Il giorno 10 maggio u.s. Anna Maria Vanalesti, scrittrice e critico letterario, ha presentato a Ostia Lido "L'infinito Presente" presso Il Leggio del Mare, associazione culturale, di cui è Presidente.
Mi piace pubblicare la relazione pronunciata da Anna Maria, che è densa di intuizioni raffinate, di considerazioni critiche pregevoli, di citazioni culturali interessanti.
L’INFINITO PRESENTE
DI LUCIANA GRAVINA
Leggere la poesia di Luciana
Gravina non è come indossare un abito prèt
a porter che puoi stropicciare come
ti pare e non è nemmeno come leggere qualcosa che possa farti distrarre o
astrarre dalla realtà e dai tuoi problemi, ma significa addentrarsi in un
territorio impervio, dove non sarà subito facile rintracciare i giusti sentieri
da seguire, né orientarsi riconoscendo la segnaletica dei percorsi. La Gravina
è infatti poeta che vola alto, che si approccia alla poesia proprio con la
volontà del poiein, del fare e del
disfare, del creare e del ricreare, per restituire alla parola tutta la sua
polisemia e per compiere fino in fondo quel ludus
senza fine che solo il linguaggio può attivare. Ci sono due modi per accostarsi
alla poesia: seguire l’ispirazione e andare dietro alle emozioni e ai
sentimenti, oppure seguire le parole, inventarle, scardinarle dal loro
significato semantico, desintattizzarle e
ricomporle in un contesto sinfonico, che va solo ascoltato, per poterne
cogliere l’intera portata sonora. Non a caso Rino Malinconico, nella sua bella
prefazione all’Infinito presente, dice che i versi di Luciana Gravina chiedono
“soprattutto di essere ascoltati”. E chi
li ascolta si accorge immediatamente che
vengono da una lunga esperienza poetica, da una grande dimestichezza con la
parola e da un convinto tirocinio sperimentalistico, che pur proveniente dall’ormai
lontana produzione dei Novissimi, raccolti dall’Anceschi nella sua famosa
“Antologia”, alle soglie degli anni sessanta, si è emancipato verso forme più
nuove con contenuti tematici complessi e profondi , quali quelli esistenziali.
E’ qui la differenza con le prove del primo Sanguineti, per esempio, che in Laborintus e in Palus putredinis, imboccava la strada del plurilinguismo,
dell’accumulo dei materiali eterogenei e delle associazioni foniche, che
andavano direttamente ad incidere sul linguaggio, ma oscuravano, anzi
annullavano qualsiasi tema. La Gravina compie sì una ricerca linguistica, ma il
suo fine è ben più ambizioso perché la vera ricerca è sul suo io, su se stessa
e punta a rigenerare un equilibrio perduto, che è equilibrio del corpo e della
mente. In questo agiscono fortemente alcune componenti che fanno parte
integrante del suo bagaglio culturale, perché oltre ad essere una donna “di
lettere”, dotta conoscitrice della letteratura latina, greca e italiana, è un’intellettuale
affascinata dalla psicologia occidentale e da
alcune teorie filosofiche, quali quella della “Crescita personale” ,
nonché da alcuni aspetti della tradizione induista e buddista che guardano
all’energia cosmica rappresentata dalla dea kundalini e al Chakra, la ruota che
unisce i centri di forza vitali presenti nel corpo umano. Non so se la Gravina
creda veramente ai ventuno punti della percezione, teorizzati dal PEM (Paris
Energy method), metodologia centrale nella teoria della Crescita personale, ma
comunque lei prova a giocare su di essi costruendo nel poemetto Percezioni, che è al centro dell’ultima
opera L’Infinito presente, ventuno
linee di fuga, o sarebbe meglio dire campi di forza, che partendo da varie
parti del corpo, ( spalle, collo, nuca, petto, ecc.) consentono di percepire e
di avvertire le attività fisiche o psichiche alterate, per poter ripristinare
la vitalità e l’equilibrio della persona, ottenendo un cambiamento
comportamentale. Il poeta fa un paziente e arduo lavoro di costruzione linguistica,
scardinando i verbi e coniandone di nuovi
(come vivìrlo, addimora,
shekera, distrama e tanti altri), inventando neologismi, inserendo parole
latine, francesi e greche, quasi in funzione di uno straniamento momentaneo
dalla reale unità linguistica di base (e in ciò rinnova ciò che faceva
Sanguineti), ma la sua intenzione, ricordiamolo, non è quella di creare il
caos, al pari dei Novissimi, bensì quella di “ricompattare il caos”. Alla Gravina preme stabilire l’hic et nunc,
che equivale a prendere coscienza del presente in cui si trova, preme
organizzare la mente e allinearla sull’asse corporeo, perché mente e corpo sono
una sola entità, preme sentire l’infinito e riversarlo nel presente, un
presente che duri infinito, o un infinito che sia un continuo presente.
Riappropriarsi insomma dell’esistenza, ricomporre i dolori, le anomalie in un
cammino di libertà che consenta di arrivare ad un benessere dello spirito, che
solo attraverso la poesia si può raggiungere. Poesia come lente del mondo,
codice lingua come unico codice della vita, parola come elemento di riordino,
ma anche di trasgressione dalle regole, perché soltanto scompaginando queste si
può poi ristabilire un ordine nelle cose. Prende dunque le distanze, la
Gravina, non dall’intera tradizione lirica italiana, perché nel suo DNA c’è
ancora Petrarca che agisce e suggerisce la malia del canto e del verso musicale
e c’è anche un debito verso Quasimodo, ma dalla lirica sdilinquita e melensa
che pur il Novecento ha corso il rischio di produrre. La poesia che lei ci dà è
una poesia di corpo e di pensiero, non facile, ma elegante e assai sonora ,
fatta di rimandi, di assonanze, di immagini e analogie, di scatti e cadenze
misurate, con cui si addentra persino nella più tradizionale delle forme poetiche,
il sonetto. Se confrontiamo la prima parte del libro, che prende le mosse da un gioiello a forma di spirale,
creato dalla stessa autrice e che è allegoria e metafora della spirale
dell’esistenza corporea e psichica, con l’ultima parte che contiene poesie
scritte negli anni novanta e apparse sul "Verri", vediamo subito il percorso
attraversato, dopo un lungo silenzio, perché tra quelle poesie del 91-93 e
questo libro del 2011, c’è una notevole differenza di forma, non di metodo. Lì
c’era una volontà di rimanere entro le linee del componimento classico, pur con
avanguardistiche scelte lessicali e ritmiche, qui, c’è come una liberazione
dalla forma e uno sprint verso la frantumazione di essa, quasi il poeta voglia
uscire dai versi, sentendoli come gabbia, come lo scultore vuole uscire dalla
immagine del modello per sprigionare la sua ansia di libertà. Non è andata
dietro alle parole, ma quelle sono andate dietro a lei, scomponendosi e
slegandosi, rompendo ogni unità compositiva, ma conservando la loro pura sonorità
espressiva. Il poema, dunque, L’infinito presente ci regala un’assoluta novità
sinfonica e ci impone una rinnovata attenzione per questa poetessa.
ANNA MARIA VANALESTI
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