E' il ricordo di un evento importante svoltosi presso la
Biblioteca Vallicelliana di Roma.
La cartella di acqueforti del maestro Vanni Rinaldi su testi di Luciana Gravina ebbe una tiratura di 35 esemplari. Dunque è un'opera rara di cui una copia è stata donata dall'artista al Castello Baronale Palamolla di Torraca (SA), dove è esposta in una sala importante adibita a pinacoteca.
Gravina-Rinaldi: doppia immersione in una
città inaccessibile
di Mario Lunetta
Affrontare un tema come Roma con gli
strumenti dell’arte e della poesia è, non da oggi soltanto, terribilmente
scivoloso.
In primis, occorre dribblare la
tentazione di un ennesimo hommage a
quella che malgrado tutto (crescita disordinata, malgoverno, trascurataggine
amministrativa, incultura e avidità di conquista di rendita di posizioni da
parte di troppi responsabili, casualità incosciente delle soluzioni, deficienza
dei piani regolatori, cattiva conservazione dei beni culturali, ecc.) resta
ancora, la città più bella del mondo.
Secondariamente,
e in parallelo, adottare un’ottica di scrittura e di sguardo capace di
controllare quanto più possibile il tasso di seduzione che ne emana. Quindi, una soluzione di sospetto-abbandono,
di resa ostile.
Roma è superflua, nella post-modernità
superficiale e iperveloce votata al puro consumismo nella quale viviamo. Lo è
perché la sua natura scenografica si apre continuamente in termini di stupore
teatrale, non in termini di funzionale attualità urbanistica. Quando nel 1896
Emile Zola pubblicò Rome, il suo
romanzo dedicato alla capitale d’Italia, dichiarò che Roma non sarebbe mai
stata una città moderna e attende ancora, in gran parte, di essere smentito.
Un artista, un poeta che intendano
misurarsi responsabilmente con questa realtà irreale, col suo caos odierno e le
sue memorie iconico architettoniche che la permeano come un immenso abito di
scena di impressionante mutevolezza, debbono avere il coraggio, come dire, la
coscienza critica di compiere un’operazione di oblio ragionato nei confronti di
una stratificazione di bellezza ormai mineraria. Un atteggiamento di sacrosanto
cinismo, si direbbe. Solo così è possibile sottrarsi alla banale retorica dell’ossequio nei confronti di un fantasma
consumatissimo e insieme inconsumabile come Roma.
È appunto questa la scelta che, con la
grande consapevolezza, hanno fatto un poeta come Luciana Gravina e un’artista
come Vanni Rinaldi, implicando in modi trasversali le due condizioni a
contrasto: la classica Alma Mater e
la pasoliniana Mamma Roma; quest’ ultima, non divinità vaporosa ma donna
battuta dei primi anni 60 nel secolo scorso.
Sicuramente,
a dare legittimità di accostamento e di alleanza al poemetto di Luciana Gravina in cinque brevi sezioni (Sinfonia
per orme e uccelli) con le
cinque acqueforti- acquetinte a colori
di Vanni Rinaldi (Orme e uccelli; Sacro e profano; Cartoline; Alma mater; La soglia degli
eventi) è, ben più che la comune tematica del gran teatro capitolino, una
stessa inclinazione sperimentale, che sul piano linguistico attraversa con
moderata tensione post-espressionista la maestà del patrimonio storico della
Città Eterna scottandolo con le contraddittorie pulsioni dell’oggi piccolo
borghese e sottoproletario.
Così, il testo di Gravina si sviluppa a
suo modo come un arazzo slabbrato, in cui fili e intrecci preziosi si annodano
a sgorbiature e rammendi di materiali bassi. Il tono è efficacemente rosso, e
in qualche misura rissoso. Ciò che più profondamente innerva questa diversificazione
ipermetra è la cancellazione di quel principio di pura contemplatività, che rende così arcaica (e
arcadica) tanta scrittura in versi dei nostri anni. Luciana guarda, sì, ma
interviene su un sistema in dissesto, tra Grandi Ombre e Cartoline, aura ormai
da tempo dissipata e odierno degrado: e la lingua si snoda, al pari di un
organismo animale tra fantasmagorie oniriche e impellenze di realtà volgare, se
non sconcia, con sorde sonorità e squilli improvvisi. Una drammaticità diffusa e una lieve nausea
mescolate, che di colpo, nella sezione III, si sghiribizzano in due strofette
di ottonari piene di grazia dispettosa, quasi a alleggerire la tonalità grave e
acuta di un discorso che si conclude fortemente con un’assunzione di
responsabilità: “ Ora / sulla soglia degli eventi, egw
d’isthmi. IO
STO”.
Le acqueforti di Vanni Rinaldi
rispondono con autonoma energia alle sollecitazioni del poemetto,
avventurandosi con la bussola di un istinto visionario ben temperato negli anni
e nell’esperienza dentro i territori di una realtà disgregata, inafferrabile,
magari indicibile. Vanni non cede alle tentazioni del racconto, che di fronte a
un tema sovrano possono facilmente scivolare nell’illustrativo; ma punta
piuttosto a una sintesi che definirei senz’altro allegorica.
Gli elementi dispersi di una vicenda
millenaria ridotta a pochi frammenti significanti sembrano galleggiare in un
fluido che ospita nel suo fascino ambiguo memorie e sensualità, impennate e
cadute, slanci e costrizioni: sempre con una consapevolezza di alto artigianato
e di estremo rigore nel suo arbitrio stilistico, capace di coniugare
brillantemente libertà dell’invenzione cromatica e sintassi delle geometrie.
Rinaldi è un artista che non si è mai
chiuso in una maniera, ma ha
instancabilmente elaborato suo modus
espressivo fondato sulla fermezza iconica e l’azzardo contaminatorio. Anche in
questa impresa a stretto contatto con un testo poetico non si smentisce – e del
resto numerosi e proficui si succedono a partire dagli anni Settanta, i suoi
interventi di pittore e di grafico a ridosso di testualità letterarie (non
ultima, e direi particolarmente cospicua, la serie recente di 100 tavole
dedicate alla Commedia dantesca):
delirio iconico infuso con metodo nella scansione cromatica dominante cui
obbedisce ciascuna tavola (dal verdino al testa di moro, dall’azzurro al
ruggine, con la non casuale presenza del nero in funzione di sottolineatura
perentoria di qualche oscuro allarme): questo, direi, è il carattere che fa di
questo intervento in cinque tempi un’interrogazione plurale che contiene già in
sé la propria risposta.
Mario Lunetta
Accademia Platonica, febbraio 2011.