Nella tradizione poetica italiana il canto lirico è assolutamente predominante, malgrado l’exemplum magnum del Dante della Commedia. La speculare (e dolcemente aggressiva) esperienza di Petrarca lo depotenzia e si afferma rapidamente come egemone. Dal cantore di Laura al Novecento più immediatamente prossimo la linea della forma-pathos è vincente, e le ragioni, schematicamente dette, possono essere queste: maggior immediatezza vs oscurità allegorica; minore problematicità e più intenta esplorazione del proprio vissuto; più acuta inclinazione al ripiegamento su di sé come privatissima e munita totalità; illusione che i Sentimenti siano eterni, quindi più poeticamente legittimi di un’attenzione alle cose del mondo e del collettivo con relativo ingaggio nelle contraddizioni della storia; pretesa purezza del monolinguismo rispetto al plurilinguismo mescidato anche coi gerghi: insomma, alle corte, Spiritualismo contro Materialismo. Di conseguenza, ai danni della linea “dantesca”, una secolare politica culturale dettata dall’ufficialità, fino ai nostri giorni, con messa ai margini (antologie scolastiche e non, università, ecc.) dei poeti più scomodi, più critici verso il mondo e il linguaggio. “La poesia è ben altro che voltolarsi nelle melodie” dice Auden.
Esempi ancor oggi incandescenti, che costituiscono
scandalo, continuano a darsi con imperterrita impudenza. Tra gli altri: figure
della statura di Emilio Villa e Edoardo Cacciatore, regolarmente esclusi dal
pantheon conclamato – (si veda l’abietta antologia Meridiani (ristampa aggiornata) di Cucchi e Giovanardi).
C’è un provincialismo mafioso della cultura italiana che
non si decide a morire, e anzi continua a celebrare i propri fasti funerei
nelle sedi più accreditate del conformismo nazionale. Eppure, in questa triste
Italia delle combriccole e degli scambi di favori, non mancano voci ben
caratterizzate, di forte caratura antilirica e antipatetica.
Quella di Luciana Gravina, ad esempio, mi interessa e mi
convince, per molti versi e varie
ragioni: perché non canta, ma tratta la questione del linguaggio con la necessaria
consapevolezza (anche filosofica): si vedano i due esergo che aprono il suo
libro, da Genette e Neruda: segni in lei di lucida consapevolezza anche teorica
dell’agire poetico.
La sua voce parla – e parla sempre d’altro, perché
non crede all’immediatezza, e nutre una totale sfiducia nei confronti del
pathos di primo grado, che si giustificherebbe poeticamente solo in virtù della
propria sincerità, spontaneità, ecc.
Gravina sa che la parola poetica mente (Pessoa,
Manganelli), in quanto costruzione artificiale che non dice ma rivela
invariabilmente un enigma linguistico: e l’enigma è nella novità
dell’invenzione. Si ricordi, quindi, in proposito, il termine priem (artificio, in russo) caro ai
grandi formalisti russi degli anni Dieci/Venti del ‘900: Sklovskij, Jakobson,
Tynianov, alle cui scoperte non hanno mai cessato di guardare le esperienze di
punta del secondo Novecento.
Gravina è una tessitrice, e il suo telaio è
costituito da una paratassi accentuata.
Tutto il suo libro si configura non in momenti
staccati riuniti poi in un assemblaggio volontaristico, ma piuttosto come
partitura sistematica, da piccolo poema in cui la scissione dell’io trova un
possibile risarcimento nell’ordine della musica e nella carica visiva dei
colori. La contrapposizione dialettica è allora, appunto, tra il caos dell’ES e
la musica, non in quanto evasione sonora ma in quanto insieme organizzato di
strutture.
Lo dice con chiarezza Natale Antonio Rossi, in un
passaggio della sua intelligente prefazione: “In realtà, il problema che si
pone in questo testo è che il linguaggio di cui è fatto, con cui è costruito (e null’altro esiste sul testo, neppure
il suo profumo) non è tanto espressione
dell’essere, quanto forma dell’essere,
comprendendo anche la forte componente del dato esistenziale”.
La struttura del libro mira quindi a un organismo
poematico, e la lingua vi si muove liberamente, nell’arco della scissura
permanente del sé in rapporto speculare-dialettico con l’altro: “io sdoppiata e
a raddoppio, speculare di me, testimoniale del tu / (altra me) a cui tendendo…”
Ma specialmente significativo a me pare il poemetto
in XXVII movimenti che si intitola “Agogica dei verbi” (variazioni) – con
quegli attacchi perentoriamente esortativi, quasi a comando: a se stessa o a un
interlocutore/trice da immaginarsi fisicamente prossimo/a, con una serie di
torsioni che verbalizzano il sostantivo (in un effetto di forte energia
espressionistica): “E tu sradica.
Smonta l’azzeramento, ora che nel vento s’è persa / tutta l’eco possibile del
tuo risibile / fantasiare o poesiare e lampi a guizzare / nella stagione
rovente, oscillante per colpa e/o innocenza / e trappole nell’aria e la terra
di insidie e congiunture”.
Tutto il linguaggio di M’attondo il giorno ha movenze contratte e spastiche, dentro la
griglia di una versificazione prevalentemente ipèrmetra, da discussione o da
polemica, con inclinazioni teorico-filosofiche: nella deformezza della norma, come si legge a pag. 23 (“E tu sregola. Rieditare la pratica del
vuoto per colmazione dello iato, / fosse questa la destituzione dei vati (delle
cosiddette certezze) / la contezza dell’ironia, la follia intermittente, la
rinnovata ambiguità / di uno scenario sacrificale, graziosa deformezza della
norma”).
E allora, ecco che la scrittura quasi si svelle da
se stessa, e trova nuove forme neologistiche di indubbia efficacia straniante: brividare flautare oboare suitare (pag.
25).
La musica come strappo percussivo e straniante, non
come carezza per la psiche scissa. Non c’è l’abisso, ma l’abissità, c’è la qualunquità:
in una sorta di riappropriazione sotto specie di categoria filosofica delle
parole più trite. E’ anche in questa rottura degli steccati grammaticali,
sintattici e semantici (nella loro alterazione costante e nel loro continuo
mutamento di ruolo all’interno di una consecutio
terremotata) che sta la particolare significanza di questa scrittura: una
scrittura – per dirla con Pagliarani – “senza carità di se stessa” (v. pag. 64,
Rosso cavallo: un ricordo-omaggio a Rosso corpo lingua del poeta de La ragazza Carla).
La poesia di Gravina, pure carica di sensualità e di
memorie, di corporeità e di vibrazioni interiori, è soprattutto interessata a
“spraticare la norma”: e in questo progetto riposa la lucidità del suo gesto.
Il groviglio del mondo, la tragica pantomima del
cosiddetto reale si definiscono,
così, soltanto nella precisione e nella durezza di una scrittura poetica molto
scolpita, che funziona come giudizio impavido sul vivere e sullo scrivere,
sul senso (sempre estremamente precario, labile, incerto: forse inverificabile)
che il primo ha in rapporto al secondo: e che tutti i poeti sono condannati a
perseguire senza mai toccarne il cuore, che non c’è.
In un testo come “M’attondo il giorno”, che dà
titolo all’intero libro, si attua una tecnica di bel conio allegorico di
sistemazione e di controllo del piccolo caos quotidiano. La serie dei “Sonetti
imperfetti del mio nome” (pagg. 38-44) funziona brillantemente a mo’ di
acrostico allentato. Così, il dis-essere
e la furia esistenziale che attraversano questa poesia a suo modo catastrofica
– ma catafratta per consapevolezza di tono e di accento - ne fanno un esempio
significativo di scrittura poetica problematica. Una poesia sliricata, insomma,
che si fonda sempre su lucide capacità retoriche e non si sofferma mai a
rimirarsi nella lastra inattendibile del proprio narcisismo.
Mario Lunetta
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