Le acqueforti di Vanni Rinaldi rispondono con autonoma energia alle sollecitazioni del poemetto, avventurandosi con la bussola di un istinto visionario ben temperato negli anni e nell’esperienza dentro i territori di una realtà disgregata, inafferrabile, magari indicibile. Vanni non cede alle tentazioni del racconto, che di fronte a un tema sovrano possono facilmente scivolare nell’illustrativo; ma punta piuttosto a una sintesi che definirei senz’altro allegorica.
      Gli elementi dispersi di una vicenda millenaria ridotta a pochi frammenti significanti sembrano galleggiare in un fluido che ospita nel suo fascino ambiguo memorie e sensualità, impennate e cadute, slanci e costrizioni: sempre con una consapevolezza di alto artigianato e di estremo rigore nel suo arbitrio stilistico, capace di coniugare brillantemente libertà dell’invenzione cromatica e sintassi delle geometrie.
          Rinaldi è un artista che non si è mai chiuso in una maniera, ma ha instancabilmente elaborato suo modus espressivo fondato sulla fermezza iconica e l’azzardo contaminatorio. Anche in questa impresa a stretto contatto con un testo poetico non si smentisce – e del resto numerosi e proficui si succedono a partire dagli anni Settanta, i suoi interventi di pittore e di grafico a ridosso di testualità letterarie (non ultima, e direi particolarmente cospicua, la serie recente di 100 tavole dedicate alla Commedia dantesca): delirio iconico infuso con metodo nella scansione cromatica dominante cui obbedisce ciascuna tavola (dal verdino al testa di moro, dall’azzurro al ruggine, con la non casuale presenza del nero in funzione di sottolineatura perentoria di qualche oscuro allarme): questo, direi, è il carattere che fa di questo intervento in cinque tempi un’interrogazione plurale che contiene già in sé la propria risposta.
                                                                                  Mario Lunetta
Accademia Platonica, febbraio 2011.