martedì 1 settembre 2020

Intervento di Marcello Carlino su Percorsi poetici e pretesti critici

  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Una campagna di scavi: la poesia di Luciana Gravina

                                                                                   di Marcello Carlino

 

 

Come suggerisce il titolo, Percorsi poetici e pretesti critici 1979-2019, per la cura di F. D’Episcopo e G. Linguaglossa, documenta pressoché integralmente – benché vi si sia proceduto a necessari tagli antologici – l’opera in versi di Luciana Gravina, corredandola con alcuni tra gli scritti introduttivi, di analisi e di commento che ad essa sono stati dedicati. È così a disposizione del lettore uno strumento agile ed efficace per accostare o approfondire la poetica dell’autore e per apprezzare la coerenza e il rigore di un itinerario poetico che, dalla specola di questo libro largamente panoramico, si conferma di sicuro rilievo.

Un suo tratto distintivo – quel che è stato opportunamente considerato – coincide con una istanza di sperimentazione, che non viene mai meno né ha cedimenti e che tuttavia non appare confinata in un laboratorio di prove e di esercitazioni condotte secondo astratti protocolli, in una dimensione di impermeabile autoreferenzialità. La ricerca applicata al linguaggio, alla retorica e alla struttura del testo è toccata, cointeressata, investita dal vissuto, che bussa insistentemente alle porte chiedendo rappresentazione, che impronta di sé figurazioni e atmosfere, che raggruma e riversa nella scrittura una consistenza e una densità di componenti in amalgama, le quali si ravvisano come una costante. E ciò pure per chiamate attanziali simultanee e affoltanti o per concorsi di dispositivi di figurazione che hanno una forte gradazione metaforica e accostano, facendoli tangenti e talora cosecanti, quadri individuali e quadri collettivi, piani sequenze e riprese in soggettiva: e insieme promuovono dinamiche associative partecipi e materiate della multianime dimensione della vita.

Nella esposizione al conglomerato esperienziale ad angolo giro e alla polisensorialità del trovarsi e del sapersi gettati dentro il labirinto dell’esistenza, e nella intersemioticità a cui finisce per chiedere udienza la sollecitazione sperimentale della forma dell’espressione, rientra di diritto un’apertura, per abboccamenti e incontri possibili, al discorso della filosofia e della conoscenza e al linguaggio variegato delle arti. La poesia di Luciana Gravina ha un ordito dialogico, che si rinviene e a mano a mano aggetta come un suo segno particolare, dalle spiccate connotazioni semantiche.

M’attondo il giorno (2003, poi 2004) è innervato di musica: sia perché – come nelle altre plaquettes – una performatività sonora asseconda i versi e ne nutre la materia del significante, sia perché nella raccolta la partizione è quella di una sonata con i suoi tempi e con i suoi toni. E mentre s’avvistano punte di perspicuità visiva, così come preziosità sedimentate in oggetti-sculture, cesellati e incastonati in solitaria, che attraggono e concentrano nel flusso di alcuni versi lo sciame figurale, Del senso e del sé (2006) è un trattenimento potenzialmente infinito con La Dame à la licorne, capolavoro cinquecentesco che risulta dall’insieme di cinque arazzi visti e riscritti, nella libertà di un rifacimento o di un libero arrangiamento, facendo leva sopra l’espandibilità di senso, apparato per apparato, del nostro quintuplice strumentario sensoriale. Altrove il testo, Sinfonia per orme e uccelli, è un ponte di raccordo, e il pretesto, per un testo ulteriore, ovvero per il concerto di un trio composto da poesia, musica e pittura; e le cromie, con dominanza del rosso – colore che ha suggerito assonanze con alcuni movimenti della scrittura di Elio Pagliarani –, vibrano di sonorità in Per la pace vibrata in cinque colori, che sta col suo titolo esplicitamente indiziario in M’attondo il giorno.

Ma musica e arte visiva adempiono in contemporanea ad un altro mandato: all’incontro di schiusa sinestetica si aggiunge, infatti, la postulazione necessitante della definizione e della costruzione di una forma, di cui il dialogo interlinguistico e intersemiotico diviene promotore e referente. E dunque, in un sistema dialogico siffatto, la materia poetica si ordina come in sequenze, che hanno una loro compiutezza e che pure non sono di freno ad una successività del discorso, funzionando come le stazioni di un poema potenziale. Sicché la sperimentazione, che porta con sé la concretezza molteplice e disordinata del vissuto, cerca una sua organizzazione in comparti, in quadri che indicano un desiderio di compattazione e di coerenza, una volontà di contenimento, un’esigenza di asciuttezza e di rigore; la cerca per dare forma e conferire dicibilità al tumulto delle emozioni, allo sventagliamento delle esperienze svariate del sapere, al caos del trovarsi gettati nell’intrico del vivere.

Ad una medesima intenzione di rinvenimento di una possibilità ordinatrice risale l’interlocuzione filosofica del testo. Tanto Del senso e del sé quanto L’infinito presente (2011) esplorano, in funzione di un cammino conoscitivo che abbia proiezioni esperienziali e valga per fini di auto-inveramento, le dinamiche della percezione e quelle della riflessione, nella chiave di una transazione mai dismettibile di soggetto e oggetto; e la filosofia è pure in tiro, nelle raccolte di Luciana Gravina che la trascrivono in forme del contenuto, con una sua profferta come metodica che intesta alle singole parti della composizione stadi e modalità di conoscenza.

Quanto appena mappato e l’arco cronologico nel quale hanno posto le opere finora chiamate all’appello depongono a favore della ricerca serrata di significati forti (senza i condizionamenti di pensieri deboli pensati dalla letteratura) e di qualità letterarie che ne siano vettori, nonché a favore della resistenza alle facili e stereotipate liricherie, con l’io protagonista assoluto, di cui è ricco il panorama della poesia italiana, quello dell’oggi e quello di un passato prossimo. La scelta di posizione di Luciana Gravina, alla luce di queste considerazioni, a maggior ragione appare discosta, in controtendenza, perciò da riferire, in linea con quello dei pochi poeti di più spiccato interesse, ad un impegno letterario e culturale che interdice qualunque gregarietà, o marginalità, o rassegnata diminutio ideologica e funzionale della scrittura poetica.

Ma lungo tutto il corso delle sue opere le seduzioni del postmoderno sono scansate e un’eredità delle avanguardie di seconda generazione viene raccolta, sebbene essa sia reinvestita in una sperimentazione del linguaggio che non cede a oltranzismi di sorta e tiene ferma comunque, nel testo, la necessità di una dicibilità e l’orientamento alla comunicabilità. A cominciare già dalla Polena (1984), una delle prime raccolte.

Qui si offrono squarci paesistici, colori, climi, atmosfere, ricordi, premesse e promesse di eventi, agganci analogici per i quali si è detto, e opportunamente, di mediterraneità e si è evocato, ancora opportunamente, lo spazio autoriale aperto ai luoghi e ai tempi della memoria; sennonché comprendere a pieno il disegno semantico sotteso alla tessitura della Polena è possibile soltanto quando si presti l’attenzione dovuta ad una clausola di Intermezzo, una sua sezione che ha un nome evidentemente musicale. Vi è detto: «So anche che non esisti / sono io / Euridice e/o Orfeo / creatura demente nutrita di me. / Euridiceorfèo, io». L’introiezione del mitico cantore, simbolo della poesia, e il sinolo che si stringe nel momento stesso in cui Euridice lo assume in sé come riaccostando le due metà separate di Ermafrodito, suggeriscono senza ombra di dubbi una riappropriazione intera (senza modalità di genere eterodirette) della scrittura in versi e suppongono una assunzione di responsabilità, nel segno del femminismo, che staglia e qualifica la poetica dell’io che dice (e il femminismo, sia pure in un’accezione che sarebbe stata specificata nell’Appendice improbabile in limine al libro riassuntivo di cui stiamo trattando, riemerge spesso, almeno per evenienze indiziarie, lungo tutta la sequenza delle plaquettes negli anni pubblicate). La ricomposizione, tanto più perché è specchiata nella logica altra della follia, ovvero nelle simmetrie apparentemente alogiche del sogno e della poesia, innesca inoltre un effetto ulteriore, che poi si espande, con inizio dalla Polena, a caratterizzare semanticamente la scrittura. Come Euridice Orfeo, l’io infatti si trova il tu, ovvero l’altro da sé, talmente vicino, da non essere più distinguibile dall’io; e questa compenetrazione fa sì che tutto si accosti a tutto, soggetto a oggetto, percipiente a percepito in una collosità che la logica simmetrica propria della poesia incrementa. Atmosfere, climi, ricordi, paesaggi, stagioni, soli e notti mediterranei scorrono così, tra sdoppiamenti e raddoppiamenti, sull’impulso di uno stile ispirato al contatto, in una giunzione e in un rimescolamento di carte e di cose e di visure (in qualcosa di analogo al flusso di coscienza), che procurano bruschi passaggi, e generano cortocircuiti, e sprigionano le energie di una retorica che deborda accendendosi di metafore. E l’io, per troppa espansione e per l’infittirsi del contatto che lo intasa e lo travolge, esplode. Nella Polena antiliricamente l’io cede, arretra e di fatto perde il suo dominio.

Le premesse e le promesse sono pronunciate dalla collosità ad alto peso specifico di una scrittura che completa la sua uscita dal genere della poesia lirica; e queste premesse hanno una loro esecuzione e queste promesse sono mantenute allorché la trama del linguaggio, con interventi in primo luogo sul lessico e poi sulla disposizione sintattica, viene sfibrata, slabbrata, sfilata. Il prefisso della sibilante che comporta l’inversione del significato della base lemmatica, ed ha valore di negazione, è spesso adoperato da Luciana Gravina per forme verbali e sostantivali anche ben al di là degli usi normati, talora con evidenti risultanze neologistiche: s-radica, s-larga sono verbi (normati, certamente) che possono compendiare le scalfitture, gli scavi e con essi la prassi di negazione del consueto e del convenuto in vista di un reinvestimento sperimentale, in questi Percorsi poetici, per una nuova produttività di senso. Per certo è dato il via ad un trattamento che, nel rispetto di una partitura del testo delegata a mansioni di ordinamento, sommuove la lingua, la dissoda, induce nella sua densità crolli carsici, pertugia qua e là inghiottitoi. E allarga la scissura tra segno e cosa, tra significante e significato dove si impianta la ricerca del testo tra senso e silenzio e riparte l’avventura della poesia verso altri più ricchi territori di esperienza e di conoscenza: «Ancora metto a solco parole tra la cosa e il pensiero. Il suo di pensiero, dico, della cosa quando la parola avviene nel grido stretto della fronte e il cerchio è un oscuro riferimento e il nulla è così nudo da prenderlo per mano e la voce anche solo pensato lo stana. Ancora il broncio dell’enigma dileggia e deride se l’incompiuto si attarda nella fessura stretta dove la parola si difende inconsapevole. Ancora. Lo spostamento libera il senso investiga testardo proprio lì dove muto, mu, il buio si finge nulla e si ritrae. Ancora passiona di sé la parola e accartoccia la pagina straniata e altrove la intelaia d’incontenibile effrazione».       

    

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