Postfazione
L’eresia
dell’eros
Francesco D’Episcopo
Romanzo
sicuramente eretico è questo che Luciana Gravina ha scritto e che ho avuto modo
personalmente di presentare nel castello Palamolla di Torraca, suggestivo paese
cilentano che guarda il mare di Sapri e la cui storia attende ancora di essere
integralmente riscoperta e riconsiderata. La famiglia della Gravina affonda le
sue radici in questo bel paese, che lei quindi conosce da sempre, dove ha casa
principalmente estiva; il che giustifica la conoscenza di posti e, in
particolare, di un dialetto, a lei familiare, che mette in bocca ai suoi
personaggi.
Due
sacerdoti, il primo povero, Don Biagio; il secondo nobile, il Barone Giovan
Giacomo, detto il Palemonio, della famiglia dei Palamolla; il primo, destinato
a restare parroco del paese; il secondo, proiettato verso un futuro di vescovo,
anche se in una landa solitaria e selvaggia del nostro Sud. E tutto il romanzo
ruota intorno a questo ultimo evento, che chiama in causa le alte sfere
religiose della capitale, con una serie di intrighi e interferenze di notevole
momento. La Gravina ha così modo di dare ampia e articolata testimonianza di
due delle sue patrie di vita e letteratura: Torraca e Roma, la città in cui
vive.
Conosco
Luciana Gravina da molti anni, quando viveva nella Lucania marina. Era una
delle poetesse più alternative e avvertite nella sperimentalità di una parola
avida e ardente, ma sempre consapevole e controllata nella strutturalità di un
discorso poetico, aperto ad accogliere le istanze più avanzate e talvolta
controverse del dibattito letterario contemporaneo.
Perché
dico questo? Perché sono convinto che la nostra monade umana sia molto più
compatta e coerente di quanto possa superficialmente sembrare e che sia quindi
naturalmente, direi quasi biologicamente, indotta a riprodurre fedelmente ciò
che si cela nei segreti del nostro essere più intimo e intenso. Questo accade,
anche e soprattutto, a chi scrive poesia, prosa, che più degli altri è esposto
a questo processo di espressione ed evidenziazione del proprio essere.
Ed è
quanto accade, con estrema naturalezza, in questo romanzo, fondamentalmente
eretico, perché eretica, nel senso generale che si è tentato di spiegare, è la
sua autrice, rispetto a convenzioni e simulazioni di una storia, che la cronaca
è costretta a tradire o, forse più semplicemente, a far rientrare nell’alveo,
sempre vincente, di una natura, che reclama i suoi diritti più elementari ed
essenziali.
Ma il
discorso è più complesso, perché investe la vita dei due amici sacerdoti, i
quali sono venuti inevitabilmente meno alla inflessibile regola della castità,
proclamata dalla Chiesa in uno dei periodi più tormentati della sua storia, ma,
come se non bastasse, sono attraversati da inquietudini teologiche di notevole
spessore speculativo, che rilanciano, ad esempio, il controverso rapporto tra
cristianesimo e ermetismo di Trimegisto, sulla scia di libri proibiti, che i due amici cercano e
leggono per dare sfogo a domande, destinate a rimanere senza risposta. In
realtà, la loro scelta di farsi preti, come spesso accadeva in quel tempo, non
era il risultato di una vocazione autentica ma di una costrizione familiare,
necessariamente destinata a provocare irreversibili pulsioni fisiche e
psicologiche. La costrizione è sempre una violenza della volontà, la quale è
costretta a inventarsi altre strade, altri percorsi di vita e cultura. E
l’autrice si rivela, in questo, pienamente sodale dell’inquietudine creativa e
critica dei suoi personaggi, i quali sono chiamati ad elaborare una sorta di
esperienza surrettizia a quella ufficialmente proclamata e rappresentata sulla
scena della storia e della cronaca.
Merita,
in tal senso, di essere evidenziato, quale elemento fortemente verosimile,
l’interesse speculativo, in chiave non solo nazionale, ma europea, di un Sud,
apparentemente abitato solo da villici primitivi e analfabeti. In realtà Don
Biagio e il Barone Giovan Giacomo dimostrano che in questo luogo appartato del
Sud si svolgevano conversari e dibattiti di alto livello culturale, ispirati,
come spesso è accaduto da noi, da inoppugnabili elementi di intelligenza e
ironia nei confronti del potere costituito.
E qui
l’autrice ha modo di esprimere il meglio di se stessa, dando piena ragione
all’efficacia esemplare di un titolo, che avrebbe altrimenti rischiato di
apparire del tutto ermetico. Da un lato, infatti, ci sono i <<libri
proibiti>>, dall’altro, ma non molto distanti, ci sono le
<<ginestre>>, fiori selvaggi e carnali, che fioriscono dove il seme
li porta ed hanno bisogno di poco, quasi di nulla, per sopravvivere, ma di
molto, per amare ed essere amate. Le ginestre della Gravina sono i fiori solari
della libertà e felicità, che la natura sa regalare a chi l’asseconda nelle sue
invocazioni più autentiche e assolute, come quella Filomena, anch’essa fiore
selvaggio e carnale di un Sud, che continua ad accendersi quando il sole batte
forte e la frenesia del corpo si congiunge a quello di una mente, mai paga, ma
sempre volta a frequentare territori inediti e imprevisti, come quelli che ricordano
Torraca e conducono lungo le alte vie dei briganti e degli eroici martiri di
Sapri.
C’è,
insomma, un furor segreto, assai
simile a quello che portò Giordano Bruno ad essere arso vivo a Roma, a Campo
dei Fiori, e che trasmigrerà nelle geniali visioni di Telesio e Campanella, non
a caso richiamati nel romanzo, che guida le umane vicende e che si contrappone
alla fredda e rigida ragione del secolo che verrà. Peccato che talvolta i
secoli interrompano il loro corso, per tornare indietro o andare avanti, dipende,
perdendo, comunque, per non dire sciupando, l’energia faticosamente accumulata
nel loro procedere storico. Giambattista Vico questo l’avrebbe lucidamente
capito, rilanciando il tema di una ricorrenza e ripetitività, destinate ad
imbrigliare la storia in incerti e, appunto, inquieti paradigmi.
Contro
tutto ciò lottano i personaggi della Gravina, come la loro autrice, impegnati a
inventarsi un presente e un futuro davvero consoni alle loro umane e
intellettuali istanze più autentiche. Solo così, del resto, il profumo
alternativo dei libri potrà congiungersi con quello, davvero stordente, delle
ginestre, fiori di campo che rifiutano le serre…
*Il
testo riproduce, in sintesi, il testo della presentazione del romanzo, tenuta a
braccio nel Castello Palamolla di Torraca, il 24 luglio 2017.