mercoledì 11 settembre 2019
venerdì 28 giugno 2019
Il vino della Messa, un mio racconto ambientato nel mio paese al sud.
Il vino della messa di
Un racconto dedicato alla mia infanzia
Un racconto dedicato alla mia infanzia
In tanti anni che don Giovanni diceva
Messa, non lo avevano mai visto così scuro in faccia. Sembrava molto
arrabbiato.
Aveva sceso i tre scalini dell’altare con
il calice coperto dalla tovaglietta bianchissima col bordo di pizzo a
chiacchierino e piegata in tre.
Non aveva guardato come sempre verso la navata centrale e si era velocemente
infilato in sagrestia.
I fedeli si erano alzati in piedi
perplessi e soprattutto meravigliati per quell’ ”Ite missa est” detto con un tono che voleva significare:
“Andatevene, levatevi dai piedi, ho problemi gravi da risolvere”.
Lentamente si erano defilati, mentre le
donne del coro avviavano il Salve Regina
con cui si concludevano le funzioni.
Anche loro avevano notato il malumore del
parroco e avevano fretta di concludere per chiedere, magari proprio a lui, per
sapere, per capire, per vedere se lo avrebbero potuto aiutare.
Cosicché, non appena terminato l’Amen, che
era stato meno lungo del solito, (in verità avevano anche saltato l’ultima
strofa), si erano dirette in fila indiana verso la sagrestia con Caterina in
avanguardia.
Nessuna di loro avrebbe potuto mettere il
piede avanti a Caterina che, era pur vero che era la più anziana, ma,
soprattutto, era la persona le cui mani erano incaricate di preparare i
paramenti sacri per le cerimonie religiose. Soltanto lei poteva lavare e
stirare le tovaglie ricamate dell’altare, spolverare la casula, le stole, il
piviale, il copricalice. Soltanto lei doveva provvedere a procurare il vino
bianco per la messa e riempire all’occorrenza l’ampolla da cui il sacerdote
versava il delicato nettare nel calice e dove, a seguito di magiche benedizioni,
diventava il sangue di Cristo. E da quel calice
don Giovanni lo beveva a ogni Messa. Un bel sorso ristoratore
soprattutto alla Messa mattutina, alla quale si doveva pervenire digiuni dalla
mezzanotte.
Caterina era anche la guida del coro
perché dava il “la”, quando si iniziava a cantare e tutte le voci dovevano
accordarsi alla sua nota iniziale.
Questa sua competenza era un mistero,
perché era sorda come una campana.
Per questo, varcata la soglia del
retroaltare, non percepiva gli urli del prete che dall’altra stanza le chiedeva
ragioni di un cosiffatto delitto:
“Ma come hai potuto farmi questo?”
Aveva capito soltanto quando lui si era
girato rosso paonazzo con l’ampolla del vino in mano.
“Don Giovanni, ma che ho fatto?”
“Questo non è il vino delle signorine Bifano:
è acido, è un aceto schifoso.”
“Ma non è vero, l’ho comprato ieri, lo
sapete che vado personalmente.”
“E tu l’hai assaggiato quando l’hai
comprato?”
“No, ma vi pare che mi metto a bere vino a
casa della gente? Sono una ragazza perbene io.”
“Sì, ragazza…! Vedi tu stessa, annusa per
lo meno, che già all’odore si sente che è disgustoso. Questo non me lo dovevi
fare.”
Caterina, in bilico tra rabbia e
costernazione, aveva afferrato l’ampolla e l’aveva portata al naso.
Effettivamente era aceto di vino bianco e
anche di pessima qualità.
Aveva cercato con lo sguardo, per invocare
un minimo di solidarietà, a una a una le ragazze che ridevano nascondendosi una
dietro l’altra. Niente da fare: con loro avrebbe fatto i conti dopo.
Si era girata verso il prete ergendosi sul
busto e alzando la testa incorniciata da una ricca treccia brizzolata.
“Io sono sicura di aver portato il vino
buono della Messa, ve lo faccio confermare dalla signorine Bifano. Andiamo da
loro. Andiamo tutti.”
“Andiamo” don Giovanni aveva accolto la
sfida e si erano avviati: Caterina avanti, poi lui che ancora si abbottonava la
tonaca nera, e dietro si erano messe Elvira, Maria, Sisina, Gigetta, e le
bambine, Marta, Marcella, Rosetta e Luciana.
All’uscita dalla chiesa li aveva investiti
una densa folata di aria calda che in quel mese di giugno, si sentiva già dal
mattino.
Sul sagrato i ragazzi del Partito
Comunista stavano attaccando i manifesti per il comizio del pomeriggio.
Glieli mettevano proprio sotto il naso
quei delinquenti, acchiappapreti, atei, che si mangiavano i bambini.
Si era già alle seconde elezioni dopo la
proclamazione della Repubblica Italiana del 1948 e l’attrito tra la Democrazia
Cristiana e il Partito Comunista era esponenziale. Fioccavano calunnie da una
parte e dall’altra, dispetti, sguardi torvi, minacce, e pure qualche
scazzottata.
Ma la gente ascoltava don Giovanni che
raccomandava di votare il partito gradito dal Papa e a Nostro Signore. Non si
potevano sbagliare perché si chiamava Cristiana. E così stavano preparando i
vecchietti malati e pure quelli moribondi, coi certificati medici e le sedie per
trasportarli alle urne.
Su costoro i Comunisti non avevano alcun potere
e gli animi si erano infuocati al punto che era successo quello che non avrebbe
mai dovuto succedere.
I comizi avvenivano sulla gradinata della
chiesa e quello del Segretario Provinciale
del PC, avvenuto quattro giorni prima, era stato disturbato da imperterriti
fischi che venivano dalla finestra della Sagrestia.
Erano le bambine del coro, alle quali
avevano impedito di avvicinarsi ai comunisti, intimando che non si muovessero
di là, finché i comunisti non se ne fossero andati via tutti. Ma loro, spinte
dal sacro fuoco della passione civile, avevano manomesso tutte le serrature delle
porte, degli stipi, delle casse e, posizionate in bilico sui panchetti di legno
ad altezza di finestra, si erano messe a fischiare soffiando nei fori delle
chiavi.
Il manipolo nerboruto di giovanotti
barbuti che accompagnava il Segretario Provinciale aveva pensato a una
iniziativa del prete.
Aveva passato il limite questo qui e
bisognava dargli una lezione.
Cosicché si erano appostati di notte sul
ponte della Fontana Vecchia, lo avevano aspettato che tornava a casa e lo
avevano riempito di botte.
Non erano passati molti giorni e don
Giovanni era ancora molto scosso: forse per questo aveva reagito in malo modo
al vino aceto. Forse per questo, girandosi indietro verso le bambine, le aveva
minacciate”. Con voi dobbiamo ancora fare i conti. Sì ridete, ridete, brutte mascalzone:
mi avete fatto prendere un paliatone.”
Marcella, Marta, Rosetta e Luciana avevano
continuato a ridere e a sghignazzare sottovoce, parlandosi nell’orecchio.
Sapevano che non correvano pericoli: don Giovanni era un pezzo di pane. La
campagna elettorale le eccitava e le coinvolgeva: a modo loro, facevano
politica.
Il gruppetto camminava veloce e concitato,
soprattutto curioso della reazione delle sorelle Bifano.
Avevano salito le scale esterne della loro
casa, avevano spinto l’anta del portone in legno e ora cominciavano a salire
per quelle interne.
In quel piccolo paese di circa mille anime
nessuno chiudeva le porte: si entrava e si usciva tranquilli, nessuno rubava,
nessuno perpetrava azioni ai danni dei proprietari e degli abitanti.
L’unica cattiveria erano le chiacchiere
maligne, ma don Giovanni picchiava duro nelle omelie domenicali: “Non
calunniate. E venite a confessarvi.”
Le sorelle Bifano erano arrivate in cucina
una ad una e si erano messe in fila, come davanti al plotone d’esecuzione.
Li aveva accolti Felicia, che era la più
anziana, capelli neri, tinti, raccolti alla sommità della testa in riccioli adagiati
sulla fronte, a nascondere la ricrescita bianca dell’attaccatura.
Li aveva poi raggiunti Ginevra, di qualche
anno più giovane, ma pettinata e vestita come Felicia: sembravano gemelle,
stessa camicetta grigia e piccoli fiori azzurri, gonna grigia, stretta, lunga
al polpaccio, calze pesanti, nonostante il caldo di giugno e scarpe allacciate
con tacco medio, doppio.
Ovviamente zitelle. Si occupavano della
casa e delle vigne.
Itala era emersa subito dopo dalle sue
stanze. Sembrava assonnata, ma era in perfetto ordine. Era bionda (si tingeva
con l’acqua ossigenata), capello corto con permanente riccia, rossetto, smalto
rosso, camicia attillata e gonna a campana stretta in vita. Scarpa dècolletè
con tacco sottile. Calze trasparenti.
Aveva portato a lungo il lutto, tutta a
nero, dalla testa ai piedi per la sua vedovanza. La nave di suo marito,
ammiraglio della Marina Militare Italiana, era stata affondata in un’operazione
di guerra. Aveva vissuto poco il matrimonio e si manteneva magra come una
signorina.
Ma poi aveva osato vestirsi a colori,
contravvenendo alle regole del paese.
Le sorelle avevano approvato e l’avevano
incoraggiata.
Giunta in cucina, aveva salutato e si era
allineata quando già l’ampolla col sedicente vino era nelle mani di Felicia. La
quale l’aveva annusata, si era soffermata a pensare con una leggera smorfia
della bocca e l’aveva passata a Ginevra. Anche lei l’aveva annusata e,
disgustata, l’aveva passata a Itala. La donna aveva aspirato con circospezione,
aveva persino assaggiato un po’. Poi aveva passato l’ampolla a Caterina sentenziando:
“Questo non è il nostro vino”.
“Non è possibile” aveva risposto Caterina,
“perché io l’ho versato dal peretto di tre litri in cui me l’avete dato voi”.
“E’ vero, Caterina non dice bugie,” aveva
sostenuto don Giovanni “Forse si è deteriorato durante la notte.”
“Se pensate questo, ci offendete” aveva
protestato Felicia, “ Il nostro vino non va a male, è il migliore del paese e
vengono anche dai paesi vicini a prenderlo da noi per la Santa Messa.”
“Ti prego, Felicia, qui nessuno vuole
offendere nessuno. Stiamo cercando di capire,” il prete non voleva scatenare
una guerra.
Ginevra aveva le lacrime agli occhi, ma
Felicia difendeva il loro vino bianco a muso duro.
“Lo sapete tutti che le nostre vigne del
Lavanese sono quelle meglio esposte al sole perché l’appezzamento è in pendenza
e poi sapete anche che, quando la vigna è impiantata su terreno roccioso, il
vino è come un miracolo della natura. Se fosse vivo papà che le ha piantate
quelle vigne, ve lo potrebbe spiegare meglio di noi. E che fatica per andare a
comprare i vitigni in Veneto, quando decise di mescolare la Malvasia alla Coda
di Volpe per fare un vino più aromatico, più dolce, proprio perché pensava al
vino della messa.”
In verità le bambine pensavano che quel
vino piaceva a tutti, non solo ai preti e, quando a casa si riusciva a metterne
una bottiglia in tavola, lo facevano assaggiare anche a loro perché era dolce. Non poteva far male.
Felicia fu interrotta nella sua orazione
in difesa del vino da uno scatto di Caterina: “E allora ci devi dire perché sa
di aceto,” aveva detto porgendo di nuovo l’ampolla alla donna che però si era guardata
bene dal prenderla. Il braccio di Caterina era restato a mezz’aria. Poi con
gesto deciso aveva consegnato ampolla e vino nelle mani di don Giovanni: “Io
l’ho versato dal peretto e non so altro”.
Per Caterina il problema finiva lì, con
tanto di mistero, ma lui era disposto ad andare fino in fondo. “Allora andiamo
a controllare il vino del peretto e, se non è buono, ve lo rimando indietro”, aveva
detto alle sorelle Bifano che oramai avevano messo il muso e si mostravano
offese.
A stento li avevano salutati, mentre loro imboccavano
le scale diretti a casa di Caterina dove era conservato il peretto col vino.
Il gruppetto marciava concitato e
riattraversava il paese.
Ormai faceva caldo, e si sudava, e si
sbuffava. Il vociare di quello strano manipolo inondava le strettole ciottolose,
le anguste strade sulle quali si aprivano porte a pianterreno, porcili, legnaie,
e soprattutto cantine odorose di vino, di uva secca, di mosto stantio, di acre aceto.
A quell’ora nelle case c’erano soltanto le
donne anziane e i bambini, e tutti si affacciavano sulle porte incuriositi dal
passaggio di quella gente. Ma poi vedevano il prete e Caterina, riconoscevano
le altre e salutavano con rispetto.
I vecchi erano al sole nella piazza seduti
sui pesùli di pietra.
I giovani erano nelle campagne a prendersi
cura degli ortaggi, ma soprattutto delle vigne. Il paese, infatti, con le case
arroccate una sull’altra intorno alla collina da cui si vedeva il mare, era
dotato di un territorio roccioso, soleggiato, coltivato a vigneti. Quasi tutte
le famiglie ne avevano un pezzetto e facevano il vino: rosso, con uva
Sangiovese e Ciliegiuolo, quello forte che tingeva il bicchiere, e bianco con
Coda di Volpe, che era il vitigno autoctono. Da qualche tempo erano state
introdotte la Malvasia e la Falanghina.
Lo chiamavano il paese del vino: quasi tutti
lo sapevano fare bene.
A casa di Caterina il peretto fu estratto
dal ripostiglio e fu aperto.
Data la singolarità della situazione si
fece eccezione sulla virtù della sobrietà femminile: la padrona di casa prese
bicchieri per tutti e si assaggiò il vino. Maria di nascosto ne rifilò un
sorsetto anche alle bambine.
Si erano sedute attorno al tavolo della
cucina con don Giovanni a capotavola.
Il vino delle sorelle Bifano era
indiscutibilmente buono: il migliore. Non era andato a male e quindi neanche quello
dell’ampolla in chiesa avrebbe potuto.
Dunque il vino dell’ampolla non era quello
delle sorelle Bifano: qualcuno l’aveva sostituito. Qualcuno che, per dispetto
o, peggio, per vendetta, non si era fatto scrupolo di entrare in chiesa di
soppiatto e di manomettere un oggetto sacro, qual era l’ampolla pulita, brillante,
da cui traspariva il vino ambrato dai riflessi caldi e luminosi.
C’era in questo gesto sacrilego un
pertinace volontà di vendetta e don Giovanni, a sentirsene destinatario, era
stato colto da un’angoscia scurissima. Si sentiva in pericolo. Nella sua mente
si affollavano volti di donne e di uomini e lui li passava in rassegna per
capire se esprimevano sentimenti ostili. Ma, a conti fatti, lui non aveva
nemici.
Sulla sostituzione del vino con l’aceto il
mistero diventava sempre più fitto.
Si chiedeva come poteva essere entrato
costui o costei, dal momento che le chiavi della chiesa ce l’avevano soltanto lui
e Caterina? Era pur vero che le porte rimanevano aperte per buona parte della
giornata, ma, tra la preparazione delle funzioni e la rimessa a posto, la
pulizia del pavimento e la disposizione dei fiori sull’altare, c’era sempre
qualcuno a pregare, a sorvegliare, a sospirare. Senza contare che ai vecchietti
seduti in piazza, proprio di fronte, non sfuggivano eventuali entrate e uscite:
avevano tutto sotto controllo.
Si era congetturato a lungo attorno al
tavolo nella cucina di Caterina e alla fine si era fatto il silenzio, un
silenzio pesante, denso di interrogativi e di sconforto.
Poi don Giovanni si era alzato dalla sua
sedia: “Beh, andiamocene a casa.”
Così se ne erano andati tutti, lui, le
donne e le bambine, lasciando la padrona di casa, affranta, sulla sommità delle
scale.
Nel tardo pomeriggio il comizio dei
Comunisti era già iniziato, quando il prete era arrivato dal retro della chiesa
e si era infilato frettolosamente nella porticina laterale che dava in sagrestia.
Non li voleva proprio vedere quei sacrileghi senzaddio. O forse non voleva
farsi vedere.
Dalla esigua folla, il massimo che il
paese riusciva a esprimere, si levavano simultaneamente fischi e applausi, e
alla fine tutto si era concluso tra urli, spintoni e maleparole.
Stava calando la sera e il fresco
dell’imbrunire invitava a bighellonare.
Il candidato coi suoi scagnozzi si era
rimesso in auto ed era ripartito. Piano piano le persone defluivano verso le loro
case e nella piazza era rimasto un leggero brusio.
Allora, sotto la finestra della sagrestia,
si era levato un grido che aveva raggelato il prete:
“Don Giovanni, vi è piaciuto l’aceto dei
Comunisti?”
La poesia di Giulia Perroni, testo critico di Luciana Gravina
La poesia di Giulia
Perroni
La scrittura poetica per
sua natura enigmatica, polisemica, spesso misteriosa è in genere una sfida, ed
è una sfida d’amore.
Il testo lancia i suoi
segnali al lettore, lo intriga, lo avviluppa nella sua alchimia.
Lo seduce, direbbe Roland
Barthes.
La poesia di Giulia
Perroni lo fa egregiamente con un suo stile rarefatto e narrativo, straziato
eppure in equilibrio sui lacerti, uno stile soprattutto libertario, di una
libertà cercata e sperimentata in tutto il suo percorso e i cui ultimi segnali
sono evidenti nel passaggio da Tre
vulcani e la neve a La tribù
dell’eclisse.
Nel penultimo libro
residuano titoletti su lunghissimi brani, diciamoli, capitoli, segnati in un corsivo
minimizzante, quasi timidi che preludono
alla fine di ogni distinzione o enunciato chiarificatore.
Scompariranno infatti nel
successivo libro con un gesto totalmente liberatorio.
In entrambi l’assenza di
punteggiatura (la distinzione tra le strofe o tra i versi è data dalla
maiuscola a capoverso) segnala l’esigenza del testo di respirare senza filtri
come un corpo che si libera degli abiti, dei gioielli e procede pudico nella
sua nudità.
Si noti che La tribù dell’eclisse smette anche il
vezzo di definirsi poema, che invece è presente in copertina per Tre vulcani e la neve.
Mi soffermo su questi due
ultimi volumi che mi sembrano significativi di una consapevole maturità, non
soltanto formale, ma anche del flusso esistenziale che ci raccontano.
Giulia Perroni, infatti,
racconta storie: storie di sé, e di altri, ma senza debiti cronologici,
intrecciando e confondendo.
E le narrazioni si
rimandano vicendevolmente fatti appena accennati e emozioni tradotte in
metafore, sinestesie, versi di varia misura, dal settenario, all’endecasillabo,
al verso ipermetro.
Entrambi i volumi hanno un tema, un lieve filo conduttore che
sembrano enunciati dall’incipit:
“Io mi avvolgo nel canto perché l’anima sopravviva”, dove è riconosciuta la funzione
salvifica della poesia che è una delle consapevolezze che fanno del poeta un
poeta e non un versaiolo della domenica. E si procede dentro un lungo lieve
racconto in cui figurano, come veloci apporti, guerre, ingiustizie sociali,
poetesse, briganti, musicisti, tate, ville, carrozze, e tanto altro, elementi
che veicolano un’attenzione esplicita al mondo esterno, alla storia e alla
vicenda personale, presente il padre, sul cui anello figurano, a stemma, tre
vulcani (appunto). Mi sembra la figura che chiude il cerchio. E poi c’è la
madre, il maternale, il sacro utero, che si tiene in disparte.
In Tribù dell’eclisse la madre emerge all’inizio come protagonista,
come sostegno alla poetessa che in questo volume si carica sulle spalle
l’umanità, quella genia di uomini che, nonostante la millenaria e incessante
produzione di senso con cui ha cercato di esorcizzare la paura, ancora è
spaventata dall’eclisse.
In un lungo brano la madre vi figura come una citazione
intermittente a svelare una fatica incessante
della poetessa per decodificare il rapporto madre-figlia innanzitutto
per sé, lo sforzo di parlarne con il lettore in una cogente ansia di
pacificarsi con la figura materna.
Non mi sembra una caso
che questo percorso poetico abbia il suo incipit nel nome di Biancaneve.
Nella fiaba Biancaneve è
vittima della magia della matrigna cattiva. In realtà i fratelli Grimm redassero alcune varianti
della fiaba, in una delle quali, che è la prima stesura, è la madre che è
gelosa della bambina e ne ordina l’uccisione. Poi mangia i polmoni e il fegato
del cinghiale che il cacciatore le spaccia per quelli di Biancaneve, in un rito
di orrendo cannibalismo. Questo per dire
che nelle fiabe originarie, non ancora assoggettate al bisogno di moralità che
impone la funzione educativa della società civile, gli istinti primordiali di
una umanità primitiva sono rappresentati per metafora in maniera
inequivocabile. In questa ottica si colloca il rapporto madre-figlia che è
amore viscerale e nello stesso tempo, gelosia e invidia. Per fortuna in una
umanità evoluta la relazione generazionale in genere viene gestita con
intelligenza, con empatia e, soprattutto con amore.
Giulia giunge come poeta
matura a un tempo in cui tutti i conflitti, palesi, o mai palesatisi, sembrano risolti.
Ora il rapporto con la
madre è amore, ammirazione, devozione, solidarietà nel sentimento e
nell’emozione. “Ti auguro il susino e la vernaccia // tutto il fuoco del corpo
accompagnato // da mantiglie di luce // Eri bellissima nel fuoco tuo di fiamma”
(v. 7-10, pag. 13), e più oltre “Vieni con me stanotte // odora il mare la cornice
la foglia ogni cancello // e il mio dolore prendilo è sincero // come il ramo
sul merlo //” (v.18-21, pag. 13). (Bellissima la sinestesia “mantiglie di luce”,
il cui apporto euforico amplifica e sostiene il dettato passionale della
strofa.)
Ma c’è il senso di colpa “Ed io proterva
ancora mi querelo…”, (v 12, pag. 14)
per avere pensato “… la mia mamma mi vuol male non vuole affatto// ch’io
sia più felice “vv. 9,10, pag. 14”. E
così a lungo, fino a pag. 17, si snoda un dialogo in absentia (della madre, ovviamente) che si conclude con
una desolata affermazione “Sono sola”, (v. 25, pag. 17).
Alla fine la poetessa è
sola a portare il peso di un racconto frantumato e essenziale di una umanità
desolata, di una condizione permanente di solitudine (appunto). Ed è una
condizione questa volta coraggiosamente portata in prima persona e l’uso
congruo e ricorrente dei pronomi, personale e riflessivo di prima persona, io e mi, lo confermano, mi pare,
ampiamente.
Le parole di questa
poesia percorrono itinerari faticosi e tappe progressive, eppure sembrano che
non avanzino. Questa poesia si ritrova sempre allo stesso punto perché il suo
territorio non ha limiti, non ha un inizio né una fine. Le parole vi errano
come stregate per intercettare il fine ultimo, l’essenza del tutto. In fondo la
poesia, per essere, ha bisogno di perdersi: non sopporta definizioni né
istituzionalizzazioni. La sua essenza consiste nell’erranza permanente. E
questa poesia lo dimostra.
Sicuramente recerche di un tempo apparentemente
perduto, rivisitato per flash come è consuetudine di questa poesia, e utilizzato come tramite di indagine verso
la profondità delle cose, verso le ragioni misteriose dei fatti, degli
accadimenti. Solo per fare un esempio di struttura memoriale di cui sono
disseminati questi libri
“E le cose che tornano fanno ala al mistero // sono
taglierini ansiosi / del lago dove vivono i pesci”
Potremmo definirla poesia
ametodica: vuole tutto nello stesso tempo.
La parola alogica della
poesia non traccia percorsi, va come persa. La parola che definisce e penetra
nella notte dell’inesprimibile. Non si rassegna al fatto che ogni essere sia
soltanto ciò che appare. Persegue l’infinitezza di ogni cosa.
Comunque, e ciò che sto
per dire, potrebbe sembrare una contraddizione con l’idea di libertà o di
liberazione che ho sostenuto prima, ma non lo è: questo è un sistema di
versificazione consapevole che mette in metrica misure tradizionali e che
svelano la frequentazione dell’autrice con la poesia del passato e del nostro
tempo contemporaneo. C’è il segnale di una riflessione sugli strumenti della
poesia (versi normati come l’endecasillabo o il settenario, ma anche versi
ipermetri, anticonvenzionali, ma ritmati senza deroghe o trasgressioni).
Ne prendo uno a caso “Immagino quell’anima pesante che chiede a tutti un grido”, (Tre vulcani e la neve, pag. 81, v.10),
dove a un endecasillabo si aggiunge un settenario, entrambi riconoscibili nel
ritmo. Questa struttura lunga ci dice di un verso inquietante che ci scaraventa
dentro un indeterminato non luogo e non spazio a indagare su “quell’anima pesante” , su un’entità
eterea e forse informe proprio perché immateriale, per come siamo abituati a
concepire l’anima e, soprattutto, che ci sfugge in virtù del deittico “quel” che ce la allontana ma ce la rende
ad un tempo desiderabile. Perché quell’anima è pesante di fascino nel mistero
del che cosa. Di che cosa è pesante quell’anima? Di sofferenza? Di delusione?
Del peso della verità? Della consapevolezza di aver trovato l’essenza
dell’essere? Non lo sappiamo.
La parola poetica ci
asseta, ma non ci disseta.
E poi. Perché “chiede a
tutti un grido”?
Bella domanda: provo a
indovinare. Perché è stata indotta dalla parola poetica alla conoscenza
dell’essenza ultima in un processo che
le ha svelato il dolore, il “male di vivere” (direbbe Montale), e davanti al
male si può urlare, anzi si deve?
Ma è un ‘ipotesi, non lo
sapremo mai.
La parola poetica pone
problemi, può trascinarci nel mistero o renderci invasati, o spingerci in
trance, ma non ci spiegherà mai nulla, come fa invece la parola filosofica,
perché il mistero è inspiegabile, la sua radice è “mu”, come per “mistico”,
da collegare al verbo greco myein “chiudere, serrare”. Noi poveri scrittori
e lettori di poesia, imbarcati sulla parola poetica gli possiamo navigare
intorno, al mistero, fargli il periplo, ma forse nessun poeta riuscirà a
“parlarlo”.
Un elemento stilistico
interessante in questa poesia è la ripetizione delle parole (Tuppete qua, tuppete
la, trallalero trallallà (La tribù dell’eclisse, versi ricorrenti, pagg. 44 e
45).
La parola ricorrente è una
pratica di magia, è richiamo energetico dall’armonia dell’universo.
La poesia si solleva dalla magia e dalla
religione, (e non alludo ad alcun credo codificato) ma con esse mantiene legami permanenti. Giulia
Perroni cita Dio e Maria, ma la sua è una teologia personale svincolata da ogni
cogenza dogmatica..
Mi sembra, e concludo,
che con questa tessitura della parola poetica
l’autrice ci induca alla conoscenza
aurorale di qualcosa che esige di
essere nuovamente
guardato e ci inviti al risveglio di una consapevolezza
che la ragione non può
conseguire.
Luciana Gravina
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