vi posto anche la presentazione che ho fatto presso Alef di questo delizioso volume di narrativa di Cetta Petrollo.
Con questo nuovo lavoro Cetta Petrollo continua a
proporre la qualità di una ricerca narratoriale che è esistenziale e
linguistica e che parte da lontano. Comincia infatti già in quel Senza permesso di soggiorno che inaugurava coraggiosamente uno
strano linguaggio, quello della badante extracomunitaria, linguaggio riproposto
poi in Salto della corda, attraverso
il recupero di un’epoca della propria esistenza.
Mi
sembrava che l’orizzonte di senso del percorso memoriale messo in essere da
quella scrittura consistesse in una progressiva autointerpretazione e
autodefinizione esistenziale.
Nel senso che, la ricerca, esperita attraverso la
formatività della parola che mette in codice la memoria, mirasse non tanto a
consegnare l’esperienza al lettore, trovandoci in realtà davanti a un lettore
più in fabula che in causa, quanto ad appropriarsi della esperienza in
questione in virtù della specularità realtà/letteratura.
A partire dal titolo Il salto della corda,
portatore, come buona parte
dei titoli, di enigma, che si
chiarisce progressivamente nello
sviluppo del testo.
In questo nuovo lavoro mi pare che l’impianto
retorico abbia un balzo, una chiara apertura intenzionale, sia per quanto
riguarda il genere, sia per quanto riguarda l’interlocutore/lettore. Già nel
titolo.
Te racconto
così enuncia un tu nel quale il lettore si sente immediatamente coinvolto, anche se
poi vedremo che questo tu è rivolto ad altro o anche ad altro. Significa che il processo di seduzione
del lettore da parte del testo comincia con una stoccata di faccia, e poi “chi ha coraggio mi segua”.
(Quando parlo di seduzione del testo alludo alla
definizione che ne ha dato Roland Barthes “Le
texte que vous ècrivez doit me donner la peuvre qu’il me desire. Cette peuvre
existe: c’est l’écriture. L’écriture est ceci: la science des jouissances du
language, son kãmãsutra (de cette science, il n’y a qu’un traité: l’écriture
elle-même)”. (Il testo che voi scrivete deve darmi la prova che mi desidera.
Questa prova esiste: è la scrittura. La scrittura è questo: la scienza del
godimento del linguaggio, il suo kamasutra (di questa scienza non v’è che un
trattato: la scrittura ella stessa.)”
Tornando al titolo, Te la racconto così, rinveniamo subito un altro enunciato
importante: il genere letterario, il racconto.
E perché l’autrice sente il bisogno di enunciarlo?
Perché non si tratta di un libro di racconti costruiti secondo teoria, per
esempio con un incipit, un corpus, un finale che lo metta in tondo, l’azione,
il protagonista, i personaggi minori, l’attenzione ai tempi. No.
Qui, tutto il libro è un racconto con i suoi tempi
impertinenti che non rispettano le ore e le stagioni, ma tuttavia le
descrivono, spesso evocandole, con due protagoniste che non hanno nome, perché
non ce n’è bisogno, talmente sono individuabili, con questa interlocutrice che
sembra stare in sottofondo ma poi di tanto in tanto all’improvviso con un’abile
zoommata balza in primo piano.
E il tutto è dentro una megametafora, come avvolto in
un velo trasparente.
Perché questo racconto è raccontato così (ed è questa l’altra indicazione
del titolo Te la racconto così), come
si sono sempre raccontati gli uomini: dai dipinti sulle pareti delle caverne,
ai clips delle webcam, gli uomini hanno fissato il sé e il fuori da sé nel
grande corpus della produzione di senso che è alla base della civiltà umana.
Ora, mentre il raccontare è un bisogno primordiale, il come, se è legato al processo estetico, non origina da una funzione ragionante: “è affare di libertà” direbbe Pareyson.
Ora, mentre il raccontare è un bisogno primordiale, il come, se è legato al processo estetico, non origina da una funzione ragionante: “è affare di libertà” direbbe Pareyson.
Ma non è neanche arbitrio.
E il Così enuncia
la modalità della produzione testuale, che quindi non è semplicismo o ignoranza
o inadempienza della norma.
La scrittrice sa bene che qualunque scrittura è un
gioco normato e lei le regole le conosce così bene che può proporre le proprie.
(Quando so esattamente come si fa, posso
anche deviare)
Mi sembra, che questo titolo così aperto e che, per
dirla con Greimas, è un “débrayage enunciazionale”, abbia alle spalle una
narratrice che “costruendo il discorso, si mette in discorso” (Marsciani).
E così ho guardato al testo in questione nell’ottica
di questa strategia narrativa.
La fluidità
di questa scrittura esprime lo sguardo leggero, ma non superficiale, con cui
l’autrice si imbarca nelle vicende della vita e osserva il mondo.
Sembra buttata giù di getto e invece è molto
costruita, molto scritta, pur nella sua cifra veloce, scorrevole, colloquiale,
che sembra davvero impensata nel senso che non appare il frutto di un lungo
cogitare, e il che può essere, perché non sappiamo quanto a lungo queste
scritture abbiano parcheggiato e sonnecchiato nel retropensiero.
E’ dentro questo andamento espressivo, provocatorio e
divertente, gioioso e a volte anche
attraversato da una sottile e appena percettibile malinconia, che questa
scrittura sembra brillare di luce propria perché ha le sue regole, dove il
pronome relativo non ci pensa
proprio a declinarsi, alla faccia di tutte le grammatiche, e gli accapo muovono
il testo come una poesia, dove le cose e le sensazioni minime, che sembravano
dimenticate, tornano in superficie immaginifiche ed emozionali.
Proprio dentro questa jouissance si snodano le storie che molte volte nel testo sono
definite anche favole. E lo sono perché spesso si concludono con la battuta spiazzante, proprio come si
conviene alla favole ed è ciò che la differenzia dalla fiaba che non ha la
morale.
E ovviamente la Favolissima è quella della propria
vita, della propria nascita nell’anno 1950, quello dell’Anno Santo e degli
antibiotici, un ricordo capace di situarsi anche prima della nascita, nella
pancia della mamma di cui la foto sotto il muro.
Riporto appunto da Favolissima, a pag 60 “…gli uomini sono come le favole, uno simile
all’altro non ce n’è, e la favola che si conosce meglio è la propria anche se è
senza conclusione che la vedi intanto che la racconti e più tempo passi a
raccontarla e più la vedi.” Mi
sembra l’appropriazione della propria vita attraverso il raccontare: come è
anche a pag 104 “…ecco la nostra favola
sarà diversa e la potremo raccontare solo noi e nessuno ci potrà scippare la nostra vita anche se intorno
si affollano giocatori in età.”
Una nota costante di questo testo è il rapporto con
l’interlocutore che prevede il vezzo di definirlo solo in parte, per lasciare
aperto lo spazio dell’immaginazione. E’ comunque un dialogo ininterrotto.
Io ho immaginato che fosse una bambina (la figlia? la
generazione giovane?) che si apre alla vita e che l’autrice conduce alla
scoperta dei misteri della vita, appunto, non i misteri dei massimi sistemi,
bensì quelli della vita quotidiana e l’autrice è convinta che passarle un po’
della sua esperienza infantile e adolescenziale possa darle degli strumenti in
più per orientarsi. E quindi spesso il racconto si scioglie in consigli,
raccomandazioni.
Ma, come ho già detto in apertura, immagino che
l’interlocutore sia metaforicamente il lettore.
E’ la struttura retorica che tiene fino in fondo.
Un racconto interessante è sicuramente “Mogli”. Ci sono racconti brevissimi di poche parole, ma che
contengono in sé un tempo lunghissimo, come per esempio quel famoso racconto
brevissimo di Augusto Monterroso “Quando
despertò el dinosaurio todavia estava allì” che in sette parole allude ad
tempo lunghissimo. Ebbene, c’è una frase di questo racconto di Cetta Petrollo che
per me ha la medesima forza espressiva. “Una
volta le badanti si chiamavano mogli”.(pag.42) Dentro c’è un tempo lunghissimo
che è quello del femminismo, che comincia dalle mogli e arriva alle badanti.
C’è tutto il femminismo, dentro.
L’autrice è sicuramente esperta della tecnica della cumulatio, una figura retorica adoperata
da sempre dagli scrittori, una elencazione di cose o luoghi e fatti in sequenza
e in questo testo, proprio per l’autonomia espressiva rivendicata dall’autrice,
è rigorosamente senza le virgole, e che nel contesto assume una funzione
informativo/ evocativa di effetto.
Dunque, tanti racconti o storie o favole, piccoli, a
volte cortissimi e sorprendenti: un mosaico dalle tessere luminose e
trasparenti che ci riportano a un tempo recente, ma che sarebbe
irrimediabilmente perso, se non ci fossero i libri come questo di Cetta
Petrollo a inchiodarli nella memoria.
Cosicché, il così
del titolo si definisce anche in questo modo garbato, leggero, veloce,
colloquiale, antigrammaticale libero, di una libertà fortemente voluta, con cui
ci vengono consegnati fatti, persone, oggetti, emozioni, pensieri, riflessioni:
Procida, Amanti, Maria Concetta, Caffè, Il gelato, Favolissima, Sorelle,
Vecchiaia e Come mi piace raccontare. Sono soltanto alcuni titoli dei numerosi
racconti di cui è costituito il volume.
Giustamente nella postfazione della Sgavicchia è
stato indicato in questo narrare l’arte della gioia, ma se è vero, come è vero,
che “scrivere è essere”, l’arte della gioia è anche nel vivere e nell’essere di
questa feconda narratrice. E di ciò è portatrice questa scrittura, oltre che di
cultura e di intellettualità. Questa scrittura così femmina, piuttosto che
femminista.
Luciana Gravina