lunedì 26 ottobre 2020

Ciondolo in plexiglas e friendly plastique


 Ciondolo in plexiglass bordeau con elementi in friendly plastique e rame Cordoncino bordeau con capicorda in metallo forgiato.

domenica 6 settembre 2020

"Abstract" la mia nuova linea di gioielli.

 



Abstract 

La mia nuova linea di gioielli si ispira all'arte astratta, propone la forma delle idee. 
È realizzata con un materiale moderno, il plexiglass, abbinato a metalli antichi come il rame, il bronzo, l'ottone. 
Leggeri e facili da indossare. 
Una commistione che contiene il tempo ed evoca la nostra cultura.

Quando lavoro a queste forme, penso a una donna colta, moderna, audace, sicura di sé, disincantata.


Ciondolo e orecchini di plexiglass in elegante colore bordeaux con forme astratte in rame e bronzo similoro.
Cm. 5x5




Ciondolo rotondo in plexiglass nero con forme astratte in rame, bronzo similoro e ottone. Catena fatta a mano con cordone di caucciù e maglie in wire bronzo similoro.
Diametro cm. 5












martedì 1 settembre 2020

Un mio intervento: Ai tempi del Coronavirus - Donne e uomini nel post Covid19, pubblicato su Malabò e Milleitalie

 

Ai tempi del Coronavirus - Donne e uomini nel post Covid19

30/04/2020

Ho vissuto la rivoluzione femminista da lontano, nel senso che non ero in condizione di partecipare ai cortei, di portare striscioni e cartelloni, di invadere le chiese, di partecipare ai collettivi dove le donne, tutte insieme, mettevano a fuoco i loro problemi, non esclusi quelli psicologici. E tutte insieme cercavano di spianare gli inevitabili dubbi e di sentirsi forti, di lottare tutte insieme contro i sensi di colpa. 

Non ci pensavo proprio a gridare il mio corpo è mio, il mio utero è mio, eppure  i miei piccoli gesti quotidiani, l’organizzazione della mia vita, la mia lotta silenziosa, solitaria,  piena di dubbi e sensi di colpa, mi mettevano continuamente in condizione di essere criticata, anzi redarguita, emarginata, socialmente punita, a volte massacrata da giudizi velenosi.

Vivevo al sud, in un sud che più a sud non si può, e non per ragioni di latitudine e di longitudine. Era una questione di testa, di mentalità maschilista, di talebani nostrani. Dove un’intellettuale è una p… per statuto, la donna è spiaccicata sulla funzione di “vestaglia” del focolare domestico e, se va a lavorare, ad esempio a insegnare, va solo per portare uno stipendio a casa e non si deve permettere di avere ambizioni di carriera.

Io la mia guerra l’ho fatta, pagando un prezzo altissimo, ma i miei risultati non li ho mai considerati vittorie di Pirro, anche se ogni volta ci perdevo tutti gli elefanti.

Ho messo in campo questo sussulto del mio io trofico, non per una inutile revanche personale.

Volevo dire alle donne giovani che io, e le altre donne mie coeve, abbiamo consegnato loro una condizione di leggerezza morale e sociale che neanche sospettano “di che lacrime grondi e di che sangue”. E che loro non ne abbiano alcuna consapevolezza è evidente ora più che mai, ora che le costrizioni della quasi post pandemia ci mettono davanti a contraddizioni non nuove, ma che giacevano al fondo della coscienza, bene ovattate da uno stile di vita più o meno comodo, più o meno consumistico, più o meno gratificante, più o meno felice.

Ora nelle disposizioni dei pdcm post covid emerge, e anche senza chiasso, con una parvenza di estrema naturalezza, il maschilismo di sempre, ma anche un po’ di ritorno, della nostra società interpretata da questi politici che ci ritroviamo e che il grande popolo italiano manda a governarci.

E così le donne giovani si stanno svegliando dal sonno di Biancaneve e cominciano ad alzare il tiro. Alludo, ad esempio, alla Lettera della mamme alla Ministra dell’Istruzione per la mancata apertura delle scuole. Insieme a questa lettera è proliferata una serie di altre proteste in forma epistolare rivolte alla suddetta Ministra.

La caratteristica di questi documenti è che sono, tranne alcuni casi, a firma e a nome delle mamme. E va bene che siamo nell’Italia mammona e mammista, ma il problema dei figli non è solo delle donne, a meno che non si tratta di maternità single.

Insomma gli uomini, che dovrebbero metterci la faccia e la firma, non ci sono, anche se in alcuni documenti la firma c’è, ma non mi sembra una situazione paritaria.

Capisco le mamme, sulle quali, tranne in alcuni casi di buono equilibrio di coppia, si riverseranno tutti i problemi della custodia e assistenza dei figli minori a casa per la mancata riapertura delle scuole. Saranno le donne a continuare lo smart world, con tutte le difficoltà del caso, per non parlare di quante donne, non potendo riprendere il loro lavoro precario, perderanno il lavoro, appunto.

Non mi sembra che ci sia un convinto sostegno della società maschile a quella femminile, se non una solidarietà, più pietosa e formale, che sostanziale.

È che l’atteggiamento delle donne appare fragile, come se i propri bisogni di persone non fossero diritti e allora ci si nasconde dietro i diritti dei bambini alla vita sociale, al gioco, all’esperienza di gruppo, e non si ha il coraggio di mettere in cima all’elenco un’altra legittima richiesta: quella di poter affidare alla scuola i propri figli, per consentire loro di andare a lavorare.

La scuola, tra le altre sue funzioni, deve anche custodire e accudire i minori e non perché è adibita a parcheggio, ma perché  questo compito rientra nel progetto più ampio di società educante di cui essa scuola è sinergia specifica e integrante. Nel senso che contribuisce ad un equilibrio sociale, con la famiglia e non contro la famiglia.

Ma la famiglia è costituita anche dai padri, quando ci sono, e non c’è bisogno di essere padri, per poter sostenere i diritti delle donne: basta vederli questi diritti, accettarli, sostenerli. O farglieli vedere, accettare, sostenere.

Tuttavia ciò non può accadere, se  si lavora in comparti stagno: le donne da una parte e gli uomini dall’altra. E questa è una pratica frequente, diffusa e considerata naturale, ma credo che il femminismo delle guerre, dei conflitti, degli odi, delle offese dovrebbe essere finita da tempo.

Abbiamo un Ministero delle Pari Opportunità, la cui Ministra, Elena Bonetti, ha organizzato una task force rosa, per un Nuovo Rinascimento delle donne, importando in questo organismo, dodici donne di altissimo e assoluto prestigio per un rinnovato protagonismo delle donne in tutti i settori.

Ora, a parte il titolo, Rinascimento, banale, usato e abusato, il meccanismo separatista e l’intenzione di scavare spazi di potere a discapito degli uomini è vecchio e perdente.

Primo, mette in allarme il mondo maschile che si attrezza sulla difesa.

Secondo, non vedo il rispetto delle pari opportunità, semmai è stato sottratto agli uomini il 50% di opportunità di occuparsi dei problemi delle donne.

Terzo, le donne della task force sono donne eccezionali, di potere (chapeau), che sanno scavare il potere, ma le donne che hanno bisogno di pari opportunità sono quelle che tutti i giorni vanno al lavoro per uno stipendio minimo, le mamme, le donne di cura, le insegnanti, le infermiere, le colf, le badanti. Hanno bisogno di attenzioni serie, non di codicilli.

Quarto, poi ben vengano le donne di potere.

Quinto, anche gli uomini hanno le loro task force tutte al maschile, o con un numero molto esiguo di donne, ma le donne non possono adottare i meccanismi degli uomini, non possono usare il proprio comportamento come reazione a quello degli uomini. Hanno l’obbligo di essere diverse, di pensare in modo autonomo, di chiedere, ma anche dare, pari opportunità. E questo non può accadere senza una forte consapevolezza e una sicura capacità di autodeterminazione.

Propendo, dunque, per una politica dell’inclusione al contrario: degli uomini chiamati a  occuparsi dei problemi delle donne e insieme alle donne, attivando un processo di sensibilizzazione, di amicizia e di solidarietà onesta.

Non so se è una novità, ma mi sembra un urgenza. E questo è il tempo giusto, il tempo in cui si sente da ogni parte il Niente sarà come prima.

Niente è mai come prima, come un secondo prima, come una vita prima, come il secolo prima: lo è per statuto filosofico ed esistenziale. Si evolve. Dunque, niente di nuovo. Eppure. Stando alla fisica quantistica (ne faccio una interpretazione da mercato, ma tant’è), tutti i tempi sono in compresenza, in forma e misura di Quanti, anzi i tempi non esistono, sono una nostra convenzione per decodificare la produzione di senso dell’umanità, altrimenti impazziremmo. Quindi noi oggi ci troveremmo di fronte a un Quanto che appartiene alla nostra vita e che possiamo costruire, se riusciamo a capire come fare, e utilizzando anche la lezione che deriva dalla vicenda del Covid19.

Magari è un’ Utopia, ma forse vale la pena provarci.


Intervento di Antonio Lotierzo su Percorsi poetici e pretesti critici

 LUCIANA GRAVINA: sperimentazioni dell’io-sé

L’antologia poetica di Onereed, con venticinque brani critici

                                                                                        di Antonio Lotierzo

 

Montalbano- Pisticci, dopo Buonabitacolo-Torraca, Roma, con periodi a Parigi: ecco le principali tappe della biografia di Luciana Gravina che è poetessa ( o ‘poeta sperimentale’, per Dante  Maffia) e  si lascia presentare da Francesco D’Episcopo e Giorgio Linguaglossa in questo variegato, denso ed elegante volume: Percorsi poetici e pretesti critici ( 1979- 2019), Onereed ed., Milano,pp.235,18 e…      D’Episcopo parla di una  ’vocazione autentica e assoluta’ che l’ha portata ad uno ‘sperimentalismo avido e ardente’ che può rinviare fino ad un assurdo iperreale (alla Beckett) unito ad un ‘creativismo semiologico’, produttivo di neologismi e parole inventate ( ma non metasemantiche).     Una poesia che va letta a voce alta, col sottofondo dell’adagio in sol minore di Albinoni o con i violini e piano di Mozart conc.n.21 o, ancora, con brani del Parsifal di  Wagner, provate. Nella prima fase poetica (inclusa sul carro ‘femminista’ di R. M. Fusco del 1980) ecco un racconto di paese : “Passeggiata nel corso, andata e ritorno/ più volte; senza biglietto, signori, si guarda./ Dall’arco alla fontana dove la piccola Venere/ snida la pietà delle monete false./ Racconto di paese dove non soffia il vento/ e la vita si vuole perfetta come la morte./ Fino all’arco sotto l’orologio,/ passi consueti sul porfido/ fin dove annega l’azzurro fumo della notte,/ dove i nostri destini allineati / hanno la durata di un grido,/ vi cerco ogni sera l’astuta follia dei lampioni/ e nell’oro falso mi fingo un timone.”(A folle uno, XX).   Poi questa ‘ formalizzazione del magmatico esistenziale’ (Donato Valli, che vi rileva un’ascendenza simbolista) cambia ancora a partire dai frequenti endecasillabi de ‘La polena’ (del 1984), ’ simbolo dell’avventura umana’  e ‘metafora del silenzio’, per assumere una posizione ‘mediana’ fra Sanguineti e una classicità postmoderna (Gennaro Mercogliano), racconto d’un’apolide il cui bipolarismo oscilla fra i due campi della natura-realtà e dei segni-simboli.     Più decisa poematicità si registrò con ‘M’attondo il giorno’ (del 2004, con grafica di Vanni Rinaldi e testi musicati dal M° Vincenzo  Borgia), dove la versificazione ipermetra espone, nella ‘deformezza della norma’ un’inclinazione filosofica “io sdoppiata e a raddoppio, speculare di me, testimoniale del tu/ (altra me) a cui tendendo…”, con cui tenta di ‘spraticare la norma’, di evidenziare il groviglio del mondo e di tentare il ‘controllo del piccolo caos quotidiano”(Mario Lunetta). L’acqua, lo specchio, la spirale, la rotondità sono immagini con cui razionalizzare il quotidiano, fino a ‘Rosso cavallo’ nel cui vigore linguistico si registra il declino dei valori e delle certezze ( siamo immersi nel paesaggio post-ideologico e nella desertificazione dell’umanesimo, ricostruisce Martina Peloso). “rossi che ti assomigliano se anche il mondo dorme rosso/ a un’ombra di carne. Cosicché rosso mi porti un vascello/ roco di vibrazioni solenni. Cosicché rosso. E lo zoccolo/ batte, rojo batte all’antico fiore, red(i)vivo/ ad ogni piccola morte, ad ogni viaggio. Rosso.”.        Ancora diversa forma mostra l’originale poemetto ‘Del senso e del sé’ (2006), dedicato alla ‘Dama con il liocorno’ (arazzi parigini del museo medievale di Cluny) (musicato dal M° Mauro Porro), dove s’illustrano i cinque sensi e si chiude con il libero arbitrio; la constatazione di una “vita mbruscinata nel mare insonne” con un “ questo nostos pendolare tra Torraca e Parigi”.      Qui Gravina legittima la spiritualità del corpo, perché il corpo che sente non è disgiunto dallo spirito e, quindi, la persona, uomo o donna che ‘sente’, afferma la sua consapevole esistenza nell’armonia dell’universo…condizione mistica”.    Sembra un riporto da J. Bohme  ed invece è spia del percorso  della Gravina che si è avvicinata alla filosofia della Crescita personale e muta ancora le sue forme poetiche, si serve d’un panismo unitario, figurato nella spirale, che è pure la forma d’un suo gioiello, e la direzione va verso un ‘infinito presente’, che è un augurio per noi tutti, il raggiungimento del chakra, della ruota, forse anche arcolaio induista, sui cui punti si registra l’incontro fra il sé e il mondo, con equilibrio e pacificazione fluida (Rino Malinconico) e infatti ascoltiamola: “ Rimediarla la vita, jamais, ma di / riappropriazione dico, perché quisqueciascuno è / fabbro  e averla fra le mani… / annegare i deliri, sfrangere le paure del poi, risistemare il / prima, a luce di fresca nascita di un infinito presente “. Ricompattare il caos, ecco il progetto, anche attraverso una poesia di corpo e di pensiero, in maniera da ripristinare la vitalità ed ottenere l’equilibrio della persona ( Anna Maria Vanalesti, 2012). Questa teleologia di vita continua ad esprimersi in una forma mistilinguistica, con l’ottativo del desiderio e l’oltranza (Claudia Pagan: “ potessi spalmare / questo tremore illuminato (…) mi piacerebbe cambiare / strada prossima allo sbaglio (…) corcare / l’attimo afferrato benché fuggente e vivìrlo di fresco questo/ smottamento del cosidetto amore…”.          Infine, il poemetto (della bambina con) “Il fiocco in testa” inedito, impreziosisce questo stratificato volume in cui lo sguardo disnuda il bianco silenzio, il mutismo della condizione femminile nelle società patriarcali, l’incomunicabilità delle emozioni: “Cantavo sottovento in fuga. Il / fiocco in testa non si conosceva deciduo. I muli squassavano/ le sonagliere. Disegnavano la…..biografia della piazza”. Rinvio il lettore ai puntuali commenti di Valentina Nesi e  Filomena Anna D’Alessandro.   Nella postfazione, Linguaglossa inserisce l’intero e diversificato percorso poetico della Gravina nelle linee italiane, dal predominio finale  della neoavanguardia alla crisi degli anni Novanta, quando la post-ideologia rivela il declino dei valori e dei codici della tradizione umanistica e qui la Gravina declina una “dizione sperimentale che recepisce la crisi dell’io e la crisi della forma-poesia ricevuta…”.     Gravina è dentro il tema della crisi della forma-poesia; evita le poetiche del ripiegamento; devia dal minimalismo del quotidiano; divaga da impegni sociali di una scrittura di protesta e  tenta il sentiero della dismetria, a volte ironica, affondando il periscopio nella materia stilistica, fusa con una ‘poesia corporale’ distillata fra pressione esistenziale e sorgività del canto, che tritura memoria e angoscia.         In tale maniera la ‘krisis’ è entrata all’interno della parola poetica, che allestisce una propria scenografia linguistica, in cui si recita la scissione fra il nome e la cosa, fra il soggetto e il linguaggio, in maniera drammatica e forse irrisolvibile, almeno per la nostra generazione.

 

Intervento di Marcello Carlino su Percorsi poetici e pretesti critici

  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Una campagna di scavi: la poesia di Luciana Gravina

                                                                                   di Marcello Carlino

 

 

Come suggerisce il titolo, Percorsi poetici e pretesti critici 1979-2019, per la cura di F. D’Episcopo e G. Linguaglossa, documenta pressoché integralmente – benché vi si sia proceduto a necessari tagli antologici – l’opera in versi di Luciana Gravina, corredandola con alcuni tra gli scritti introduttivi, di analisi e di commento che ad essa sono stati dedicati. È così a disposizione del lettore uno strumento agile ed efficace per accostare o approfondire la poetica dell’autore e per apprezzare la coerenza e il rigore di un itinerario poetico che, dalla specola di questo libro largamente panoramico, si conferma di sicuro rilievo.

Un suo tratto distintivo – quel che è stato opportunamente considerato – coincide con una istanza di sperimentazione, che non viene mai meno né ha cedimenti e che tuttavia non appare confinata in un laboratorio di prove e di esercitazioni condotte secondo astratti protocolli, in una dimensione di impermeabile autoreferenzialità. La ricerca applicata al linguaggio, alla retorica e alla struttura del testo è toccata, cointeressata, investita dal vissuto, che bussa insistentemente alle porte chiedendo rappresentazione, che impronta di sé figurazioni e atmosfere, che raggruma e riversa nella scrittura una consistenza e una densità di componenti in amalgama, le quali si ravvisano come una costante. E ciò pure per chiamate attanziali simultanee e affoltanti o per concorsi di dispositivi di figurazione che hanno una forte gradazione metaforica e accostano, facendoli tangenti e talora cosecanti, quadri individuali e quadri collettivi, piani sequenze e riprese in soggettiva: e insieme promuovono dinamiche associative partecipi e materiate della multianime dimensione della vita.

Nella esposizione al conglomerato esperienziale ad angolo giro e alla polisensorialità del trovarsi e del sapersi gettati dentro il labirinto dell’esistenza, e nella intersemioticità a cui finisce per chiedere udienza la sollecitazione sperimentale della forma dell’espressione, rientra di diritto un’apertura, per abboccamenti e incontri possibili, al discorso della filosofia e della conoscenza e al linguaggio variegato delle arti. La poesia di Luciana Gravina ha un ordito dialogico, che si rinviene e a mano a mano aggetta come un suo segno particolare, dalle spiccate connotazioni semantiche.

M’attondo il giorno (2003, poi 2004) è innervato di musica: sia perché – come nelle altre plaquettes – una performatività sonora asseconda i versi e ne nutre la materia del significante, sia perché nella raccolta la partizione è quella di una sonata con i suoi tempi e con i suoi toni. E mentre s’avvistano punte di perspicuità visiva, così come preziosità sedimentate in oggetti-sculture, cesellati e incastonati in solitaria, che attraggono e concentrano nel flusso di alcuni versi lo sciame figurale, Del senso e del sé (2006) è un trattenimento potenzialmente infinito con La Dame à la licorne, capolavoro cinquecentesco che risulta dall’insieme di cinque arazzi visti e riscritti, nella libertà di un rifacimento o di un libero arrangiamento, facendo leva sopra l’espandibilità di senso, apparato per apparato, del nostro quintuplice strumentario sensoriale. Altrove il testo, Sinfonia per orme e uccelli, è un ponte di raccordo, e il pretesto, per un testo ulteriore, ovvero per il concerto di un trio composto da poesia, musica e pittura; e le cromie, con dominanza del rosso – colore che ha suggerito assonanze con alcuni movimenti della scrittura di Elio Pagliarani –, vibrano di sonorità in Per la pace vibrata in cinque colori, che sta col suo titolo esplicitamente indiziario in M’attondo il giorno.

Ma musica e arte visiva adempiono in contemporanea ad un altro mandato: all’incontro di schiusa sinestetica si aggiunge, infatti, la postulazione necessitante della definizione e della costruzione di una forma, di cui il dialogo interlinguistico e intersemiotico diviene promotore e referente. E dunque, in un sistema dialogico siffatto, la materia poetica si ordina come in sequenze, che hanno una loro compiutezza e che pure non sono di freno ad una successività del discorso, funzionando come le stazioni di un poema potenziale. Sicché la sperimentazione, che porta con sé la concretezza molteplice e disordinata del vissuto, cerca una sua organizzazione in comparti, in quadri che indicano un desiderio di compattazione e di coerenza, una volontà di contenimento, un’esigenza di asciuttezza e di rigore; la cerca per dare forma e conferire dicibilità al tumulto delle emozioni, allo sventagliamento delle esperienze svariate del sapere, al caos del trovarsi gettati nell’intrico del vivere.

Ad una medesima intenzione di rinvenimento di una possibilità ordinatrice risale l’interlocuzione filosofica del testo. Tanto Del senso e del sé quanto L’infinito presente (2011) esplorano, in funzione di un cammino conoscitivo che abbia proiezioni esperienziali e valga per fini di auto-inveramento, le dinamiche della percezione e quelle della riflessione, nella chiave di una transazione mai dismettibile di soggetto e oggetto; e la filosofia è pure in tiro, nelle raccolte di Luciana Gravina che la trascrivono in forme del contenuto, con una sua profferta come metodica che intesta alle singole parti della composizione stadi e modalità di conoscenza.

Quanto appena mappato e l’arco cronologico nel quale hanno posto le opere finora chiamate all’appello depongono a favore della ricerca serrata di significati forti (senza i condizionamenti di pensieri deboli pensati dalla letteratura) e di qualità letterarie che ne siano vettori, nonché a favore della resistenza alle facili e stereotipate liricherie, con l’io protagonista assoluto, di cui è ricco il panorama della poesia italiana, quello dell’oggi e quello di un passato prossimo. La scelta di posizione di Luciana Gravina, alla luce di queste considerazioni, a maggior ragione appare discosta, in controtendenza, perciò da riferire, in linea con quello dei pochi poeti di più spiccato interesse, ad un impegno letterario e culturale che interdice qualunque gregarietà, o marginalità, o rassegnata diminutio ideologica e funzionale della scrittura poetica.

Ma lungo tutto il corso delle sue opere le seduzioni del postmoderno sono scansate e un’eredità delle avanguardie di seconda generazione viene raccolta, sebbene essa sia reinvestita in una sperimentazione del linguaggio che non cede a oltranzismi di sorta e tiene ferma comunque, nel testo, la necessità di una dicibilità e l’orientamento alla comunicabilità. A cominciare già dalla Polena (1984), una delle prime raccolte.

Qui si offrono squarci paesistici, colori, climi, atmosfere, ricordi, premesse e promesse di eventi, agganci analogici per i quali si è detto, e opportunamente, di mediterraneità e si è evocato, ancora opportunamente, lo spazio autoriale aperto ai luoghi e ai tempi della memoria; sennonché comprendere a pieno il disegno semantico sotteso alla tessitura della Polena è possibile soltanto quando si presti l’attenzione dovuta ad una clausola di Intermezzo, una sua sezione che ha un nome evidentemente musicale. Vi è detto: «So anche che non esisti / sono io / Euridice e/o Orfeo / creatura demente nutrita di me. / Euridiceorfèo, io». L’introiezione del mitico cantore, simbolo della poesia, e il sinolo che si stringe nel momento stesso in cui Euridice lo assume in sé come riaccostando le due metà separate di Ermafrodito, suggeriscono senza ombra di dubbi una riappropriazione intera (senza modalità di genere eterodirette) della scrittura in versi e suppongono una assunzione di responsabilità, nel segno del femminismo, che staglia e qualifica la poetica dell’io che dice (e il femminismo, sia pure in un’accezione che sarebbe stata specificata nell’Appendice improbabile in limine al libro riassuntivo di cui stiamo trattando, riemerge spesso, almeno per evenienze indiziarie, lungo tutta la sequenza delle plaquettes negli anni pubblicate). La ricomposizione, tanto più perché è specchiata nella logica altra della follia, ovvero nelle simmetrie apparentemente alogiche del sogno e della poesia, innesca inoltre un effetto ulteriore, che poi si espande, con inizio dalla Polena, a caratterizzare semanticamente la scrittura. Come Euridice Orfeo, l’io infatti si trova il tu, ovvero l’altro da sé, talmente vicino, da non essere più distinguibile dall’io; e questa compenetrazione fa sì che tutto si accosti a tutto, soggetto a oggetto, percipiente a percepito in una collosità che la logica simmetrica propria della poesia incrementa. Atmosfere, climi, ricordi, paesaggi, stagioni, soli e notti mediterranei scorrono così, tra sdoppiamenti e raddoppiamenti, sull’impulso di uno stile ispirato al contatto, in una giunzione e in un rimescolamento di carte e di cose e di visure (in qualcosa di analogo al flusso di coscienza), che procurano bruschi passaggi, e generano cortocircuiti, e sprigionano le energie di una retorica che deborda accendendosi di metafore. E l’io, per troppa espansione e per l’infittirsi del contatto che lo intasa e lo travolge, esplode. Nella Polena antiliricamente l’io cede, arretra e di fatto perde il suo dominio.

Le premesse e le promesse sono pronunciate dalla collosità ad alto peso specifico di una scrittura che completa la sua uscita dal genere della poesia lirica; e queste premesse hanno una loro esecuzione e queste promesse sono mantenute allorché la trama del linguaggio, con interventi in primo luogo sul lessico e poi sulla disposizione sintattica, viene sfibrata, slabbrata, sfilata. Il prefisso della sibilante che comporta l’inversione del significato della base lemmatica, ed ha valore di negazione, è spesso adoperato da Luciana Gravina per forme verbali e sostantivali anche ben al di là degli usi normati, talora con evidenti risultanze neologistiche: s-radica, s-larga sono verbi (normati, certamente) che possono compendiare le scalfitture, gli scavi e con essi la prassi di negazione del consueto e del convenuto in vista di un reinvestimento sperimentale, in questi Percorsi poetici, per una nuova produttività di senso. Per certo è dato il via ad un trattamento che, nel rispetto di una partitura del testo delegata a mansioni di ordinamento, sommuove la lingua, la dissoda, induce nella sua densità crolli carsici, pertugia qua e là inghiottitoi. E allarga la scissura tra segno e cosa, tra significante e significato dove si impianta la ricerca del testo tra senso e silenzio e riparte l’avventura della poesia verso altri più ricchi territori di esperienza e di conoscenza: «Ancora metto a solco parole tra la cosa e il pensiero. Il suo di pensiero, dico, della cosa quando la parola avviene nel grido stretto della fronte e il cerchio è un oscuro riferimento e il nulla è così nudo da prenderlo per mano e la voce anche solo pensato lo stana. Ancora il broncio dell’enigma dileggia e deride se l’incompiuto si attarda nella fessura stretta dove la parola si difende inconsapevole. Ancora. Lo spostamento libera il senso investiga testardo proprio lì dove muto, mu, il buio si finge nulla e si ritrae. Ancora passiona di sé la parola e accartoccia la pagina straniata e altrove la intelaia d’incontenibile effrazione».       

    

giovedì 6 febbraio 2020

LUCIANA GRAVINA Percorsi poetici e pretesti critici

Storie di libri

E' uscito da poco il mio libro "Francesco D'Episcopo e Giorgio Linguaglossa (a cura di), Luciana Gravina, Percorsi poetici e pretesti critici,"  Onereed Edizioni, Milano, 2019. 
Una ricognizione su tutta la mia produzione poetica dal 1979 a oggi. 
Una indagine critica della mia ricerca con antologia dei testi e  testimonianze di critici, intellettuali, accademici che si sono occupati del mio percorso poetico.