Auguro a tutti i miei lettori un felice anno.
Nel 2003 uscì, dopo un lunghissimo periodo di afasia, il mio libro di poesia "M'attondo il giorno" e tra le altre sedi, fu presentato anche a Napoli, presso l'Istituto Italiano di Studi Filosofici.
Ne parlò il prof. Francesco D'Episcopo dell'Università di Napoli.
La relazione che ne fece mi è capitata sott'occhio e, poiché credo che niente accada per caso, ho pensato ad un suo desiderio (dico della relazione) di venire alla luce.
D'altronde merita.
Francesco D'Episcopo è un intelletuale vero, senza infingimenti nel cuore e nella mente.
Mi piace dunque postare il suo intervento per salutarlo e ringraziarlo ancora.
Eccolo:
M’attondo il giorno
di Luciana Gravina
Presentazione di Francesco D’Episcopo
Napoli, 11 novembre 2003
Istituto Italiano di Studi Filosofici
Ogni poeta ha un suo laboratorio critico e creativo nel
quale realizza i suoi artifici.
Io ho presentato Luciana Gravina tanti anni fa.
Eravamo in un posto magico, uno forse dei più intriganti dell’Italia meridionale: La Scaletta di Matera.
Eravamo in un posto magico, uno forse dei più intriganti dell’Italia meridionale: La Scaletta di Matera.
Il nome di Scaletta, come scoprii
dopo, fu dato da un poeta che io amavo e che non ho mai smesso di amare (ci
sono poeti che non si può fare a meno di amare, come degli amici, le persone
con cui si ha frequentazione di amicizia e di simpatia) e cioè Alfonso Gatto il
quale, tra l’altro, diceva il titolare della Scaletta, consigliò a Pasolini di
girare Il Vangelo secondo Matteo
proprio in quell’ambiente. Pasolini era
andato in Palestina perché era convinto di trovare lì il territorio
giusto e invece lì trovò soprattutto le droghe e rimase scandalizzato. Gli fu
detto: “Renditi conto di che cosa hai davanti a te” e chi è stato nei Sassi sa
appunto di quella realtà.
Quella in cui presentai Luciana
Gravina fu una serata molto bella, molto intensa, da mettere appunto nel grembo
di un sasso, diciamo così, materano, in cui si respirava quest’aria magica e
ricordo che io, parlando di tante cose, ebbi l’idea di suggerire di fare
un’antologia di poetesse lucane (allora Luciana Gravina era a Montalbano
Jonico, in Lucania, c’eravamo incontrati a Pisticci). C’era lì una poetessa che
colse al volo questo suggerimento e di lì a qualche anno pubblicò con una
piccola casa editrice una raccolta delle poetesse lucane in cui figura anche la
poesia di Luciana Gravina. Lo voglio ricordare perché c’è stato un lungo
abbandono della poesia da parte di Luciana, forse perché anche la sua vita è
cambiata. Sono accadute tante cose: la sua andata a Roma, la sua intensa attività ministeriale e poi il
suo impegno con l’UNSA, Unione Nazionale Scrittori e Artisti, questo bellissimo
sindacato che sta operando, non dico per il bene dell’umanità, ma sicuramente
per il bene della poesia, non solo a Roma, ma in tutta Italia.
A questo libro arriva dopo un
lungo silenzio.
I silenzi sono generalmente favorevoli nel senso che i silenzi sono seri: se non si scrive, se non si pubblica, non lo si fa per evidenti ragioni, avrebbe detto Croce o qualche altro, di ispirazione, anche se alcune cose erano state partorite, quindi comunque erano nate, erano state messe da parte per aspettare il momento buono perché in fondo lo scrittore aspetta sempre il momento buono non solo per l’ispirazione, ma anche per la pubblicazione perché queste cose che nascono trovino la loro consistenza, una loro armonia.
I silenzi sono generalmente favorevoli nel senso che i silenzi sono seri: se non si scrive, se non si pubblica, non lo si fa per evidenti ragioni, avrebbe detto Croce o qualche altro, di ispirazione, anche se alcune cose erano state partorite, quindi comunque erano nate, erano state messe da parte per aspettare il momento buono perché in fondo lo scrittore aspetta sempre il momento buono non solo per l’ispirazione, ma anche per la pubblicazione perché queste cose che nascono trovino la loro consistenza, una loro armonia.
E direi che questo libro,
infatti, un po’ come tutti i libri di Luciana Gravina è un libro orchestrale,
cioè un libro non direi rapsodico, ma
sinfonico, nel senso che rispecchia una certa costruzione mentale da parte
della poetessa e la necessità di mettere ordine in questo labirinto, in questo
dedalo di emozioni, di pensieri che chiedono di venire alla luce, di
esprimersi, di trovare un accordo o un disaccordo, e qui infatti
l’orchestrazione non è certo sinfonica in senso tradizionale, ma direi quasi
dodecafonica, del senso che Luciana Gravina da sempre rigetta tutto ciò che è
bello, tra virgolette, cercate però di capirmi, perché vorrei dare il senso di
questa bellezza, cerca in fondo ciò che si nasconde, insomma, ciò che è più
difficile, cerca anche quel suffisso negativo greco che ricorre spesso nelle
sue costruzioni poetiche, quell’ius, che ci avevano insegnato al liceo e che ci
avevano confermato all’università, che è il senso un po’ negativo dell’essere,
dal quale bisogna partire per cominciare a costruire la poesia e l’esistenza
stessa.
E questo si nota, c’è una sorta di corpo a corpo in questa raccolta tra le parole che nascono e hanno una sorta di sviluppo biologico nel senso che nel momento in cui sono nate, sono come le cellule apparentemente impazzite che però non trovano il luogo, il grembo giusto per la fecondazione, cioè il grembo dell’espressione, una sorta di ovulazione verbale, se così si può dire, qualcosa in cui si realizza questa maternità che è forse espressione di un altro segreto, l’antro più segreto forse della femminilità, quell’antro che non si scopre non per pudore, ma proprio perché il pudore appartiene a quella natura più genuina dell’essere donna, dell’essere foemina, di quell’essere appunto, come diceva Enzo Striano, l’ostia della storia, questa femminilità offerta in qualche modo alla vita.
E questo si nota, c’è una sorta di corpo a corpo in questa raccolta tra le parole che nascono e hanno una sorta di sviluppo biologico nel senso che nel momento in cui sono nate, sono come le cellule apparentemente impazzite che però non trovano il luogo, il grembo giusto per la fecondazione, cioè il grembo dell’espressione, una sorta di ovulazione verbale, se così si può dire, qualcosa in cui si realizza questa maternità che è forse espressione di un altro segreto, l’antro più segreto forse della femminilità, quell’antro che non si scopre non per pudore, ma proprio perché il pudore appartiene a quella natura più genuina dell’essere donna, dell’essere foemina, di quell’essere appunto, come diceva Enzo Striano, l’ostia della storia, questa femminilità offerta in qualche modo alla vita.
Si comincia per flauto e oboe, ci
sono gli intermezzi e si arriva ad una terza sezione composta da scherzi,
elegie e lamenti e questo già dà il senso di un forte sperimentalismo, sia
poetico che verbale, cioè Luciana sa bene come parte in genere quando comincia
a fare le cose, perché voi sapete che il termine più genuino di poesia è
proprio fare, poiein, cioè fare le parole, fare la vita, forse rifare la vita,
che in qualche modo abbia con la vita a che fare, ma sempre fino ad un certo
punto anche confondiamo spesso il lato autobiografico con la poesia, siamo
sempre dei dilettanti portati a
immaginare che la poesia debba esprimere qualcosa della nostra esistenza,
qualche volta la poesia è un surplus rispetto alla stessa esistenza, è
qualcosa che viene prima o che viene dopo, non ha niente a che spartire con le
cose che si fanno, anche i suoi percorsi: è veramente un laboratorio che a
volte se ne va per i fatti suoi e questo è un senso di grande modernità, la
parola inventa i propri percorsi. Credo che gli aspetti più significativi della
poesia di Luciana Gravina siano proprio nell’invenzione della parola come
invenzione del mondo, cioè la capacità di creare parole, attraverso un gioco a
volte anche spericolato, molto serio, in cui queste parole trovano suoni,
immagini, metafore, analogie, sinestesie soprattutto di carattere fisico e
mentale, perché questa è una poesia di sdoppiamenti e raddoppiamenti, come in
fondo ogni poesia consapevolmente contemporanea; sdoppiamenti nel senso che c’è
sempre questo rapporto molto importante nella poesia tra il corpo e la mente, alla ricerca dell’equilibrio,
alla ricerca di una funzione che possa in qualche modo unificare le spinte di
questi elementi: il corpo con le sue esigenze primordiali e la mente che
rischia in qualche modo di apparire mostruosa rispetto allo stesso corpo, di
non armonizzarsi a volte totalmente, come un’altra forma di sdoppiamento, per
esempio, l’io, questo io il quale invoca umilmente di ritornare a un siamo,
ecco l’io sono che desidera inventare
una prospettiva in cui è possibile
veramente avvolgere non solo il se stesso poetico, ma non per una forma
di compiacimento, perché non credo che in questa poesia ci sia, ma per il rischio effettivo di una
poesia autoreferenziale che parli poi alla fine unicamente di se stessi, questa
volta vuole uscire da sé per incontrare anche gli altri, ecco perché io sono, noi siamo. Poi , come in tutte
le cose più avvertite, c’è un senso fortemente intelligente, si potrebbe anche
dire troppo, ma che non guasta
invece, perché è un’intelligenza profondamente accoppiata, nel senso fisico del
termine a una delle doti che poi dell’intelligenza è la conseguenza più acuta,
e cioè l’ironia. Essere ironici significa conservare un rapporto di passione e
di distacco con la realtà e consente a volte anche un processo di
teatralizzazione, cioè vedere come se stesso proiettato anche ironicamente su
uno schermo dal quale in qualche modo ci si allontani, come mettersi da una
parte per riconoscersi, per ritrovarsi, ma anche qualche volta, non dico per
rinnegarsi, ma per stabilire un rapporto di distanza da quell’io appunto così forte, così intenso
e così ossessivo che in genere invade il mondo dei poeti. E’ un rischio dal
quale Montale consigliava spesso di difendersi e ci riusciva in tanti modi,
anche accostando poesia e prosa.
Non credo che in questa poesia ci
sia un tentativo di mettere insieme questi due elementi: la poesia è poesia e
basta, ha i suoi percorsi fondamentalmente alti, nel senso che il linguaggio è
sempre fortemente consapevole, sostenuto, è un linguaggio ritmico, avete
infatti visto come ha recitato la sua poesia, come se fosse un’incarnazione del
proprio corpo e della propria mente, come è sempre auspicabile che un buon
poeta legga se stesso, secondo i sussulti del proprio sangue e soprattutto
rendendo anche le immagini che sono nate da quel silenzio, da quella solitudine
che genera generalmente la poesia, le sensazioni che sono state date e nello
stesso tempo poi una fortissima abilità anche prosodica che riguarda la
costruzione del sonetto e dei tanti generi letterari che si assemblano all’interno
di questa raccolta che quindi è una
raccolta molto interessante.
Io ho avuto sempre molta stima
della poesia di Luciana Gravina, stima che ho confermato anche qualche attimo
fa e secondo me meriterebbe anche un
migliore destino editoriale,( voi sapete che le cose che facciamo, anche se
ottime, quando non hanno un corrispettivo editoriale adeguato, nonostante gli
sforzi, anche meritori, che tutti qui facciamo per creare un’editoria che possa
arrivare in qualche modo al pubblico, ma purtroppo tutti sappiamo qual è la
strategia delle case editrici in Italia), è una poesia che meriterebbe una
maggiore attenzione, un maggiore ascolto, una maggiore diffusione, perché ci
sono veramente tutti gli elementi per imporre Luciana Gravina all’attenzione
più vasta, per la complessità per la varietà dei temi, per il gioco, perché la
poesia è anche gioco, è ludus nel senso più genuino del termine.
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