La poesia di Giulia
Perroni
La scrittura poetica per
sua natura enigmatica, polisemica, spesso misteriosa è in genere una sfida, ed
è una sfida d’amore.
Il testo lancia i suoi
segnali al lettore, lo intriga, lo avviluppa nella sua alchimia.
Lo seduce, direbbe Roland
Barthes.
La poesia di Giulia
Perroni lo fa egregiamente con un suo stile rarefatto e narrativo, straziato
eppure in equilibrio sui lacerti, uno stile soprattutto libertario, di una
libertà cercata e sperimentata in tutto il suo percorso e i cui ultimi segnali
sono evidenti nel passaggio da Tre
vulcani e la neve a La tribù
dell’eclisse.
Nel penultimo libro
residuano titoletti su lunghissimi brani, diciamoli, capitoli, segnati in un corsivo
minimizzante, quasi timidi che preludono
alla fine di ogni distinzione o enunciato chiarificatore.
Scompariranno infatti nel
successivo libro con un gesto totalmente liberatorio.
In entrambi l’assenza di
punteggiatura (la distinzione tra le strofe o tra i versi è data dalla
maiuscola a capoverso) segnala l’esigenza del testo di respirare senza filtri
come un corpo che si libera degli abiti, dei gioielli e procede pudico nella
sua nudità.
Si noti che La tribù dell’eclisse smette anche il
vezzo di definirsi poema, che invece è presente in copertina per Tre vulcani e la neve.
Mi soffermo su questi due
ultimi volumi che mi sembrano significativi di una consapevole maturità, non
soltanto formale, ma anche del flusso esistenziale che ci raccontano.
Giulia Perroni, infatti,
racconta storie: storie di sé, e di altri, ma senza debiti cronologici,
intrecciando e confondendo.
E le narrazioni si
rimandano vicendevolmente fatti appena accennati e emozioni tradotte in
metafore, sinestesie, versi di varia misura, dal settenario, all’endecasillabo,
al verso ipermetro.
Entrambi i volumi hanno un tema, un lieve filo conduttore che
sembrano enunciati dall’incipit:
“Io mi avvolgo nel canto perché l’anima sopravviva”, dove è riconosciuta la funzione
salvifica della poesia che è una delle consapevolezze che fanno del poeta un
poeta e non un versaiolo della domenica. E si procede dentro un lungo lieve
racconto in cui figurano, come veloci apporti, guerre, ingiustizie sociali,
poetesse, briganti, musicisti, tate, ville, carrozze, e tanto altro, elementi
che veicolano un’attenzione esplicita al mondo esterno, alla storia e alla
vicenda personale, presente il padre, sul cui anello figurano, a stemma, tre
vulcani (appunto). Mi sembra la figura che chiude il cerchio. E poi c’è la
madre, il maternale, il sacro utero, che si tiene in disparte.
In Tribù dell’eclisse la madre emerge all’inizio come protagonista,
come sostegno alla poetessa che in questo volume si carica sulle spalle
l’umanità, quella genia di uomini che, nonostante la millenaria e incessante
produzione di senso con cui ha cercato di esorcizzare la paura, ancora è
spaventata dall’eclisse.
In un lungo brano la madre vi figura come una citazione
intermittente a svelare una fatica incessante
della poetessa per decodificare il rapporto madre-figlia innanzitutto
per sé, lo sforzo di parlarne con il lettore in una cogente ansia di
pacificarsi con la figura materna.
Non mi sembra una caso
che questo percorso poetico abbia il suo incipit nel nome di Biancaneve.
Nella fiaba Biancaneve è
vittima della magia della matrigna cattiva. In realtà i fratelli Grimm redassero alcune varianti
della fiaba, in una delle quali, che è la prima stesura, è la madre che è
gelosa della bambina e ne ordina l’uccisione. Poi mangia i polmoni e il fegato
del cinghiale che il cacciatore le spaccia per quelli di Biancaneve, in un rito
di orrendo cannibalismo. Questo per dire
che nelle fiabe originarie, non ancora assoggettate al bisogno di moralità che
impone la funzione educativa della società civile, gli istinti primordiali di
una umanità primitiva sono rappresentati per metafora in maniera
inequivocabile. In questa ottica si colloca il rapporto madre-figlia che è
amore viscerale e nello stesso tempo, gelosia e invidia. Per fortuna in una
umanità evoluta la relazione generazionale in genere viene gestita con
intelligenza, con empatia e, soprattutto con amore.
Giulia giunge come poeta
matura a un tempo in cui tutti i conflitti, palesi, o mai palesatisi, sembrano risolti.
Ora il rapporto con la
madre è amore, ammirazione, devozione, solidarietà nel sentimento e
nell’emozione. “Ti auguro il susino e la vernaccia // tutto il fuoco del corpo
accompagnato // da mantiglie di luce // Eri bellissima nel fuoco tuo di fiamma”
(v. 7-10, pag. 13), e più oltre “Vieni con me stanotte // odora il mare la cornice
la foglia ogni cancello // e il mio dolore prendilo è sincero // come il ramo
sul merlo //” (v.18-21, pag. 13). (Bellissima la sinestesia “mantiglie di luce”,
il cui apporto euforico amplifica e sostiene il dettato passionale della
strofa.)
Ma c’è il senso di colpa “Ed io proterva
ancora mi querelo…”, (v 12, pag. 14)
per avere pensato “… la mia mamma mi vuol male non vuole affatto// ch’io
sia più felice “vv. 9,10, pag. 14”. E
così a lungo, fino a pag. 17, si snoda un dialogo in absentia (della madre, ovviamente) che si conclude con
una desolata affermazione “Sono sola”, (v. 25, pag. 17).
Alla fine la poetessa è
sola a portare il peso di un racconto frantumato e essenziale di una umanità
desolata, di una condizione permanente di solitudine (appunto). Ed è una
condizione questa volta coraggiosamente portata in prima persona e l’uso
congruo e ricorrente dei pronomi, personale e riflessivo di prima persona, io e mi, lo confermano, mi pare,
ampiamente.
Le parole di questa
poesia percorrono itinerari faticosi e tappe progressive, eppure sembrano che
non avanzino. Questa poesia si ritrova sempre allo stesso punto perché il suo
territorio non ha limiti, non ha un inizio né una fine. Le parole vi errano
come stregate per intercettare il fine ultimo, l’essenza del tutto. In fondo la
poesia, per essere, ha bisogno di perdersi: non sopporta definizioni né
istituzionalizzazioni. La sua essenza consiste nell’erranza permanente. E
questa poesia lo dimostra.
Sicuramente recerche di un tempo apparentemente
perduto, rivisitato per flash come è consuetudine di questa poesia, e utilizzato come tramite di indagine verso
la profondità delle cose, verso le ragioni misteriose dei fatti, degli
accadimenti. Solo per fare un esempio di struttura memoriale di cui sono
disseminati questi libri
“E le cose che tornano fanno ala al mistero // sono
taglierini ansiosi / del lago dove vivono i pesci”
Potremmo definirla poesia
ametodica: vuole tutto nello stesso tempo.
La parola alogica della
poesia non traccia percorsi, va come persa. La parola che definisce e penetra
nella notte dell’inesprimibile. Non si rassegna al fatto che ogni essere sia
soltanto ciò che appare. Persegue l’infinitezza di ogni cosa.
Comunque, e ciò che sto
per dire, potrebbe sembrare una contraddizione con l’idea di libertà o di
liberazione che ho sostenuto prima, ma non lo è: questo è un sistema di
versificazione consapevole che mette in metrica misure tradizionali e che
svelano la frequentazione dell’autrice con la poesia del passato e del nostro
tempo contemporaneo. C’è il segnale di una riflessione sugli strumenti della
poesia (versi normati come l’endecasillabo o il settenario, ma anche versi
ipermetri, anticonvenzionali, ma ritmati senza deroghe o trasgressioni).
Ne prendo uno a caso “Immagino quell’anima pesante che chiede a tutti un grido”, (Tre vulcani e la neve, pag. 81, v.10),
dove a un endecasillabo si aggiunge un settenario, entrambi riconoscibili nel
ritmo. Questa struttura lunga ci dice di un verso inquietante che ci scaraventa
dentro un indeterminato non luogo e non spazio a indagare su “quell’anima pesante” , su un’entità
eterea e forse informe proprio perché immateriale, per come siamo abituati a
concepire l’anima e, soprattutto, che ci sfugge in virtù del deittico “quel” che ce la allontana ma ce la rende
ad un tempo desiderabile. Perché quell’anima è pesante di fascino nel mistero
del che cosa. Di che cosa è pesante quell’anima? Di sofferenza? Di delusione?
Del peso della verità? Della consapevolezza di aver trovato l’essenza
dell’essere? Non lo sappiamo.
La parola poetica ci
asseta, ma non ci disseta.
E poi. Perché “chiede a
tutti un grido”?
Bella domanda: provo a
indovinare. Perché è stata indotta dalla parola poetica alla conoscenza
dell’essenza ultima in un processo che
le ha svelato il dolore, il “male di vivere” (direbbe Montale), e davanti al
male si può urlare, anzi si deve?
Ma è un ‘ipotesi, non lo
sapremo mai.
La parola poetica pone
problemi, può trascinarci nel mistero o renderci invasati, o spingerci in
trance, ma non ci spiegherà mai nulla, come fa invece la parola filosofica,
perché il mistero è inspiegabile, la sua radice è “mu”, come per “mistico”,
da collegare al verbo greco myein “chiudere, serrare”. Noi poveri scrittori
e lettori di poesia, imbarcati sulla parola poetica gli possiamo navigare
intorno, al mistero, fargli il periplo, ma forse nessun poeta riuscirà a
“parlarlo”.
Un elemento stilistico
interessante in questa poesia è la ripetizione delle parole (Tuppete qua, tuppete
la, trallalero trallallà (La tribù dell’eclisse, versi ricorrenti, pagg. 44 e
45).
La parola ricorrente è una
pratica di magia, è richiamo energetico dall’armonia dell’universo.
La poesia si solleva dalla magia e dalla
religione, (e non alludo ad alcun credo codificato) ma con esse mantiene legami permanenti. Giulia
Perroni cita Dio e Maria, ma la sua è una teologia personale svincolata da ogni
cogenza dogmatica..
Mi sembra, e concludo,
che con questa tessitura della parola poetica
l’autrice ci induca alla conoscenza
aurorale di qualcosa che esige di
essere nuovamente
guardato e ci inviti al risveglio di una consapevolezza
che la ragione non può
conseguire.
Luciana Gravina
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