lunedì 6 giugno 2011

Luciana Gravina, L'infinito presente, AltrEdizioni, Casa Editrice, 2011

Un testo da L'infinito presente

Percezioni

Hic proprio qui dove l’inizio e la fine squiquano e sfinano,

spersi. Qui a inizio e fine sdentrati avviene d’essere a

illusione di infinito e a non luogo, perciò fermi ci

smottiamo a percorrere l’universo: di pensiero, dico. Hic

dove la vita avviene. Nunc, proprio ora dove il tempo si

addensa in percezione e in globuli di fibre rimanda per

l’enèrgheia, il flusso permanente e più volte inconnu,

irrisolto, sdragato.


Fu quando mi

sedusse la luce come un fiume di sabbia luminosa a discesa

e a cascata dietro le palpebre e ancora mi inonda infilandosi

al petto, nel chakra cosiddetto del cardias. E io spietata

nella mia incredulezza a spiarlo dubbiosa questo fiume,

questa dilagazione di luce multicroma che ad apertura di

chakra, appunto, ogni volta avviene a palpebra chiusa e se

aperta mi si attacca alle mani, ai palmi e ai bordi.


Cosicché è l’io che attracca sfrantato e si addimora nel

contorno di liquido sfocato che si sdrama alle mani, ai

palmi appunto.

Una volta fu di bellezza, finesse, lo spirito voglio

dire e talvolta quasi a sfida di geometrie. O di entrambi,

ancipite insomma.


Transeunte,

passeggero, caduco, come suol dirsi, mi pare ora, nunc,

appunto, ma allora apparvemi il tutto, l’essenza, la pienezza,

non il refolo dell’hic, di quando il tempo prigioniero

si cammina dimidiato tra passato e futuro.

Avessi spersuaso l’occhio alla

crudezza eunte del biondo capello, della sottigliezza al

fianco esperta, strafilata sul nunc. Avessi di sradicata

pietà delle pietre nei profili delle fiaccole dove

l’ultimo rosso si assiepava, sulla siepe, appunto, di

frastagliate compiutezze credute totali, del ventre annidato

tra le pupille sazie, tra i sorrisi degli incubi, avessi

stramato appena la dicotomia triplice del tempo così

inconcluso tra passato e presente spesso anche a futuro

orbitato se in fantasma la mente si metteva a sogno.


L’avessi appunto

auscultato questo concerto n.21, Mozart permettendo, non

con le auricole fisiche sotto le mani e a vedersi anche per

occhi, ma con la pelle per vibrazioni convenute a

velocità non intercettabili, a vibrare, appunto, in tutti i pori,

dico tutti, dilatati per la spietata penetrazione a

sussulto estorto dalla testa alle ultime estremità nel corpo

dilaniato a percezione dal fondo, e funditus, per

incontrollabili deliri.


Lo avessi

auscultato, appunto, attraverso la pelle. Ma io,

maintenant, io a credere che l’esprit fosse appunto de finesse, al

limite, de geometrie, magari entrambi per una testa ancipite,

come già, bel viso, anche, d’una compiutezza, così mi

sembrava, ou tous se tenait, dove la svasatura del rischio sotto

controllo si glissasse egli medesimo sine cura.


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