venerdì 28 giugno 2019

Il vino della Messa, un mio racconto ambientato nel mio paese al sud.


Il vino della messa di 

Un racconto dedicato alla mia infanzia

In tanti anni che don Giovanni diceva Messa, non lo avevano mai visto così scuro in faccia. Sembrava molto arrabbiato.
Aveva sceso i tre scalini dell’altare con il calice coperto dalla tovaglietta bianchissima col bordo di pizzo a chiacchierino e piegata in tre.
Non aveva guardato come sempre verso  la navata centrale e si era velocemente infilato in sagrestia.
I fedeli si erano alzati in piedi perplessi e soprattutto meravigliati per quell’ ”Ite missa est” detto con un tono che voleva significare: “Andatevene, levatevi dai piedi, ho problemi gravi da risolvere”.
Lentamente si erano defilati, mentre le donne del coro avviavano il Salve Regina con cui si concludevano le funzioni.
Anche loro avevano notato il malumore del parroco e avevano fretta di concludere per chiedere, magari proprio a lui, per sapere, per capire, per vedere se lo avrebbero potuto aiutare.
Cosicché, non appena terminato l’Amen, che era stato meno lungo del solito, (in verità avevano anche saltato l’ultima strofa), si erano dirette in fila indiana verso la sagrestia con Caterina in avanguardia.
Nessuna di loro avrebbe potuto mettere il piede avanti a Caterina che, era pur vero che era la più anziana, ma, soprattutto, era la persona le cui mani erano incaricate di preparare i paramenti sacri per le cerimonie religiose. Soltanto lei poteva lavare e stirare le tovaglie ricamate dell’altare, spolverare la casula, le stole, il piviale, il copricalice. Soltanto lei doveva provvedere a procurare il vino bianco per la messa e riempire all’occorrenza l’ampolla da cui il sacerdote versava il delicato nettare nel calice e dove, a seguito di magiche benedizioni, diventava il sangue di Cristo. E da quel calice  don Giovanni lo beveva a ogni Messa. Un bel sorso ristoratore soprattutto alla Messa mattutina, alla quale si doveva pervenire digiuni dalla mezzanotte.
Caterina era anche la guida del coro perché dava il “la”, quando si iniziava a cantare e tutte le voci dovevano accordarsi alla sua nota iniziale.
Questa sua competenza era un mistero, perché era sorda come una campana.
Per questo, varcata la soglia del retroaltare, non percepiva gli urli del prete che dall’altra stanza le chiedeva ragioni di un cosiffatto delitto:
“Ma come hai potuto farmi questo?”
Aveva capito soltanto quando lui si era girato rosso paonazzo con l’ampolla del vino in mano.
“Don Giovanni, ma che ho fatto?”
“Questo non è il vino delle signorine Bifano: è acido, è un aceto schifoso.”
“Ma non è vero, l’ho comprato ieri, lo sapete che vado personalmente.”
“E tu l’hai assaggiato quando l’hai comprato?”
“No, ma vi pare che mi metto a bere vino a casa della gente? Sono una ragazza perbene io.”
“Sì, ragazza…! Vedi tu stessa, annusa per lo meno, che già all’odore si sente che è disgustoso. Questo non me lo dovevi fare.”
Caterina, in bilico tra rabbia e costernazione, aveva afferrato l’ampolla e l’aveva portata al naso.
Effettivamente era aceto di vino bianco e anche di pessima qualità.
Aveva cercato con lo sguardo, per invocare un minimo di solidarietà, a una a una le ragazze che ridevano nascondendosi una dietro l’altra. Niente da fare: con loro avrebbe fatto i conti dopo.
Si era girata verso il prete ergendosi sul busto e alzando la testa incorniciata da una ricca treccia brizzolata.
“Io sono sicura di aver portato il vino buono della Messa, ve lo faccio confermare dalla signorine Bifano. Andiamo da loro. Andiamo tutti.”
“Andiamo” don Giovanni aveva accolto la sfida e si erano avviati: Caterina avanti, poi lui che ancora si abbottonava la tonaca nera, e dietro si erano messe Elvira, Maria, Sisina, Gigetta, e le bambine, Marta, Marcella, Rosetta e Luciana.
All’uscita dalla chiesa li aveva investiti una densa folata di aria calda che in quel mese di giugno, si sentiva già dal mattino.
Sul sagrato i ragazzi del Partito Comunista stavano attaccando i manifesti per il comizio del pomeriggio.
Glieli mettevano proprio sotto il naso quei delinquenti, acchiappapreti, atei, che si mangiavano i bambini.
Si era già alle seconde elezioni dopo la proclamazione della Repubblica Italiana del 1948 e l’attrito tra la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista era esponenziale. Fioccavano calunnie da una parte e dall’altra, dispetti, sguardi torvi, minacce, e pure qualche scazzottata.
Ma la gente ascoltava don Giovanni che raccomandava di votare il partito gradito dal Papa e a Nostro Signore. Non si potevano sbagliare perché si chiamava Cristiana. E così stavano preparando i vecchietti malati e pure quelli moribondi,  coi certificati medici e le sedie per trasportarli alle urne.
Su costoro i Comunisti non avevano alcun potere e gli animi si erano infuocati al punto che era successo quello che non avrebbe mai dovuto succedere.
I comizi avvenivano sulla gradinata della chiesa e quello del Segretario  Provinciale del PC, avvenuto quattro giorni prima, era stato disturbato da imperterriti fischi che venivano dalla finestra della Sagrestia.
Erano le bambine del coro, alle quali avevano impedito di avvicinarsi ai comunisti, intimando che non si muovessero di là, finché i comunisti non se ne fossero andati via tutti. Ma loro, spinte dal sacro fuoco della passione civile, avevano manomesso tutte le serrature delle porte, degli stipi, delle casse e, posizionate in bilico sui panchetti di legno ad altezza di finestra, si erano messe a fischiare soffiando nei fori delle chiavi.
Il manipolo nerboruto di giovanotti barbuti che accompagnava il Segretario Provinciale aveva pensato a una iniziativa del prete.
Aveva passato il limite questo qui e bisognava dargli una lezione.
Cosicché si erano appostati di notte sul ponte della Fontana Vecchia, lo avevano aspettato che tornava a casa e lo avevano riempito di botte.
Non erano passati molti giorni e don Giovanni era ancora molto scosso: forse per questo aveva reagito in malo modo al vino aceto. Forse per questo, girandosi indietro verso le bambine, le aveva minacciate”. Con voi dobbiamo ancora fare i conti. Sì ridete, ridete, brutte mascalzone: mi avete fatto prendere un paliatone.”
Marcella, Marta, Rosetta e Luciana avevano continuato a ridere e a sghignazzare sottovoce, parlandosi nell’orecchio. Sapevano che non correvano pericoli: don Giovanni era un pezzo di pane. La campagna elettorale le eccitava e le coinvolgeva: a modo loro, facevano politica.
Il gruppetto camminava veloce e concitato, soprattutto curioso della reazione delle sorelle Bifano.
Avevano salito le scale esterne della loro casa, avevano spinto l’anta del portone in legno e ora cominciavano a salire per quelle interne.
In quel piccolo paese di circa mille anime nessuno chiudeva le porte: si entrava e si usciva tranquilli, nessuno rubava, nessuno perpetrava azioni ai danni dei proprietari e degli abitanti.
L’unica cattiveria erano le chiacchiere maligne, ma don Giovanni picchiava duro nelle omelie domenicali: “Non calunniate. E venite a confessarvi.”
Le sorelle Bifano erano arrivate in cucina una ad una e si erano messe in fila, come davanti al plotone d’esecuzione.
Li aveva accolti Felicia, che era la più anziana, capelli neri, tinti, raccolti alla sommità della testa in riccioli adagiati sulla fronte, a nascondere la ricrescita bianca dell’attaccatura.
Li aveva poi raggiunti Ginevra, di qualche anno più giovane, ma pettinata e vestita come Felicia: sembravano gemelle, stessa camicetta grigia e piccoli fiori azzurri, gonna grigia, stretta, lunga al polpaccio, calze pesanti, nonostante il caldo di giugno e scarpe allacciate con tacco medio, doppio.
Ovviamente zitelle. Si occupavano della casa e delle vigne.
Itala era emersa subito dopo dalle sue stanze. Sembrava assonnata, ma era in perfetto ordine. Era bionda (si tingeva con l’acqua ossigenata), capello corto con permanente riccia, rossetto, smalto rosso, camicia attillata e gonna a campana stretta in vita. Scarpa dècolletè con tacco sottile. Calze trasparenti.
Aveva portato a lungo il lutto, tutta a nero, dalla testa ai piedi per la sua vedovanza. La nave di suo marito, ammiraglio della Marina Militare Italiana, era stata affondata in un’operazione di guerra. Aveva vissuto poco il matrimonio e si manteneva magra come una signorina.
Ma poi aveva osato vestirsi a colori, contravvenendo alle regole del paese.
Le sorelle avevano approvato e l’avevano incoraggiata.
Giunta in cucina, aveva salutato e si era allineata quando già l’ampolla col sedicente vino era nelle mani di Felicia. La quale l’aveva annusata, si era soffermata a pensare con una leggera smorfia della bocca e l’aveva passata a Ginevra. Anche lei l’aveva annusata e, disgustata, l’aveva passata a Itala. La donna aveva aspirato con circospezione, aveva persino assaggiato un po’. Poi aveva passato l’ampolla a Caterina sentenziando: “Questo non è il nostro vino”.
“Non è possibile” aveva risposto Caterina, “perché io l’ho versato dal peretto di tre litri in cui me l’avete dato voi”.
“E’ vero, Caterina non dice bugie,” aveva sostenuto don Giovanni “Forse si è deteriorato durante la notte.”
“Se pensate questo, ci offendete” aveva protestato Felicia, “ Il nostro vino non va a male, è il migliore del paese e vengono anche dai paesi vicini a prenderlo da noi per la Santa Messa.”
“Ti prego, Felicia, qui nessuno vuole offendere nessuno. Stiamo cercando di capire,” il prete non voleva scatenare una guerra.
Ginevra aveva le lacrime agli occhi, ma Felicia difendeva il loro vino bianco a muso duro.
“Lo sapete tutti che le nostre vigne del Lavanese sono quelle meglio esposte al sole perché l’appezzamento è in pendenza e poi sapete anche che, quando la vigna è impiantata su terreno roccioso, il vino è come un miracolo della natura. Se fosse vivo papà che le ha piantate quelle vigne, ve lo potrebbe spiegare meglio di noi. E che fatica per andare a comprare i vitigni in Veneto, quando decise di mescolare la Malvasia alla Coda di Volpe per fare un vino più aromatico, più dolce, proprio perché pensava al vino della messa.”
In verità le bambine pensavano che quel vino piaceva a tutti, non solo ai preti e, quando a casa si riusciva a metterne una bottiglia in tavola, lo facevano assaggiare anche a loro perché  era dolce. Non poteva far male.
Felicia fu interrotta nella sua orazione in difesa del vino da uno scatto di Caterina: “E allora ci devi dire perché sa di aceto,” aveva detto porgendo di nuovo l’ampolla alla donna che però si era guardata bene dal prenderla. Il braccio di Caterina era restato a mezz’aria. Poi con gesto deciso aveva consegnato ampolla e vino nelle mani di don Giovanni: “Io l’ho versato dal peretto e non so altro”.
Per Caterina il problema finiva lì, con tanto di mistero, ma lui era disposto ad andare fino in fondo. “Allora andiamo a controllare il vino del peretto e, se non è buono, ve lo rimando indietro”, aveva detto alle sorelle Bifano che oramai avevano messo il muso e si mostravano offese.
A stento li avevano salutati, mentre loro imboccavano le scale diretti a casa di Caterina dove era conservato il peretto col vino.
Il gruppetto marciava concitato e riattraversava il paese.
Ormai faceva caldo, e si sudava, e si sbuffava. Il vociare di quello strano manipolo inondava le strettole ciottolose, le anguste strade sulle quali si aprivano porte a pianterreno, porcili, legnaie, e soprattutto cantine odorose di vino, di uva secca, di mosto stantio, di acre aceto.
A quell’ora nelle case c’erano soltanto le donne anziane e i bambini, e tutti si affacciavano sulle porte incuriositi dal passaggio di quella gente. Ma poi vedevano il prete e Caterina, riconoscevano le altre e salutavano con rispetto.
I vecchi erano al sole nella piazza seduti sui pesùli di pietra.
I giovani erano nelle campagne a prendersi cura degli ortaggi, ma soprattutto delle vigne. Il paese, infatti, con le case arroccate una sull’altra intorno alla collina da cui si vedeva il mare, era dotato di un territorio roccioso, soleggiato, coltivato a vigneti. Quasi tutte le famiglie ne avevano un pezzetto e facevano il vino: rosso, con uva Sangiovese e Ciliegiuolo, quello forte che tingeva il bicchiere, e bianco con Coda di Volpe, che era il vitigno autoctono. Da qualche tempo erano state introdotte la Malvasia e la Falanghina.
Lo chiamavano il paese del vino: quasi tutti lo sapevano fare bene.

A casa di Caterina il peretto fu estratto dal ripostiglio e fu aperto.
Data la singolarità della situazione si fece eccezione sulla virtù della sobrietà femminile: la padrona di casa prese bicchieri per tutti e si assaggiò il vino. Maria di nascosto ne rifilò un sorsetto anche alle bambine.
Si erano sedute attorno al tavolo della cucina con don Giovanni a capotavola.
Il vino delle sorelle Bifano era indiscutibilmente buono: il migliore. Non era andato a male e quindi neanche quello dell’ampolla in chiesa avrebbe potuto.
Dunque il vino dell’ampolla non era quello delle sorelle Bifano: qualcuno l’aveva sostituito. Qualcuno che, per dispetto o, peggio, per vendetta, non si era fatto scrupolo di entrare in chiesa di soppiatto e di manomettere un oggetto sacro, qual era l’ampolla pulita, brillante, da cui traspariva il vino ambrato dai riflessi caldi e luminosi.
C’era in questo gesto sacrilego un pertinace volontà di vendetta e don Giovanni, a sentirsene destinatario, era stato colto da un’angoscia scurissima. Si sentiva in pericolo. Nella sua mente si affollavano volti di donne e di uomini e lui li passava in rassegna per capire se esprimevano sentimenti ostili. Ma, a conti fatti, lui non aveva nemici.
Sulla sostituzione del vino con l’aceto il mistero diventava sempre più fitto.
Si chiedeva come poteva essere entrato costui o costei, dal momento che le chiavi della chiesa ce l’avevano soltanto lui e Caterina? Era pur vero che le porte rimanevano aperte per buona parte della giornata, ma, tra la preparazione delle funzioni e la rimessa a posto, la pulizia del pavimento e la disposizione dei fiori sull’altare, c’era sempre qualcuno a pregare, a sorvegliare, a sospirare. Senza contare che ai vecchietti seduti in piazza, proprio di fronte, non sfuggivano eventuali entrate e uscite: avevano tutto sotto controllo.
Si era congetturato a lungo attorno al tavolo nella cucina di Caterina e alla fine si era fatto il silenzio, un silenzio pesante, denso di interrogativi e di sconforto.
Poi don Giovanni si era alzato dalla sua sedia: “Beh, andiamocene a casa.”
Così se ne erano andati tutti, lui, le donne e le bambine, lasciando la padrona di casa, affranta, sulla sommità delle scale.
Nel tardo pomeriggio il comizio dei Comunisti era già iniziato, quando il prete era arrivato dal retro della chiesa e si era infilato frettolosamente nella porticina laterale che dava in sagrestia. Non li voleva proprio vedere quei sacrileghi senzaddio. O forse non voleva farsi vedere.
Dalla esigua folla, il massimo che il paese riusciva a esprimere, si levavano simultaneamente fischi e applausi, e alla fine tutto si era concluso tra urli, spintoni e maleparole.
Stava calando la sera e il fresco dell’imbrunire invitava a bighellonare.
Il candidato coi suoi scagnozzi si era rimesso in auto ed era ripartito. Piano piano le persone defluivano verso le loro case e nella piazza era rimasto un leggero brusio.
Allora, sotto la finestra della sagrestia, si era levato un grido che aveva raggelato il prete:
“Don Giovanni, vi è piaciuto l’aceto dei Comunisti?”





La poesia di Giulia Perroni, testo critico di Luciana Gravina


La poesia di Giulia Perroni

La scrittura poetica per sua natura enigmatica, polisemica, spesso misteriosa è in genere una sfida, ed è una sfida d’amore.
Il testo lancia i suoi segnali al lettore, lo intriga, lo avviluppa nella sua alchimia.
Lo seduce, direbbe Roland Barthes.
La poesia di Giulia Perroni lo fa egregiamente con un suo stile rarefatto e narrativo, straziato eppure in equilibrio sui lacerti, uno stile soprattutto libertario, di una libertà cercata e sperimentata in tutto il suo percorso e i cui ultimi segnali sono evidenti nel passaggio da Tre vulcani e la neve  a  La tribù dell’eclisse.
Nel penultimo libro residuano titoletti su lunghissimi brani, diciamoli, capitoli, segnati in un corsivo minimizzante, quasi timidi  che preludono alla fine di ogni distinzione o enunciato chiarificatore.
Scompariranno infatti nel successivo libro con un gesto totalmente liberatorio.
In entrambi l’assenza di punteggiatura (la distinzione tra le strofe o tra i versi è data dalla maiuscola a capoverso) segnala l’esigenza del testo di respirare senza filtri come un corpo che si libera degli abiti, dei gioielli e procede pudico nella sua nudità.
Si noti che La tribù dell’eclisse smette anche il vezzo di definirsi poema, che invece è presente in copertina per Tre vulcani e la neve.
Mi soffermo su questi due ultimi volumi che mi sembrano significativi di una consapevole maturità, non soltanto formale, ma anche del flusso esistenziale che ci raccontano.
Giulia Perroni, infatti, racconta storie: storie di sé, e di altri, ma senza debiti cronologici, intrecciando e confondendo.
E le narrazioni si rimandano vicendevolmente fatti appena accennati e emozioni tradotte in metafore, sinestesie, versi di varia misura, dal settenario, all’endecasillabo, al verso ipermetro.
Entrambi i volumi  hanno un tema, un lieve filo conduttore che sembrano enunciati dall’incipit:
“Io mi avvolgo nel canto perché l’anima sopravviva”, dove è riconosciuta la funzione salvifica della poesia che è una delle consapevolezze che fanno del poeta un poeta e non un versaiolo della domenica. E si procede dentro un lungo lieve racconto in cui figurano, come veloci apporti, guerre, ingiustizie sociali, poetesse, briganti, musicisti, tate, ville, carrozze, e tanto altro, elementi che veicolano un’attenzione esplicita al mondo esterno, alla storia e alla vicenda personale, presente il padre, sul cui anello figurano, a stemma, tre vulcani (appunto). Mi sembra la figura che chiude il cerchio. E poi c’è la madre, il maternale, il sacro utero, che si tiene in disparte.

In Tribù dell’eclisse la madre emerge all’inizio come protagonista, come sostegno alla poetessa che in questo volume si carica sulle spalle l’umanità, quella genia di uomini che, nonostante la millenaria e incessante produzione di senso con cui ha cercato di esorcizzare la paura, ancora è spaventata dall’eclisse.

In un lungo  brano la madre vi figura come una citazione intermittente a svelare una fatica incessante  della poetessa per decodificare il rapporto madre-figlia innanzitutto per sé, lo sforzo di parlarne con il lettore in una cogente ansia di pacificarsi con la figura materna.
Non mi sembra una caso che questo percorso poetico abbia il suo incipit nel nome di Biancaneve.
Nella fiaba Biancaneve è vittima della magia della matrigna cattiva. In realtà  i fratelli Grimm redassero alcune varianti della fiaba, in una delle quali, che è la prima stesura, è la madre che è gelosa della bambina e ne ordina l’uccisione. Poi mangia i polmoni e il fegato del cinghiale che il cacciatore le spaccia per quelli di Biancaneve, in un rito di orrendo cannibalismo.  Questo per dire che nelle fiabe originarie, non ancora assoggettate al bisogno di moralità che impone la funzione educativa della società civile, gli istinti primordiali di una umanità primitiva sono rappresentati per metafora in maniera inequivocabile. In questa ottica si colloca il rapporto madre-figlia che è amore viscerale e nello stesso tempo, gelosia e invidia. Per fortuna in una umanità evoluta la relazione generazionale in genere viene gestita con intelligenza, con empatia e, soprattutto con amore.

Giulia giunge come poeta matura a un tempo in cui tutti i conflitti, palesi, o mai  palesatisi, sembrano risolti.
Ora il rapporto con la madre è amore, ammirazione, devozione, solidarietà nel sentimento e nell’emozione. “Ti auguro il susino e la vernaccia // tutto il fuoco del corpo accompagnato // da mantiglie di luce // Eri bellissima nel fuoco tuo di fiamma” (v. 7-10, pag. 13), e più oltre “Vieni con me stanotte // odora il mare la cornice la foglia ogni cancello // e il mio dolore prendilo è sincero // come il ramo sul merlo //” (v.18-21, pag. 13). (Bellissima la sinestesia “mantiglie di luce”, il cui apporto euforico amplifica e sostiene il dettato passionale della strofa.)
 Ma c’è il senso di colpa “Ed io proterva ancora mi querelo…”, (v 12, pag. 14)   per avere pensato “… la mia mamma mi vuol male non vuole affatto// ch’io sia più felice  “vv. 9,10, pag. 14”. E così a lungo, fino a pag. 17, si snoda un dialogo in absentia  (della madre, ovviamente) che si conclude con una desolata affermazione “Sono sola”, (v. 25, pag. 17).
Alla fine la poetessa è sola a portare il peso di un racconto frantumato e essenziale di una umanità desolata, di una condizione permanente di solitudine (appunto). Ed è una condizione questa volta coraggiosamente portata in prima persona e l’uso congruo e ricorrente dei pronomi, personale e riflessivo di prima persona, io e mi, lo confermano, mi pare, ampiamente.

Le parole di questa poesia percorrono itinerari faticosi e tappe progressive, eppure sembrano che non avanzino. Questa poesia si ritrova sempre allo stesso punto perché il suo territorio non ha limiti, non ha un inizio né una fine. Le parole vi errano come stregate per intercettare il fine ultimo, l’essenza del tutto. In fondo la poesia, per essere, ha bisogno di perdersi: non sopporta definizioni né istituzionalizzazioni. La sua essenza consiste nell’erranza permanente. E questa poesia lo dimostra.
Sicuramente recerche di un tempo apparentemente perduto, rivisitato per flash come è consuetudine di questa poesia,  e utilizzato come tramite di indagine verso la profondità delle cose, verso le ragioni misteriose dei fatti, degli accadimenti. Solo per fare un esempio di struttura memoriale di cui sono disseminati questi libri
“E le cose che tornano fanno ala al mistero // sono taglierini ansiosi / del lago dove vivono i pesci”
Potremmo definirla poesia ametodica: vuole tutto nello stesso tempo.
La parola alogica della poesia non traccia percorsi, va come persa. La parola che definisce e penetra nella notte dell’inesprimibile. Non si rassegna al fatto che ogni essere sia soltanto ciò che appare. Persegue l’infinitezza di ogni cosa.

Comunque, e ciò che sto per dire, potrebbe sembrare una contraddizione con l’idea di libertà o di liberazione che ho sostenuto prima, ma non lo è: questo è un sistema di versificazione consapevole che mette in metrica misure tradizionali e che svelano la frequentazione dell’autrice con la poesia del passato e del nostro tempo contemporaneo. C’è il segnale di una riflessione sugli strumenti della poesia (versi normati come l’endecasillabo o il settenario, ma anche versi ipermetri, anticonvenzionali, ma ritmati senza deroghe o trasgressioni).
 Ne prendo uno a caso “Immagino quell’anima pesante che chiede a tutti un grido”, (Tre vulcani e la neve, pag. 81, v.10), dove a un endecasillabo si aggiunge un settenario, entrambi riconoscibili nel ritmo. Questa struttura lunga ci dice di un verso inquietante che ci scaraventa dentro un indeterminato non luogo e non spazio a indagare su “quell’anima pesante” , su un’entità eterea e forse informe proprio perché immateriale, per come siamo abituati a concepire l’anima e, soprattutto, che ci sfugge in virtù del deittico “quel” che ce la allontana ma ce la rende ad un tempo desiderabile. Perché quell’anima è pesante di fascino nel mistero del che cosa. Di che cosa è pesante quell’anima? Di sofferenza? Di delusione? Del peso della verità? Della consapevolezza di aver trovato l’essenza dell’essere? Non lo sappiamo.
La parola poetica ci asseta, ma non ci disseta.
E poi. Perché “chiede a tutti un grido”?
Bella domanda: provo a indovinare. Perché è stata indotta dalla parola poetica alla conoscenza dell’essenza ultima in un  processo che le ha svelato il dolore, il “male di vivere” (direbbe Montale), e davanti al male si può urlare, anzi si deve?
Ma è un ‘ipotesi, non lo sapremo mai.
La parola poetica pone problemi, può trascinarci nel mistero o renderci invasati, o spingerci in trance, ma non ci spiegherà mai nulla, come fa invece la parola filosofica, perché il mistero è inspiegabile, la sua radice è “mu”, come per “mistico”, da collegare al verbo greco myein chiudere, serrare”. Noi poveri scrittori e lettori di poesia, imbarcati sulla parola poetica gli possiamo navigare intorno, al mistero, fargli il periplo, ma forse nessun poeta riuscirà a “parlarlo”.

Un elemento stilistico interessante in questa poesia è la ripetizione delle parole (Tuppete qua, tuppete la, trallalero trallallà (La tribù dell’eclisse, versi ricorrenti, pagg. 44 e 45).
La parola ricorrente è una pratica di magia, è richiamo energetico dall’armonia dell’universo.
 La poesia si solleva dalla magia e dalla religione, (e non alludo ad alcun credo codificato)  ma con esse mantiene legami permanenti. Giulia Perroni cita Dio e Maria, ma la sua è una teologia personale svincolata da ogni cogenza dogmatica..

Mi sembra, e concludo, che con questa tessitura della parola poetica
l’autrice ci induca alla conoscenza aurorale di qualcosa che esige di
essere nuovamente guardato e ci inviti al risveglio di una consapevolezza
che la ragione non può conseguire.
 Luciana Gravina