martedì 18 febbraio 2014

Prefazione di Raffaele Nigro al mio libro di poesia La Polena del 1986

Certamente lo conoscete. Raffaele Nigro è uno dei maggiori intellettuali meridionali. Lucano di origine, vive a Bari. E' giornalista e autore di numerosi romanzi, oltre che di opere di poesia, pieces teatrali e saggi.
Ciao, Raffaele.

Un'atmosfera tragica e angosciata lega questa serie di frammenti all'esperienza sentimentale e letteraria dei lirici greci.
Il vento disperato che spira nella voce di Saffo sembra filtrare nell'espressione poetica di Luciana Gravina, come per richiami di creature solitarie, condannate a guardare la plaga del mondo da isolati pinnacoli , rocce emergenti dalle nebbie di un'Ade senza speranze.
E' fin troppo facile il rinvio all'esperienza drammatica di Isabella Morra, autrice e donna sconsolata, tramite e legamento di queste voci lontane tra loro nello spazio e nel tempo, ma così vicine nell'evocazione e nell'ansia di esorcismo della disperazione. Questo clamare in deserto è il modulo più convincente del libro (protasi, intermezzo), che è denso di atmosfere ad alto contenuto emotivo. Gli occhi della polena, occhi di legno, sono gettati sulle onde, cercano nel fondo e nel cerchio dell'orizzonte, secondo il compito che è stato imposto loro di leggere per primi le mete, le distanze, scrutare i fondali sabbiosi e i pericoli delle scogliere. La polena qui mi pare il simbolo dell'avventura umana, speranza di uomini in cerca di terraferma, di acque e di fortuna, ma la sua bocca di legno o di metallo dice parole alle brezze. Condannata a sperimentare la vita, in solitudine, questa polena è bocca inascoltata, e si sfogherà con le onde, con la superficie del mare, col vento, in attesa che un fiato umano la consoli, perché la parola lenisce, attenua le sconfitte. Il libro si riempie di nomi di fiori, di piante; orologi che scandiscono le ore e sottolineano i silenzi, si fa attento ai paesaggi, spazi metafisici e distese interiori, ma invano cerchi creature umane, soggetti ai quali possa ancorarsi la fiducia dell'autrice nella vita, nel consorzio sociale, negli uomini.
L'aridità dei rapporti denuncia anche l'aridità dei sentimenti nella civiltà che la circonda, che la sconvolge e la prostra, siano, "iene e colombe", la vita è un "bivacco", il tempo è "uno sfatto ...di paese  incompiuto". Manca la religiosità e la fiducia di una fede positiva, regna un'atmosfera pagana di nebulosità infernale, una notte senza  speranza di alba, un limbo su cui si è acquattato un cielo afoso, di piombo.
La resa paganeggiante viene sapientemente  determinata da un corredo  immaginifico di ascendenza classica, citazioni di creature e personaggi del mito greco, con una punta massima di fulgurazione lirica in una sorta di eroide inviata a Orfeo da Luciana-Euridice, condannata all'Ade, ma condannata in corpo e spirito, se è vero quanto dichiara "ti scrivo dalla mia carne", e con dentro un pugno di serpenti aggrovigliati, da "baccante demente" che batte "il piede isterico". 
Tuttavia il verso della Gravina non risente in maniere immediata di questo tumulto psicofisico, la resa è meditata, la mediazione della ragione la sottopone a una sorta di contenimento delle reazioni, mi pare che ancora una volta siano le letture classiche a frenarla. Petrarca probabilmente e, tra i più recenti, gli ermetici, l'aiutano a pesare le parole e il verso, fino ad attirarla verso compiaciute cadenze endecasillabiche, verso reperti linguistici desueti, contribuiscono a farle la voce bassa, sussurrante, come di una baccante cieca o di un Edipo che racconta i suoi trascorsi, medita sull'esistenza, ma in un'allucinata e allucinante capacità di contenzione dei tumulti interiori, quasi dietro una maschera, la maschera cieca della tragedia classica. E nella regola di questi maestri, il verso procede, perlopiù per continui legamenti sintattici, talvolta per gusti analogici isolati, perlopiù discorsivo e piano, talvolta irto di puntigliosità e di arroccamenti ermetici, come per una reazione improvvisa all'apertura, all'effusione che ha concesso a se stessa e all'aria, al vento e alle cose e per un imperativo precedente o conseguente che l'ha costretta a trincerarsi "nel bozzolo".


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