mercoledì 26 giugno 2013

Segnalazione al Premio Montano 2013 della mia raccolta inedita "Punto di fuga"

Anche quest'anno una mia composizione ha conquistato una "segnalazione" al Premio Montano.
Si tratta di una raccolta inedita intitolata "Punto di fuga" di cui vi anticipo qualcosa.



Purificate restammo voci senza eco, restammo.

A graffiare  gli intonaci spergiuri nella notte, mute.  

Editammo  sezioni auree barando. 
                                                   
                                              Conchiglie primordiali. 

Col fiocco in testa solcavo il sole nella piazza del 

sole vibrarono le sonagliere dei muli. 
                                            Ancora sale caparbio il 

segno, declina la presenza del dio pagine inclini al 

ginocchio dove il passo è

muto tenerezza del tempo annodato sugli esiti

resistere al silenzio magari sotto falsa identità 

marcare il grembo della maschera

                                              stratificarne il vuoto.
                                                                              
Persistenza del ritmo  questa agonia permanente  

egemonia del pretesto

stratificammo il vuoto persistendo nel ritmo.
                                                                                            
                                                                Persistendo.



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 Sali  dalla pietra in attesa di essere detta. Smantelli 

 un muro a secco.
                              
                                     La tua eternità degradabile 

a tempo determinato. Cedi alla sfida.  Questo ci 

chiede chissà chi.

                          La parola porta in bocca arcobaleni 

stiamo sognando.

                                                     Ancora  estremi ci

consegniamo all’enigma.  Dove l’essere si  ambigua 
   
le superfici si affollano fragili innumerevoli
     
                                 sbattono ai muti seminati di pane 

e niente flettono  arabeschi inconsistenti deflagrano 

in virtù accidentate vivono,
                                               burlesque, le verità mediatiche ingozzano folle sagge senza spasmi. Ci 

dimidiano. Il dio delle cose spergiuro sputa sulla 

nostra ombra.
                                                        Ci siamo persi. La mia 

zona franca deborda in due fonemi c’est à dire due 

sperimetrati  respiri, io e sé.
                                                    Cantavo sottovento 

in fuga. Il fiocco in testa non si conosceva deciduo. I 


muli squassavano le sonagliere.  

                                             Disegnavano la biografia
della piazza.




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Sottopelle avviene muto lo schianto del senso 

trama l’ordine riconduce en abîme
                         
le tracce delle mappe ricamate nei 

secoli contenutezza della predizione. Le silence.

                                                  L’avessi visto rifratto
  
dentro le giunture delle falangi negli antefatti

della contrazione  nelle fessure della notte, 

infernale senza un per sempre il punto di fuga.

                                                  Sottopelle allaga ogni 

fibra convoca un’orchestra è il corpo che ascolta, 

come un fiume diluisce il tempo lo parla.

                                            Mette lamine di primavere 

seduce  gli inverni spartisce il mare dove il fiocco di 

seta ha chiuso la corsa.


                                    Smuove la prospettiva. 

Era bianco.











Intervento di Anna Maria Vanalesti per L'infinito Presente

Il giorno 10 maggio u.s. Anna Maria Vanalesti, scrittrice e critico letterario, ha presentato a Ostia Lido "L'infinito Presente"  presso Il Leggio del Mare, associazione culturale, di cui è Presidente.
Mi piace pubblicare la relazione pronunciata da Anna Maria, che è densa di intuizioni raffinate, di considerazioni critiche pregevoli, di citazioni culturali interessanti.

L’INFINITO PRESENTE  DI LUCIANA GRAVINA 

Leggere la poesia di Luciana Gravina non è come indossare un abito prèt a porter che puoi  stropicciare come ti pare e non è nemmeno come leggere qualcosa che possa farti distrarre o astrarre dalla realtà e dai tuoi problemi, ma significa addentrarsi in un territorio impervio, dove non sarà subito facile rintracciare i giusti sentieri da seguire, né orientarsi riconoscendo la segnaletica dei percorsi. La Gravina è infatti poeta che vola alto, che si approccia alla poesia proprio con la volontà del poiein, del fare e del disfare, del creare e del ricreare, per restituire alla parola tutta la sua polisemia e per compiere fino in fondo quel ludus senza fine che solo il linguaggio può attivare. Ci sono due modi per accostarsi alla poesia: seguire l’ispirazione e andare dietro alle emozioni e ai sentimenti, oppure seguire le parole, inventarle, scardinarle dal loro significato semantico, desintattizzarle e  ricomporle in un contesto sinfonico, che va solo ascoltato, per poterne cogliere l’intera portata sonora. Non a caso Rino Malinconico, nella sua bella prefazione all’Infinito presente, dice che i versi di Luciana Gravina chiedono “soprattutto di essere ascoltati”. E  chi li ascolta  si accorge immediatamente che vengono da una lunga esperienza poetica, da una grande dimestichezza con la parola e da un convinto tirocinio sperimentalistico, che pur proveniente dall’ormai lontana produzione dei Novissimi, raccolti dall’Anceschi nella sua famosa “Antologia”, alle soglie degli anni sessanta, si è emancipato verso forme più nuove con contenuti tematici complessi e profondi , quali quelli esistenziali. E’ qui la differenza con le prove del primo Sanguineti, per esempio, che in Laborintus e in Palus putredinis, imboccava la strada del plurilinguismo, dell’accumulo dei materiali eterogenei e delle associazioni foniche, che andavano direttamente ad incidere sul linguaggio, ma oscuravano, anzi annullavano qualsiasi tema. La Gravina compie sì una ricerca linguistica, ma il suo fine è ben più ambizioso perché la vera ricerca è sul suo io, su se stessa e punta a rigenerare un equilibrio perduto, che è equilibrio del corpo e della mente. In questo agiscono fortemente alcune componenti che fanno parte integrante del suo bagaglio culturale, perché oltre ad essere una donna “di lettere”, dotta conoscitrice della letteratura latina, greca e italiana, è un’intellettuale affascinata dalla psicologia occidentale e da  alcune teorie filosofiche, quali quella della “Crescita personale” , nonché da alcuni aspetti della tradizione induista e buddista che guardano all’energia cosmica rappresentata dalla dea kundalini e al Chakra, la ruota che unisce i centri di forza vitali presenti nel corpo umano. Non so se la Gravina creda veramente ai ventuno punti della percezione, teorizzati dal PEM (Paris Energy method), metodologia centrale nella teoria della Crescita personale, ma comunque lei prova a giocare su di essi costruendo nel poemetto Percezioni, che è al centro dell’ultima opera L’Infinito presente, ventuno linee di fuga, o sarebbe meglio dire campi di forza, che partendo da varie parti del corpo, ( spalle, collo, nuca, petto, ecc.) consentono di percepire e di avvertire le attività fisiche o psichiche alterate, per poter ripristinare la vitalità e l’equilibrio della persona, ottenendo un cambiamento comportamentale. Il poeta fa un paziente e arduo lavoro di costruzione linguistica, scardinando i verbi e coniandone di nuovi 
(come vivìrlo, addimora, shekera, distrama e tanti altri), inventando neologismi, inserendo parole latine, francesi e greche, quasi in funzione di uno straniamento momentaneo dalla reale unità linguistica di base (e in ciò rinnova ciò che faceva Sanguineti), ma la sua intenzione, ricordiamolo, non è quella di creare il caos, al pari dei Novissimi, bensì quella di “ricompattare il caos”.  Alla Gravina preme stabilire l’hic et nunc, che equivale a prendere coscienza del presente in cui si trova, preme organizzare la mente e allinearla sull’asse corporeo, perché mente e corpo sono una sola entità, preme sentire l’infinito e riversarlo nel presente, un presente che duri infinito, o un infinito che sia un continuo presente. Riappropriarsi insomma dell’esistenza, ricomporre i dolori, le anomalie in un cammino di libertà che consenta di arrivare ad un benessere dello spirito, che solo attraverso la poesia si può raggiungere. Poesia come lente del mondo, codice lingua come unico codice della vita, parola come elemento di riordino, ma anche di trasgressione dalle regole, perché soltanto scompaginando queste si può poi ristabilire un ordine nelle cose. Prende dunque le distanze, la Gravina, non dall’intera tradizione lirica italiana, perché nel suo DNA c’è ancora Petrarca che agisce e suggerisce la malia del canto e del verso musicale e c’è anche un debito verso Quasimodo, ma dalla lirica sdilinquita e melensa che pur il Novecento ha corso il rischio di produrre. La poesia che lei ci dà è una poesia di corpo e di pensiero, non facile, ma elegante e assai sonora , fatta di rimandi, di assonanze, di immagini e analogie, di scatti e cadenze misurate, con cui si addentra persino nella più tradizionale delle forme poetiche, il sonetto. Se confrontiamo la prima parte del libro, che prende le  mosse da un gioiello a forma di spirale, creato dalla stessa autrice e che è allegoria e metafora della spirale dell’esistenza corporea e psichica, con l’ultima parte che contiene poesie scritte negli anni novanta e apparse sul "Verri", vediamo subito il percorso attraversato, dopo un lungo silenzio, perché tra quelle poesie del 91-93 e questo libro del 2011, c’è una notevole differenza di forma, non di metodo. Lì c’era una volontà di rimanere entro le linee del componimento classico, pur con avanguardistiche scelte lessicali e ritmiche, qui, c’è come una liberazione dalla forma e uno sprint verso la frantumazione di essa, quasi il poeta voglia uscire dai versi, sentendoli come gabbia, come lo scultore vuole uscire dalla immagine del modello per sprigionare la sua ansia di libertà. Non è andata dietro alle parole, ma quelle sono andate dietro a lei, scomponendosi e slegandosi, rompendo ogni unità compositiva, ma conservando la loro pura sonorità espressiva. Il poema, dunque, L’infinito presente ci regala un’assoluta novità sinfonica e ci impone una rinnovata attenzione per questa poetessa.
                                       ANNA MARIA VANALESTI