lunedì 13 maggio 2019

Luciana Gravina, La poesia di Giulia Perroni


Luciana Gravina
La poesia di Giulia Perroni (Presentazione Libreria Odradek)
15 aprile 2019

La scrittura poetica per sua natura enigmatica, polisemica, spesso misteriosa è in genere una sfida, ed è una sfida d’amore.
Il testo lancia i suoi segnali al lettore, lo intriga, lo avviluppa nella sua alchimia.
Lo seduce, direbbe Roland Barthes.
La poesia di Giulia Perroni lo fa egregiamente con un suo stile rarefatto e narrativo, straziato eppure in equilibrio sui lacerti, uno stile soprattutto libertario, di una libertà cercata e sperimentata in tutto il suo percorso e i cui ultimi segnali sono evidenti nel passaggio da Tre vulcani e la neve  a  La tribù dell’eclisse.
Nel penultimo libro residuano titoletti su lunghissimi brani, diciamoli, capitoli, segnati in un corsivo minimizzante, quasi timidi  che preludono alla fine di ogni distinzione o enunciato chiarificatore.
Scompariranno infatti nel successivo libro con un gesto totalmente liberatorio.
In entrambi l’assenza di punteggiatura (la distinzione tra le strofe o tra i versi è data dalla maiuscola a capoverso) segnala l’esigenza del testo di respirare senza filtri come un corpo che si libera degli abiti, dei gioielli e procede pudico nella sua nudità.
Si noti che La tribù dell’eclisse smette anche il vezzo di definirsi poema, che invece è presente in copertina per Tre vulcani e la neve.
Mi soffermo su questi due ultimi volumi che mi sembrano significativi di una consapevole maturità, non soltanto formale, ma anche del flusso esistenziale che ci raccontano.
Giulia Perroni, infatti, racconta storie: storie di sé, e di altri, ma senza debiti cronologici, intrecciando e confondendo.
E le narrazioni si rimandano vicendevolmente fatti appena accennati e emozioni tradotte in metafore, sinestesie, versi di varia misura, dal settenario, all’endecasillabo, al verso ipermetro.
Entrambi i volumi  hanno un tema, un lieve filo conduttore che sembrano enunciati dall’incipit:
“Io mi avvolgo nel canto perché l’anima sopravviva”, dove è riconosciuta la funzione salvifica della poesia che è una delle consapevolezze che fanno del poeta un poeta e non un versaiolo della domenica. E si procede dentro un lungo lieve racconto in cui figurano, come veloci apporti, guerre, ingiustizie sociali, poetesse, briganti, musicisti, tate, ville, carrozze, e tanto altro, elementi che veicolano un’attenzione esplicita al mondo esterno, alla storia e alla vicenda personale, presente il padre, sul cui anello figurano, a stemma, tre vulcani (appunto). Mi sembra la figura che chiude il cerchio. E poi c’è la madre, il maternale, il sacro utero, che si tiene in disparte.

In Tribù dell’eclisse la madre emerge all’inizio come protagonista, come sostegno alla poetessa che in questo volume si carica sulle spalle l’umanità, quella genia di uomini che, nonostante la millenaria e incessante produzione di senso con cui ha cercato di esorcizzare la paura, ancora è spaventata dall’eclisse.

In un lungo  brano la madre vi figura come una citazione intermittente a svelare una fatica incessante  della poetessa per decodificare il rapporto madre-figlia innanzitutto per sé, lo sforzo di parlarne con il lettore in una cogente ansia di pacificarsi con la figura materna.
Non mi sembra una caso che questo percorso poetico abbia il suo incipit nel nome di Biancaneve.
Nella fiaba Biancaneve è vittima della magia della matrigna cattiva. In realtà  i fratelli Grimm redassero alcune varianti della fiaba, in una delle quali, che è la prima stesura, è la madre che è gelosa della bambina e ne ordina l’uccisione. Poi mangia i polmoni e il fegato del cinghiale che il cacciatore le spaccia per quelli di Biancaneve, in un rito di orrendo cannibalismo.  Questo per dire che nelle fiabe originarie, non ancora assoggettate al bisogno di moralità che impone la funzione educativa della società civile, gli istinti primordiali di una umanità primitiva sono rappresentati per metafora in maniera inequivocabile. In questa ottica si colloca il rapporto madre-figlia che è amore viscerale e nello stesso tempo, gelosia e invidia. Per fortuna in una umanità evoluta la relazione generazionale in genere viene gestita con intelligenza, con empatia e, soprattutto con amore.

Giulia giunge come poeta matura a un tempo in cui tutti i conflitti, palesi, o mai  palesatisi, sembrano risolti.
Ora il rapporto con la madre è amore, ammirazione, devozione, solidarietà nel sentimento e nell’emozione. “Ti auguro il susino e la vernaccia // tutto il fuoco del corpo accompagnato // da mantiglie di luce // Eri bellissima nel fuoco tuo di fiamma” (v. 7-10, pag. 13), e più oltre “Vieni con me stanotte // odora il mare la cornice la foglia ogni cancello // e il mio dolore prendilo è sincero // come il ramo sul merlo //” (v.18-21, pag. 13). (Bellissima la sinestesia “mantiglie di luce”, il cui apporto euforico amplifica e sostiene il dettato passionale della strofa.)
 Ma c’è il senso di colpa “Ed io proterva ancora mi querelo…”, (v 12, pag. 14)   per avere pensato “… la mia mamma mi vuol male non vuole affatto// ch’io sia più felice  “vv. 9,10, pag. 14”. E così a lungo, fino a pag. 17, si snoda un dialogo in absentia  (della madre, ovviamente) che si conclude con una desolata affermazione “Sono sola”, (v. 25, pag. 17).
Alla fine la poetessa è sola a portare il peso di un racconto frantumato e essenziale di una umanità desolata, di una condizione permanente di solitudine (appunto). Ed è una condizione questa volta coraggiosamente portata in prima persona e l’uso congruo e ricorrente dei pronomi, personale e riflessivo di prima persona, io e mi, lo confermano, mi pare, ampiamente.

Le parole di questa poesia percorrono itinerari faticosi e tappe progressive, eppure sembrano che non avanzino. Questa poesia si ritrova sempre allo stesso punto perché il suo territorio non ha limiti, non ha un inizio né una fine. Le parole vi errano come stregate per intercettare il fine ultimo, l’essenza del tutto. In fondo la poesia, per essere, ha bisogno di perdersi: non sopporta definizioni né istituzionalizzazioni. La sua essenza consiste nell’erranza permanente. E questa poesia lo dimostra.
Sicuramente recerche di un tempo apparentemente perduto, rivisitato per flash come è consuetudine di questa poesia,  e utilizzato come tramite di indagine verso la profondità delle cose, verso le ragioni misteriose dei fatti, degli accadimenti. Solo per fare un esempio di struttura memoriale di cui sono disseminati questi libri
“E le cose che tornano fanno ala al mistero // sono taglierini ansiosi / del lago dove vivono i pesci”
Potremmo definirla poesia ametodica: vuole tutto nello stesso tempo.
La parola alogica della poesia non traccia percorsi, va come persa. La parola che definisce e penetra nella notte dell’inesprimibile. Non si rassegna al fatto che ogni essere sia soltanto ciò che appare. Persegue l’infinitezza di ogni cosa.

Comunque, e ciò che sto per dire, potrebbe sembrare una contraddizione con l’idea di libertà o di liberazione che ho sostenuto prima, ma non lo è: questo è un sistema di versificazione consapevole che mette in metrica misure tradizionali e che svelano la frequentazione dell’autrice con la poesia del passato e del nostro tempo contemporaneo. C’è il segnale di una riflessione sugli strumenti della poesia (versi normati come l’endecasillabo o il settenario, ma anche versi ipermetri, anticonvenzionali, ma ritmati senza deroghe o trasgressioni).
 Ne prendo uno a caso “Immagino quell’anima pesante che chiede a tutti un grido”, (Tre vulcani e la neve, pag. 81, v.10), dove a un endecasillabo si aggiunge un settenario, entrambi riconoscibili nel ritmo. Questa struttura lunga ci dice di un verso inquietante che ci scaraventa dentro un indeterminato non luogo e non spazio a indagare su “quell’anima pesante” , su un’entità eterea e forse informe proprio perché immateriale, per come siamo abituati a concepire l’anima e, soprattutto, che ci sfugge in virtù del deittico “quel” che ce la allontana ma ce la rende ad un tempo desiderabile. Perché quell’anima è pesante di fascino nel mistero del che cosa. Di che cosa è pesante quell’anima? Di sofferenza? Di delusione? Del peso della verità? Della consapevolezza di aver trovato l’essenza dell’essere? Non lo sappiamo.
La parola poetica ci asseta, ma non ci disseta.
E poi. Perché “chiede a tutti un grido”?
Bella domanda: provo a indovinare. Perché è stata indotta dalla parola poetica alla conoscenza dell’essenza ultima in un  processo che le ha svelato il dolore, il “male di vivere” (direbbe Montale), e davanti al male si può urlare, anzi si deve?
Ma è un ‘ipotesi, non lo sapremo mai.
La parola poetica pone problemi, può trascinarci nel mistero o renderci invasati, o spingerci in trance, ma non ci spiegherà mai nulla, come fa invece la parola filosofica, perché il mistero è inspiegabile, la sua radice è “mu”, come per “mistico”, da collegare al verbo greco myein chiudere, serrare”. Noi poveri scrittori e lettori di poesia, imbarcati sulla parola poetica gli possiamo navigare intorno, al mistero, fargli il periplo, ma forse nessun poeta riuscirà a “parlarlo”.

Un elemento stilistico interessante in questa poesia è la ripetizione delle parole (Tuppete qua, tuppete la, trallalero trallallà (La tribù dell’eclisse, versi ricorrenti, pagg. 44 e 45).
La parola ricorrente è una pratica di magia, è richiamo energetico dall’armonia dell’universo.
 La poesia si solleva dalla magia e dalla religione, (e non alludo ad alcun credo codificato)  ma con esse mantiene legami permanenti. Giulia Perroni cita Dio e Maria, ma la sua è una teologia personale svincolata da ogni cogenza dogmatica..

Mi sembra, e concludo, che con questa tessitura della parola poetica
l’autrice ci induca alla conoscenza aurorale di qualcosa che esige di
essere nuovamente guardato e ci inviti al risveglio di una consapevolezza
che la ragione non può conseguire.
                                                                                               Luciana Gravina