venerdì 12 ottobre 2012

Cetta Petrollo, Ve la racconto così, 2012

Salve,
vi posto anche la presentazione che ho fatto presso Alef di questo delizioso volume di narrativa di Cetta Petrollo.



Con questo nuovo lavoro Cetta Petrollo continua a proporre la qualità di una ricerca narratoriale che è esistenziale e linguistica e che parte da lontano. Comincia infatti già  in quel Senza permesso di soggiorno che inaugurava coraggiosamente uno strano linguaggio, quello della badante extracomunitaria, linguaggio riproposto poi in Salto della corda, attraverso il recupero di un’epoca della propria esistenza.
 Mi sembrava che l’orizzonte di senso del percorso memoriale messo in essere da quella scrittura consistesse in una progressiva autointerpretazione e autodefinizione esistenziale.
Nel senso che, la ricerca, esperita attraverso la formatività della parola che mette in codice la memoria, mirasse non tanto a consegnare l’esperienza al lettore, trovandoci in realtà davanti a un lettore più in fabula che in causa, quanto ad appropriarsi della esperienza in questione in virtù della specularità realtà/letteratura.
A partire dal titolo Il salto della corda,  portatore, come buona parte dei titoli, di enigma, che si chiarisce  progressivamente nello sviluppo del testo.
In questo nuovo lavoro mi pare che l’impianto retorico abbia un balzo, una chiara apertura intenzionale, sia per quanto riguarda il genere, sia per quanto riguarda l’interlocutore/lettore. Già nel titolo.
Te racconto così enuncia un tu nel quale il lettore si sente immediatamente coinvolto, anche se poi vedremo che questo tu è rivolto ad altro o anche ad altro.  Significa che il processo di seduzione del lettore da parte del testo comincia con una stoccata di faccia, e poi “chi ha coraggio mi segua”.
(Quando parlo di seduzione del testo alludo alla definizione che ne ha dato Roland Barthes “Le texte que vous ècrivez doit me donner la peuvre qu’il me desire. Cette peuvre existe: c’est l’écriture. L’écriture est ceci: la science des jouissances du language, son kãmãsutra (de cette science, il n’y a qu’un traité: l’écriture elle-même)”. (Il testo che voi scrivete deve darmi la prova che mi desidera. Questa prova esiste: è la scrittura. La scrittura è questo: la scienza del godimento del linguaggio, il suo kamasutra (di questa scienza non v’è che un trattato: la scrittura ella stessa.)”
Tornando al titolo, Te la racconto così, rinveniamo subito un altro enunciato importante: il genere letterario, il racconto.
E perché l’autrice sente il bisogno di enunciarlo? Perché non si tratta di un libro di racconti costruiti secondo teoria, per esempio con un incipit, un corpus, un finale che lo metta in tondo, l’azione, il protagonista, i personaggi minori, l’attenzione ai tempi. No.
Qui, tutto il libro è un racconto con i suoi tempi impertinenti che non rispettano le ore e le stagioni, ma tuttavia le descrivono, spesso evocandole, con due protagoniste che non hanno nome, perché non ce n’è bisogno, talmente sono individuabili, con questa interlocutrice che sembra stare in sottofondo ma poi di tanto in tanto all’improvviso con un’abile zoommata balza in primo piano.
E il tutto è dentro una megametafora, come avvolto in un velo trasparente.
Perché questo racconto è raccontato così (ed è questa l’altra indicazione del titolo Te la racconto così), come si sono sempre raccontati gli uomini: dai dipinti sulle pareti delle caverne, ai clips delle webcam, gli uomini hanno fissato il sé e il fuori da sé nel grande corpus della produzione di senso che è alla base della civiltà umana.
Ora, mentre il raccontare è un bisogno primordiale, il come, se è legato al processo estetico, non origina da una funzione ragionante: “è affare di libertà” direbbe Pareyson.
Ma non è neanche arbitrio.
E il Così enuncia la modalità della produzione testuale, che quindi non è semplicismo o ignoranza o inadempienza della norma.
La scrittrice sa bene che qualunque scrittura è un gioco normato e lei le regole le conosce così bene che può proporre le proprie. (Quando so esattamente come si fa, posso anche deviare)
Mi sembra, che questo titolo così aperto e che, per dirla con Greimas, è un “débrayage enunciazionale”, abbia alle spalle una narratrice che “costruendo il discorso, si mette in discorso” (Marsciani).
E così ho guardato al testo in questione nell’ottica di questa strategia narrativa. 
La fluidità di questa scrittura esprime lo sguardo leggero, ma non superficiale, con cui l’autrice si imbarca nelle vicende della vita e osserva il mondo.
Sembra buttata giù di getto e invece è molto costruita, molto scritta, pur nella sua cifra veloce, scorrevole, colloquiale, che sembra davvero impensata nel senso che non appare il frutto di un lungo cogitare, e il che può essere, perché non sappiamo quanto a lungo queste scritture abbiano parcheggiato e sonnecchiato nel retropensiero.
E’ dentro questo andamento espressivo, provocatorio e divertente, gioioso e a volte anche  attraversato da una sottile e appena percettibile malinconia, che questa scrittura sembra brillare di luce propria perché ha le sue regole, dove il pronome relativo non ci  pensa proprio a declinarsi, alla faccia di tutte le grammatiche, e gli accapo muovono il testo come una poesia, dove le cose e le sensazioni minime, che sembravano dimenticate, tornano in superficie immaginifiche ed emozionali.
Proprio dentro questa jouissance si snodano le storie che molte volte nel testo sono definite anche favole. E lo sono perché spesso si concludono con  la battuta spiazzante, proprio come si conviene alla favole ed è ciò che la differenzia dalla fiaba che non ha la morale.
E ovviamente la Favolissima è quella della propria vita, della propria nascita nell’anno 1950, quello dell’Anno Santo e degli antibiotici, un ricordo capace di situarsi anche prima della nascita, nella pancia della mamma di cui la foto sotto il muro.
Riporto appunto da Favolissima, a pag 60 “…gli uomini sono come le favole, uno simile all’altro non ce n’è, e la favola che si conosce meglio è la propria anche se è senza conclusione che la vedi intanto che la racconti e più tempo passi a raccontarla e più la vedi.”  Mi sembra l’appropriazione della propria vita attraverso il raccontare: come è anche a pag 104 “…ecco la nostra favola sarà diversa e la potremo raccontare solo noi  e nessuno ci potrà scippare la nostra vita anche se intorno si affollano giocatori in età.”
Una nota costante di questo testo è il rapporto con l’interlocutore che prevede il vezzo di definirlo solo in parte, per lasciare aperto lo spazio dell’immaginazione. E’ comunque un dialogo ininterrotto.
Io ho immaginato che fosse una bambina (la figlia? la generazione giovane?) che si apre alla vita e che l’autrice conduce alla scoperta dei misteri della vita, appunto, non i misteri dei massimi sistemi, bensì quelli della vita quotidiana e l’autrice è convinta che passarle un po’ della sua esperienza infantile e adolescenziale possa darle degli strumenti in più per orientarsi. E quindi spesso il racconto si scioglie in consigli, raccomandazioni.
Ma, come ho già detto in apertura, immagino che l’interlocutore sia metaforicamente il lettore.
E’ la struttura retorica che tiene fino in fondo.
Un racconto interessante è sicuramente “Mogli”.  Ci sono racconti brevissimi di poche parole, ma che contengono in sé un tempo lunghissimo, come per esempio quel famoso racconto brevissimo di Augusto Monterroso “Quando despertò el dinosaurio todavia estava allì” che in sette parole allude ad tempo lunghissimo. Ebbene, c’è una frase di questo racconto di Cetta Petrollo che per me ha la medesima forza espressiva. “Una volta le badanti si chiamavano mogli”.(pag.42) Dentro c’è un tempo lunghissimo che è quello del femminismo, che comincia dalle mogli e arriva alle badanti. C’è tutto il femminismo, dentro.
L’autrice è sicuramente esperta della tecnica della cumulatio, una figura retorica adoperata da sempre dagli scrittori, una elencazione di cose o luoghi e fatti in sequenza e in questo testo, proprio per l’autonomia espressiva rivendicata dall’autrice, è rigorosamente senza le virgole, e che nel contesto assume una funzione informativo/ evocativa di effetto.
Dunque, tanti racconti o storie o favole, piccoli, a volte cortissimi e sorprendenti: un mosaico dalle tessere luminose e trasparenti che ci riportano a un tempo recente, ma che sarebbe irrimediabilmente perso, se non ci fossero i libri come questo di Cetta Petrollo a inchiodarli nella memoria. 
Cosicché, il così del titolo si definisce anche in questo modo garbato, leggero, veloce, colloquiale, antigrammaticale libero, di una libertà fortemente voluta, con cui ci vengono consegnati fatti, persone, oggetti, emozioni, pensieri, riflessioni: Procida, Amanti, Maria Concetta, Caffè, Il gelato, Favolissima, Sorelle, Vecchiaia e Come mi piace raccontare. Sono soltanto alcuni titoli dei numerosi racconti di cui è costituito il volume.
Giustamente nella postfazione della Sgavicchia è stato indicato in questo narrare l’arte della gioia, ma se è vero, come è vero, che “scrivere è essere”, l’arte della gioia è anche nel vivere e nell’essere di questa feconda narratrice. E di ciò è portatrice questa scrittura, oltre che di cultura e di intellettualità. Questa scrittura così femmina, piuttosto che femminista.                                                             Luciana Gravina




 


Roseward, Fantasmi e paure, Il giro di vite oltre Britten e James, Altredizioni, 2012 alla Fiera del Libro di Spoleto.


Questo libro che ho presentato il primo settembre  alla fiera del libro di Spoleto
propone un tema inquietante: quello del mistero dell'uomo dopo la morte.
Mi ha intrigato molto e vi posto la relazione che ho tenuto in quella sede.

Roseward, Fantasmi e paure, Il giro di vite oltre  Britten e James, Altredizioni, 2012
Il primo titolo della collana  Telos Eisioteo di Altredizioni  enuncia di per sé la complessità dell’argomento in quanto attinente a due condizioni umane primordiali e problematiche quali la paura e l’inquietudine del post mortem.
Questi Temi vengono esplorati in un’opera proposta da due autori quanto mai problematici in generi diversi, James, narratore  e Britten, musicista, ma che hanno ispirato anche molti cineasti come Jack Clyton, Peter Weigl, Ben Bolt,  Katie Mitchel, Tim Fywell e alludo ai film direttamente riferiti all’opera in questione, glissando su quelli che ne hanno tratto soltanto ispirazione.
Nella Prefazione il curatore, Edoardo Ciampi,  espone subito una dichiarazione di metodo; enuncia cioè la prospettiva entro la quale intende analizzare l’opera che è quella esoterica, chiosando in primis (pag. 7) il termine “esoterico” in quanto “ciò che è interno (come principio di ciò che è esterno e complementare), mentre il senso anagogico fa riferimento ad un intimo significato spirituale, “ciò che viene elevato”).
L’approccio anagogico chiarisce ed è in linea col “telos”, la finalità della collana editoriale che è un invito all’accostamento al Mistero inteso nella sua pura etimologia che è “mysterion” in cui la radice “mu” indica la bocca chiusa, il tacere, il silenzio, a protezione di ciò che è indicibile, ma intellegibile.
Emerge subito che la maggior fonte di riferimento dell’autore è René Guènon, il filosofo contemporaneo che ha dedicato molti suoi studi alle Tradizioni e d’altronde l’autore stesso ha all’attivo una pubblicazione su Gli esegeti della Tradizione, pubblicato con Terre sommerse.
Dunque la cifra interpretativa è decisamente lontana dalle esegesi che la critica contemporanea chiude nel cerchio limitato della sfera mentale,  psichica e razionale, ignorando l’unità spirituale che è al fondo di un’opera d’arte e che si serve del linguaggio estetico per veicolare il senso profondo del Mistero.
Nell’Introduzione l’autore enuncia le altre finalità della ricerca in atto. Così emerge a pag. 29: “Lo studio comparato di un’opera lirica e la sua fonte letteraria, ha il fine di portare alla luce quegli arricchimenti, o le eventuali entropie (che il processo di traduzione  di un testo narrativo in quello drammaturgico necessariamente comporta) che altrimenti rimarrebbero probabilmente nascosti al fruitore. Scegliere poi un testo complesso  ed enigmatico come Il giro di vite, comporta di per sé un particolare rischio: quello di un’analisi critica moderna, che nella sua ricerca spasmodica di svelare ‘tutto’, possa addirittura finire per sfinire il tutto.
Obiettivo chiaro e consapevole che denota innanzitutto una considerevole igiene mentale, degna della migliore Accademia in virtù della quale Ciampi affronta tutto il corpus del trattato passando attraverso le fasi di rito, tra le quali l’analisi dell’opera letteraria e del suo autore, Henry James, e quella di un Britten drammaturgo fortemente coeso con la dimensione di operista.
Ciò avviene attraverso un percorso comparato non solo del processo di genesi delle due opere, ma anche dei numerosi interventi critici stabilizzati soprattutto sul dualismo intimistico e psicanalitico.
A questo dualismo il Nostro oppone metodo e modus che è quello di un intellettuale che si muove dentro la filosofia delle Tradizioni iniziatiche, privilegiando l’ Ermetismo  e proponendo una ricerca nella Via dello Spirito.
Si tratta sicuramente di un testo complesso che, per il suo formato, cosiddetto “tascabile”, tende a cogliere un lettore inopinantem, cioè che non se l’aspetta, ma che poi resta coinvolto, sedotto nel senso “barthesiano, dalla lettura.
E’ inoltre un testo pregevole per la ricchezza della chiosature, che propone un tale complesso di note da potere esplicare una vera e propria funzione di indottrinamento.
L’attribuzione formale  a Roseward fa riferimento al “ristretto gruppo di persone dedite a studi di arte tradizionale e metafisica”, ma ritengo (e auspico) che per il suo valore illuminante questo lavoro possa raggiungere un pubblico ben più ampio.
                                                                   Luciana Gravina



lunedì 11 giugno 2012

Presentato "L'infinito presente" a Alepf da Claudia Pagan eCarlo Livia

Ciao,

Venerdì, 8 giugno, è stato presentato il mio più recente libro di poesia presso Aleph in Trastevere a Roma.

I relatori sono stati eccezionali. Anche Luigi Celi, che ha introdotto l'evento parlando del mio libro.

Le letture sono state fatte da due veri esperti: Giulia Perroni e Simone Fusai.

Prossimamente posterò l'intervento di Claudia Pagan.

Intanto vi  passo il testo poetico che Carlo Livia mi ha dedicato, oltre alla sua analisi critica.

                              Vestibolo
                         (di pensieri accecanti)
                                                                 Per Luciana Gravina


La più antica nudità vaga sonnambula nel vento          Cerca un valico d’acqua
lustrale per attraversare la morte                       Il fulmine lascivo, armato di pensieri affilati
viola il grembo della notte           Una mano senza vita emerge dal ritratto e
capovolge l’universo               E’ il sogno delle vergini silenziose, rinchiuse nell’eclissi
immobile che nasconde il grande amplesso          Non è il peccato ma la bellezza
della Dea scomparsa che imprigiona l’Essere nello scrigno al di là della parola
Il tempo che resta è un cielo troppo sottile per vestire di sogno la follia dell’amore
Che seduto in fondo al cielo invoca ancora la luce dell’istante infinito

                                                                                                                     Carlo Livia




venerdì 1 giugno 2012

Presentazione del mio volume di poesia "L'infinito presente"

Sarà presentato il giorno 8 giugno, p.v. alle ore 17,30, presso Aleph, in Roma, vicolo del Bologna, 72.

Relatori:
Claudia Pagan e Carlo Livia
Lettori:
Giulia Perroni e Simone Fusai
Ovviamente sarò presente.

Non mi ricordo dove l'ho scritto


“la parola  non è accolta dall’orecchio, ma gli sbatte contro e cade sulla pelle, perché è bene che entri dalla pelle e dai pori e che sbattendo faccia pelle d’oca”.

Del mio libro "M'attondo il giorno": una riflessione di Maria Pina Ciancio

Ho riletto, dopo tanto temo, questa riflessione critica di Maria Pina Ciancio sul mio volume "M'attondo il giorno" e ve la propongo.

LUCIANA GRAVINA è nata a Buonabitacolo in provincia di Salerno, ha vissuto in Lucania per più di vent’anni e attualmente vive Roma. Nel tessuto della poesia di Luciana Gravina, pulsano i fili di un’eclettica cultura che si dispiega e si dipana in un gioco di intersezioni, rimandi, opposizioni, che avviluppano e catturano il lettore in un vortice di stordimento in cui spesso “la parola –come lei stessa scrive – non è accolta dall’orecchio, ma le sbatte contro e cade sulla pelle, perché è bene che entri dalla pelle e dai pori e che sbattendo faccia pelle d’oca”. Concettosa, difficile, talvolta inafferrabile e oscura, come lo è la vita e l’essenza profonda dell’esistere, la Gravina porta nei suoi scritti tutto un vasto esperienziale conscio e inconscio di donna-poeta, e tenta attraverso l’antisintassi e la deformazione della parola, il recupero della parola stessa nei suoi connotati primordiali e originari. Si rintraccia tra i versi di M’attondo il giorno un rifiuto dall’ovvio e della staticità: la sua poesia è magmatica e in movimento, aperta ad associazioni di senso e a soluzioni sempre nuove, vertiginose e mai scontate.
by Maria Pina Ciancio
Maria Pina Ciancio è scrittrice, critico letterario e poetessa di valore
 
Grazie, Maria Pina
 
 
 

martedì 22 maggio 2012

Brevia (ancora)

Salve a tutti,

vi propongo i miei ultimi brevia.
A presto,



La collana assassina
La collana era un laccetto morbido che reggeva un diamante.
Dimorava notte e giorno sulla pelle candida del collo.
Lo strozzò di notte aggrappandosi a un bottone del cuscino.
 Dolcemente, per non fargli male.

Il cero e il gatto
Si godeva l’idea di morire di morte naturale il cero a forma di palla diametro cm 10.
Ogni volta che lo accendevano, si scavava lentamente dentro, con la fiamma, in una grotta lucida e profumata la sua porzione di eternità a tempo determinato.
Il gatto con una zampata lo fece rotolare nel camino acceso.

Il tappeto senza birilli
Aveva faticato molto per assicurarsi l’immortalità.
Quando vi si trovò dentro, si sentì un tappeto da gioco senza i suoi birilli.
Che l’eternità fosse noiosa noi l’avevamo detto, ma lui non lo sapeva.

sabato 5 maggio 2012

Valentina Nesi ha scritto del mio ultimo libro

Cara Valentina,

Ti ringrazio per l'attenzione che hai dedicato al mio ultimo libro di poesia.
Credo che hai colto nel segno per sensibilità e per conoscenza delle strutture poetiche.
Di nuovo,grazie.

Pubblico in questo blog il pezzo di Valentina che è uscito nel n.del 25marzo2012 del Metapontino.

Luciana Gravina: 'Infinito presente', l'equilibrio del sé

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Viene difficile da raccontare, “L’infinito presente”, a chi non lo dovesse ancora aver  letto; ma,  come sottolinea Rino Malinconico, curatore della raccolta, sono liriche che “chiedono”, soprattutto,  di essere ascoltate.  
Sembra d’obbligo citare il parallelismo da egli stesso utilizzato: “e’ come un buon jaz, i cui fiati prolungano  lo strazio infinito della solitudine”. Simmetria centrate in pieno, non solo per la comune appartenenza di entrambi, a un genere di nicchia, quasi elitario, ma anche e soprattutto per l’intensità della carica espressiva, per dirla alla Tateto, per l’ineffabilità di quel sentimento, qui colto e rimaneggiato.  
L’autrice, Luciana Gravina, una delle voci più risonanti nel panorama del neospe-rimentalismo poetico, viene meno a ogni convenzione linguistica, creando un nuovo linguaggio nel quale pone al centro della scena le parole.  Queste stanno a connotare significati inusuali, evocativi;  i numerosi neologismi, emblema di audacia espressiva, ne lasciano intravedere la rarefazione del lessico.  Un fitto tessuto di figure retoriche costituisce l’intelaiatura di questo canzoniere. Un po’ petrarchista, proprio per il richiamo all’eleganza acustica,  un po’ marinista, per la prepotente energia sprigionata da ogni singolo lemma; lo zenit di questa raccolta è senza dubbio il poemetto “Percezioni”.
In questo , il tema viene dilatato ma non esaurito; vero è proprio manifesto programmatico, svolto sotto forma di racconto, come nell’illustre antecedente verghiano   “Fantasticherie”.  “L’infinito presente”, edito AltrEdizioni è racchiuso in cinquantaquattro pagine, quindici componimenti che portano  Luciana Gravina, di certo, non inesperta scultrice del verso, a proseguire nella sua intima e personale ricerca poetica lungo “infiniti rivoli”, verso quegli obiettivi che ella stessa si era proposta:  la radicale rottura con  le tradizioni poetiche passate e l’inaspettato raggiungimento, anche se precario, dell’equilibrio del sé.

Valentina Nesi

Aggiungo il testo a cui Valentina ha fatto riferimento.


Percezioni

Hic proprio qui dove l’inizio e la fine squiquano e sfinano, spersi. Qui a inizio e fine sdentrati avviene d’essere a illusione di infinito e a non luogo,  perciò  fermi ci smottiamo a percorrere l’universo: di pensiero, dico. Hic dove la vita avviene. Nunc, proprio ora dove il tempo si addensa in percezione  e in globuli di fibre rimanda per l’enèrgheia, il flusso permanente  e più volte inconnu, irrisolto, sdragato.

                                                          Fu quando mi sedusse la luce come un fiume di sabbia luminosa a discesa e a cascata dietro le palpebre e
ancora mi inonda infilandosi al petto, nel chakra cosiddetto del cardias.  E io spietata nella mia incredulezza a spiarlo dubbiosa questo fiume, questa dilagazione di luce multicroma che ad apertura di chakra, appunto, ogni volta avviene a palpebra chiusa e se aperta mi si attacca alle mani, ai palmi e ai bordi. Cosicché è l’io che attracca sfrantato e si addimora nel contorno di liquido sfocato che si sdrama alle mani, ai palmi appunto.

                Una volta fu di bellezza, finesse, lo spirito voglio dire e talvolta quasi a sfida di geometrie. O di entrambi, ancipite insomma. Transeunte,
passeggero, caduco, come suol dirsi, mi pare ora, nunc, appunto, ma allora apparvemi il tutto, l’essenza, la pienezza, non il refolo dell’hic, di quando il tempo prigioniero si cammina dimidiato tra passato e futuro.

                                              Avessi spersuaso l’occhio alla crudezza eunte del biondo capello, della sottigliezza al fianco esperta, strafilata sul nunc. Avessi di sradicata pietà delle pietre nei profili delle fiaccole dove l’ultimo rosso si assiepava, sulla siepe, appunto, di frastagliate compiutezze credute totali, del ventre annidato tra le pupille sazie, tra i sorrisi degli incubi,                                                                                       avessi 

stramato appena la dicotomia triplice del tempo così inconcluso tra passato e presente spesso anche a futuro orbitato se in fantasma la mente si metteva a sogno.

                                                                                                      L’avessi appunto
auscultato questo concerto n.21, Mozart permettendo, non con le auricole fisiche sotto le mani e a vedersi anche per occhi, ma con la pelle per vibrazioni convenute a velocità non intercettabili, a vibrare, appunto, in tutti i pori, dico tutti, dilatati per la spietata penetrazione a sussulto estorto dalla testa alle ultime estremità nel corpo dilaniato a percezione dal fondo, e funditus,  per incontrollabili deliri. Lo avessi
auscultato, appunto, attraverso la pelle.
                                                                                                                 Ma io,
maintenant, io a credere che l’esprit fosse appunto de finesse, al limite, de geometrie, magari entrambi per una testa ancipite, come già, bel viso, anche, d’una compiutezza, così mi sembrava, ou tous se tenait, dove la svasatura del rischio sotto controllo si glissasse egli medesimo sine cura.

 

venerdì 9 marzo 2012

Festa della donna 2012, 8 marzo

E'molto che non mi faccio viva sul blog.
Eccomi.
Per la Festa della donna 2012 avrei dovuto essere a Milano, alla libreria Isola libri a via del Pollaiuolo.
Mi avevano invitata. Non sono riuscita ad andare. Vi propongo la relazione che avrei fatto lì.


(A proposito: sapete di uomini che organizzano manifestazioni per la Festa della donna?
Io no. Se ne siete a conoscenza, fatemi sapere. Non vorrei dovermi convincere che siamo sempre noi a "farci la festa".)


Foemina madre donna

La giornalista americana, Tina Brown, direttrice di Newsweek e di The Daily Beast, ha annunciato un summit del suo “Women in The World” che si terrà a New York dall’8 all’11 marzo c.a., e in cui lancerà il Manifesto della futura battaglia delle donne.
Ha invitato il Premio Nobel per la pace, Leymah Gbowee, il Premio Oscar, Meryl Streep, il Presidente del Fondo Monetario, Cristine Lagarde,e la numero due di face book, Sheryl Sandberg. E poi Angelina Jolie, Chelsea Clinton,Barbara Bush, etc..
Secondo le sue dichiarazioni, lancerà il manifesto per un nuovo femminismo e, criticando donne importanti, quali Michelle Obama, che si comporta come se fosse agli arresti domiciliari, o Sarah Palin, che è animata troppo da rabbia populista, o Anne Sinclair, consorte di Strauss-Kann, che avrebbe esibito il modello di donna che deve sopportare, proporrà, se ho ben capito, un modello femminile fondato sul potere economico-politico.
L’intervista a Tina Brown è pubblicata su La Repubblica del 5 marzo u.s.
Guarda caso, sullo stesso numero appare una recensione di Federico Rampini su un libro di Charles Kenny , la cui traduzione esce in questi giorni col titolo “Va già meglio”.
Vi si sostiene che lo sviluppo è possibile se verrà dato spazio adeguato a certi diritti fondamentali quali l’istruzione e la salute.
Certo, e chi può dire che non è giusto?
Inoltre di questo libro è importante il sottotitolo che suona così: “Lo sviluppo globale e le strategie per migliorare il mondo” . Sicuramente c’è un’analisi apprezzabile sia dal punto di vista storico che geografico.
Però, dal momento che parla di diritti, è lecito chiedersi se i diritti delle donne sono dati per acquisiti, o se, nel contesto maschilista globale, essi non hanno la benché minima rilevanza.
Nel primo caso, io non darei per acquisiti i diritti di cui oggi gode la donna perché non sono diritti naturali, sono soprattutto diritti civili,e sono frutto di grandi battaglie. Come tali, si possono perdere.
(Questo vorrei ricordarlo alle donne giovani che fruiscono di alcune libertà che le donne della generazione passata hanno conquistato masticando chiodi.)
Il caso poi che gli uomini,che sono poi quelli che a tutt’oggi gestiscono il potere politico, economico e culturale, non se ne preoccupino, o forse se ne preoccupano tanto da volerli ignorare, dovrebbe indurre le donne a riflettere e sicuramente a riprendere in mano il problema del Femminismo.
Credo però che l’idea di Femminismo configurato dalla succitata giornalista americana sia molto lontana da una riflessione profonda sulla essenza della donna e soprattutto sul rapporto col maschile (che non è il rapporto col maschio) perché è un’idea calibrata su strumenti di lotta tutti al maschile.
Il problema fa pensare alla distanza enorme che separa i generi, alle differenze ineludibili tra l’uomo e la donna.
Sulla distanza di genere vorrei iscrivere i termini di questa che doveva essere la mia conversazione: foemina, madre, donna, e mi viene subito in mente il mito di Arianna.
Sappiamo che gli antichi hanno costruito i miti per rappresentare ciò che per loro era misterioso, inspiegabile con la ragione e quindi oggetto di paura.
Ma torniamo ad Arianna.
Si tramanda che il Minotauro, creatura metà uomo e metà bestia, rinchiuso nel labirinto, esigeva come pasto i migliori giovani di Creta.
Teseo, decise di ucciderlo e liberare la città da questo cruento tributo e fu sostenuto in questa impresa da Arianna, figlia di Minosse e sorella del mostro.
Lei aiutò Teseo a entrare, a orientarsi nel labirinto e a uscirne, dopo aver ucciso il Minotauro, con l’ausilio del famoso gomitolo di filo.
Lo fece perché innamorata di Teseo il quale, dopo l’impresa si imbarcò con lei ma la abbandonò sull’isola di Nasso.
Questo mito, che, come tutti i miti, è costruito sulla simbologia essenziale degli archetipi, ci descrive il rapporto tra il maschile e il femminile: rapporto che è caratterizzato dal loro essere diversi.
Il Labirinto rappresenta l’inconscio. Teseo, affronta un pericoloso viaggio alla ricerca della sua identità e per fare questo deve confrontarsi con i suoi istinti bestiali (il Minotauro). Si affida ad Arianna (il femminile) che lo riporta alla luce della consapevolezza. In questo modo gli antichi delinearono i due concetti di maschile e di femminile.
Ma il femminile non è necessariamente un elemento che distingue il genere: potrebbe essere, anzi, essere stato, una categoria, un universo concettuale, semantizzato attualmente come attributo di genere per ragioni storiche.
Sappiamo infatti che l’età neolitica è costituita da una struttura sociale fondata sulla “matrilinearità” (erano le madri a riconoscere i figli) fondata sulla economia della Terra, la Grande Madre che nutriva tutti i figli con i suoi frutti e dove la donna condivideva con la Terra il suo ruolo misterioso di madre.
La donna-dea-terra-madre era rappresentata in vari modi (e ne abbiamo tracce cospicue) in tutte le culture del mondo.
Quando con i popoli Ariani sono cominciate le guerre per il predominio sulla terra in quanto le società sono passate dal nomadismo alla stanzialità, è cominciato anche il lungo cammino dell’uomo verso le società patrilineari che sono tuttora in corso.
In questo processo il maschile ha cercato in ogni modo di soffocare la”potenza” del femminile, che è potenza derivante dalla natura, col “potere” della guerra e della forza fisica che è costruzione culturale.
Oggi la donna,(sicuramente ci sono le eccezioni e questo è soltanto il mio pensiero) vuole cambiare il mondo con le stesse armi di guerra dell’uomo.
Quanto tempo abbiamo sprecato con la questione delle quote rosa? Che pena le “quotiste”!
Gli uomini continuano ad avere paura delle donne(e fanno bene) perché la”potenza” femminile armata del “potere” maschile , è un mostro da temere, e quindi interdicono gli spazi di potere con determinazione e pervicacia, oppure ipocritamente
riconoscono il diritto di partecipazione della donna, ma poi di fatto lasciano le cose come stanno.
Insomma è la guerra e la conseguenza è che la donna è sempre più stressata e l’uomo è sempre più l’eroe vinto che si lecca le ferite. Oppure ammazza e fa le carneficine.
E questo stato di cose incide sulla quotidianità dei rapporti che sono alla base dell’esistenza.
Il Dio delle grandi religioni monoteiste è tramandato al maschile. Ma questa è una percezione alimentata dall’ignoranza.
Secondo i filosofi gnostici, in tutte le religioni del mondo nel Dio Principio Primo sono insite entrambe le nature del maschile e del femminile. In realtà nessun Demiurgo Creatore può essere tale in assenza del principio femminile.
JAH-HOVAH, da cui Geova, contiene il principio maschile, JOD (il membro maschile), e il principio femminile HEVE, EVA, EBE, YONI, IL CALICE DIVINO, L’ETERNO FEMMINILE.
Ho toccato questo argomento a volo d’uccello, (ma sarebbe interessante parlarne per dimostrare che la percezione che noi moderni abbiamo della religione è completamente diversa da quella delle origini e dalle istanze profonde da cui le religioni si sono generate), perché voglio chiudere ricordando un altro mito.
Quello che Platone mette in bocca ad Aristofane nel Simposio.
“Un tempo - egli dice - gli uomini erano esseri perfetti, non mancavano di nulla e non v'era la distinzione tra uomini e donne. Ma Zeus, invidioso di tale perfezione, li spaccò in due: da allora ognuno di noi è in perenne ricerca della propria metà, trovando la quale torna all'antica perfezione”.
E questo è un altro modo con cui gli antichi si spiegavano la differenza di genere e , se dicessi, anche i meccanismi dell’amore, sembrerebbe che io voglia fare una sviolinata sentimentale.
In verità penso che la realtà sia molto più complessa.
Penso ai psicanalisti che sostengono che il maschile e il femminile siano insiti in ciascuna persona e penso anche che questa bidimensionalità di ciascuno vada armonizzata con quella degli altri.
Penso che nella gestione della società in ogni campo, da quello politico a quello economico, a quello culturale uomini e donne debbano introdurre ed equilibrare le caratteristiche di genere.
Mi chiedo allora: perché le nostre deputate e le nostre senatrici, quando si vota per inviare i contingenti militari nelle zone di guerra non optano per la pace e invece mandano a morire i giovani?
Hanno dimenticato di essere delle donne e di potenziare la cultura della pace.
Forse è questo il principio del nuovo femminismo: trasformare in azione il femminile, quello originario che affonda le sue radici nei precordi di ciascuna donna, e trasportarlo nella vita quotidiana.
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