venerdì 15 ottobre 2010

Poesia

Inedito

Spiralitudine

In principio fu dessa, l’archimedea, coi raggi tutti
pari, pari, uguali di misura che a chiocciola si pose, o
a rosa, figliata femmina all’enigma della luce che
s’abbatte e sbatte alla polifonia di equivoci contesti
annicchiata nell’aura della parola e nel suono. Strafilata.
Ora che l’epigenesi in corpo s’atteggia a epifania
salvifica, attraccata all’afona curva rossa
del rame, alla rosa rosea (di rame roseo
ovviamente), alla voluta bionda dell’ottone,
alla corniola sigillata allo iato abissale.


Avessi visto. Cosicché
dondolandosi e inusuale godendolo il cerchio
(dico di avvedute infrazioni) lo traessi
del nuovo dal mio fianco, oltre che dalla testa, come
adamo da eva, come il sole dalla luna, sovvertendolo
l’ordine sterile ormai, perché a spirale mosso,
in vortice traverso alitare di vita, ipsiare
di se stessa, attorcersi a nuovo.
Qui Moebius non c’entra, non scorre, non
shechera colori, non dimostra che. Se ne sta,
sapendolo, annicchiata e quasi modesta
nelle sue curve di rame un po’brunito, quel
tanto fatto apposta in combutta con
l’umido, con l’aria, con l’ossigeno che scruta e
scura e muffa tutto e scansa la logaritmica
di infinita vita in sé risorgente toujours (eadem)
tra alfa (mutata) e omega (resurgo).

Potesse,
per quel dentro in me, per l’io che ordina e
travolge, per il corpo che nella parola avviene
e si concede, per il sé che il verbum
contraddice, potesse lo scarto ricorrente del
fiato superstite, disseminato nelle cose e l’ordine,
annientare, se l’esilio dell’io libero, appunto, è
la norma e non c’è tu che tenga perché è
l’ordine che sfalsa e sfasa, guadare l’avventura
rimanentente anche se a norma il fout) (ricondurre
ogni clamore e morirlo questo élan bergsoniano
(se appena è possible) ricompattarlo il caos
e vivirlo.

Ora che ad ogni mot avviene
la parola come legge presunta, ora dilatarlo ogni
senso caduto dentro il me che in me si contraddice e
il biguo e il triguo e il multiforme milliguo, per
ipotesi ammettendo che qui si puote, dentro
la parola affabulata di seduzione gioca. Qui mi
sevince il vitruviano (l’uom/a), ovviamente, che
di maschio o femmina quivi non licet, ma
uomidonne che, sperimetrati, affondano di
morte, magari piccola e vanno via che non è
qui che il quidlibet li broglia e li travolge. L’io
mio mi riconduce e a mano mi draga per questo
giro morbido a spirale, se di rame, se di cuivre, e,
volendo, anche di ottone e d’argento. Cosicché,
trovatala, ad hora quasi tarda, mi passiona.

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