mercoledì 13 aprile 2011

L'infinito presente. Intervento critico di Carlo Livia

Carlo Livia
Note critiche a “L’infinito presente “di Luciana Gravina


Sacralizzato e profanato, idealizzato e posto al vertice ontologico- noetico dell’esistenza (la “casa dell’essere” di Heidegger ), e insieme violato, abusato, vulnerato da divergenti esperimenti trasgressivi-rigenerativi dei suoi “custodi”, poeti e filosofi, il linguaggio, da elemento di mediazione del numinoso e del metafisico, nella poetica e speculazione medievale, negli ultimi secoli è diventato strumento di evasione nel meraviglioso, scandaglio dell’inconscio, sorgente di visioni e astrazioni dal reale, e di analisi sempre più interiorizzate, volte a cogliere le forme evolutive-performative del suo generarsi e modellarsi, nella reciproca inferenza – dialettica e antagonistica – col pensiero e con l’emozione.

In questo senso è stato fondamentale l’apporto delle scienze linguistiche e cognitive, come la semiotica di Eco e la psicolinguistica di Vigosky, che hanno esaminato le dinamiche formative del pensiero, che dalla dimensione emotiva-sentimentale, proprio attraverso i modelli linguistici forniti dal contesto culturale, si struttura, si espande, si modifica ed evolve, articolandosi nelle diverse esigenze e dimensioni teoriche, pratiche e creative.

In particolare la lingua poetica, come notava Nietzsche, contribuisce con la maggiore tensione eversiva e palingenetica ad ampliare e rimodellare forme e contenuti semantici, liberando pensiero e linguaggio dall’implicita oppressione dei modelli costituiti, cristallizzati ed obsoleti, per evincere ed esprimere, con nuovi traslati, metafore, assimilazioni e dislocazioni, nuove istanze ideali e morali, suggestioni emotive e modelli estetici, intuizioni meta-razionali ed agnizioni metafisiche.

Estremamente significativo, in questo contesto culturale, il contributo offerto dall’ultima opera di Luciana Gravina, “ L’infinito presente “, in cui vengono portati ad un grado di risultanza icastica quasi insostenibile – per mancanza di confronti e convergenze possibili - esperienze e tematiche già affrontate con notevole originalità formale e profondità concettuale in opere precedenti.

L’incanto – e il senso di smarrimento – che promanano dalla lingua di Gravina, nascono dall’implicita “ hybris “ di un gesto comunicativo ambizioso ed ieratico, nel voler catturare il nucleo rovente della sua verità, ma insieme tragico e grottesco, perché consapevole dell’inanità di tale titanico obiettivo, e quindi immediatamente intriso di umorismo e autoironia. Come nell’universo tragicomico e post-umano di Beckett, il pensiero - linguaggio si corrompe e dissacra, avvertendo l’invalicabile confine a cui è giunto, l’abissale aporia intravista, che determina conflitto, disincanto e senso del grottesco:


” Hic proprio qui dove l’inizio e la fine squiquano e sfinano,

spersi. Qui a inizio e fine sdentrati avviene d’essere a

illusione di infinito e a non luogo, perciò fermi ci

smottiamo a percorrere l’universo: di pensiero dico…”


Come si vede, la tensione aggregativa-disgregativa, concettuale-semantica s’imprime violentemente nella lingua, ne intacca l’integrità logico-sintattica, l’equilibrio prosodico-formale, ma contestualmente ne amplifica la dimensione semantica, moltiplicando le implicanze emotivo-musicali. Complesse e stratificate anche le afferenze filosofiche, che alludono ( come nel titolo del volume ) alla nuova concezione del tempo che, da Nietzsche a Bergson, ne sovverte linearità e consecutività, concependolo come espansione ciclica, infinita dell’attimo presente.

La transizione da “ logos “ a “ melos “, scopo comune a tutta la poesia di ascendenza orfico-simbolista, sintomo di disagio ad accettare l’immanenza dell’essere, incapacità a limitarsi ad un orizzonte esistenziale codificato dalla ragione empirica ed esigenza di trasfigurazione ed ascesi dalla realtà quotidiana, qui assume una fisionomia drammatica e provocatoria: si assiste come ad un rivolgersi della lingua su se stessa, per evocare il proprio percorso generativo, analizzarne i limiti, evidenziarne contrasti e lacune, traducendoli e sublimandoli in sorprendenti neologismi, che lasciano ammirati e storditi, per la loro frequenza, complessità strutturale e polivalenza semantica:


“ Avessi spersuaso l’occhio alla

crudezza eunte del biondo capello, della sottigliezza al

fianco esperta, trafilata sul nunc...

Cosicché è l’io che attracca sfrantato e si addimora nel

contorno di liquido sfocato che si sdrama alle mani…”


Le possibili ascendenze e contiguità stilistiche – Joyce, Zanzotto, Sanguineti – possono solo in parte illustrare e definire trame e percorsi di questa lingua ricca di cangianti sfumature e suggestioni, che non sono mai gratuite ma funzionali ad un’impervia inquisizione epistemologica:


“ Transeunte

passeggero, caduco, come suol dirsi, mi pare ora, nunc,

appunto, ma allora apparvemi il tutto, l’essenza, la pienezza,

non il refolo dell’hic, di quando il tempo prigioniero

si cammina dimidiato tra passato e futuro….”


La violenza esercitata sul linguaggio è necessitata dall’ansia di liberazione dalle catene logico-razionali che impediscono di attingere l’ultima verità. L’agnosticismo di Gravina, erede di quello dei grandi ermetici, come Montale o Celan, si esprime con un suggestivo percorso catabatico-anagogico, sprofondato nella fisicità dell’io, come in un labirinto di codici da decifrare, per recuperare la visione perduta dell’autentica verità e salvezza:

L’avessi saputa la via, la mia, quella giusta che dalla rotula

dei ginocchi, di entrambi dico, sul punto che la svela, se

consapevole andassi. L’avessi visto il punto, del quinto

dico, cosicché messo a energia, mi chiarisse un sentiero

almeno, di quelli giusti, non dico la via, ma la direzione che

diretta mi conducesse, un piccolo straforo di luce,

un’illusione di delirio, di quello giusto, appunto,

di giusta direzione. “

Ancora una volta – come in Mallarmè, Kafka, Camus e in molti dei maggiori autori del novecento – è il tono della disfatta, della resa ( anche se gloriosa, inebriante, seduttiva ) che prevale. In una cultura che molti definiscono postuma, che sopravvive a dogmi e codici perduti, il cammino verso la luce di un’autentica verità sembra precluso. Ma se ci sono ancora voci poetiche così intense e appassionate, ricche di memoria e slancio verso una possibile palingenesi, non è detto che debba esserlo per sempre.

Carlo Livia

1 commento:

  1. Una critica astrusa come è questa è capace di far passare la voglia di leggere anche a un non vedente privo del tatto... :D

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