mercoledì 13 aprile 2011

L'infinito presente. Prefazione di Rino Malinconico

La faticosa riconciliazione col mondo

note su L’infinito presente di Luciana Gravina

di Rino Malinconico

Sono particolarmente avvolgenti questi versi di Luciana Gravina; e se vengono letti a voce alta trascinano senza sforzo con sé i sensi del lettore. Chiedono, infatti, di essere soprattutto ascoltati, talvolta alla maniera delle affabulazioni cui ci ha abituati Carmelo Bene, talaltra come un buon jazz “freddo”, quando i fiati prolungano in un lungo volo lo strazio infinito della solitudine.

E’ lo stile ormai consolidato dell’autrice, che va accolta come una delle voci più originali e consapevoli del neosperimen-talismo poetico, nel solco dell’avanguardia che ha segnato in maniera estremamente significativa l’ultima nostra produ-zione letteraria, dal gruppo ‘63 al gruppo ’93 fino ai nostri giorni.

La voce di Gravina è particolarmente felice nel contraddire linguisticamente ogni regola ed ogni convenzione. Le parole sono piegate a significazioni inusitate, i neologismi si sus-seguono in maniera vertiginosa, connotando col suono e l'evocazione semantica il fluire stringente del verso. Continua così l'azione di contrasto che Gravina persegue fin dall’avvio della sua personalissima ricerca poetica: contrasto verso il manierismo ermetico, verso l'accademismo di tanta poesia civile, verso il sentimentalismo della tradizione

romantica italiana, che ancora prosegue per infiniti rivoli.

Stavolta però, perché c'è un però in questo suo libro, si coglie agevolmente, da più punti di vista, se non un cambiamento assoluto, di certo una mutazione di percorso, una sorta di nuovo inizio. E’ particolarmente vero sul piano dei contenuti e dell'orizzonte ideale, ma è possibile rinvenirlo anche nella resa stilistica. I neologismi, le allitterazioni, le anafore, gli enjambement, le anastrofi, gli asindeti divengono in questi versi più nitidi e diretti, quasi come se si recuperasse intenzionalmente, seppure con la distanza del tempo, l'eleganza sonora di Petrarca e del suo Canzoniere. Ovviamente l’unitarietà del linguaggio petrarchesco ne esce sbriciolata: siamo pur sempre sul versante dello sperimentalismo poetico; e la pluralità (peraltro sempre controllata e mai fine a se stessa) dei registri ritmici e linguistici non è messa affatto in discussione. Ma si intravede facilmente anche una delicatezza rarefatta del lessico e una allusività quasi colloquiale del verso; e questa lucida tensione alla compostezza ci dice della chiara novità intervenuta sul piano del paesaggio, dell’emozione e degli oggetti che la poesia di Gravina si propone di portare alla luce.

Per certi versi si tratta di uno sviluppo del panismo già proposto con la raccolta “Del senso e del sé”; ma a distanza di cinque anni il residuo simbolico tende a

convertirsi quanto più possibile nella densità delle cose. Il testo d’apertura racconta di un gioiello a forma di spirale. Indagato con stupefatta aulicità di linguaggio, viene proposto come trasparente specchio del sé e delle molteplici sinuosità dell’animo umano. Permane ancora la valenza simbolica, ma quel gioiello si presenta soprattutto in quanto concreto percorso di “facimento”: è costruzione della cosa e contemporaneamente costruzione del soggetto che produce la cosa, l’uomo/a per come l’aveva disegnato Leonardo nel disegno notissimo ispirato alle misure classiche definite da Vitruvio. Proprio producendolo/a (o descrivendolo/a, è lo stesso) egli/ella alfine sevince, consegnandoci con l’esito finale anche uno splendido neologismo, ambiguamente agente, che mette assieme la seduzione e la vittoria, il trionfo e la sconfitta.

Il piano del lavoro poetico diventa perciò un vero e proprio “compiersi”, esattamente nel suo duplice significato: come conclusione dello slancio vitale (… ricondurre ogni / clamore e morìrlo questo èlan bergsoniano), ma anche in quanto caos che si vive (ricompattarlo il caos / e vivìrlo). Il percorso di Gravina si precisa dunque come un guadare l'avventura, come enèrgheia, come flusso permanente e irrisolto che giunge infine ad un approdo, sia pure instabile e provvisorio, ad una sorta di momentanea condizione statica. E’ un risultato che appassiona (in quanto amore intellettuale di sé, in quanto dialogo interiore) e contemporaneamente dà tormento, poiché allude inevitabilmente alla finitudine:

cosicché

trovatala, ad hora quasi tarda, mi passiona.

Questa ambiziosa e riuscitissima prova poetica è strutturata in tre parti, con un vero e proprio poemetto centrale, preceduto da un lungo testo (Spiralitudine, termine che potrebbe significare più cose: dalla più immediata “latitudine del fuoco” alla sua evocazione trasognata, e persino al lamento per la sua consumazione), e seguito da una sezione di “recuperi”, poesie apparse su riviste, proposte qui per la prima volta nel loro insieme.

Il poemetto (Percezioni), che a sua volta presenta una propria straordinaria introduzione poetica, è ovviamente il cuore del libro. E però non lo esaurisce. Ha bisogno, per fissarsi in modo definitivo, del testo poetico d’apertura, ma anche delle poesie messe a conclusione, di modo che l’architettura dell’impianto e la successione dei testi contribuiscono proprio alla dimensione concettuale dell’“infinito presente”, che non è solo un titolo ma la vera posta in gioco, la conquista finale che Gravina persegue sul piano dei contenuti non meno che sul piano dello stile.

Già, l’infinito presente. Non è qualcosa che ci viene regalato, ma una conquista faticosa. E non è neppure rinuncia al tempo tripartito o al funambolismo insopprimibile dell’essere umano (biduo, triduo, multiforme milliguo), poiché comprende dentro di sé ogni cosa: la provvisorietà del presente e contemporaneamente la irrevocabilità del passato e l’inconosciuto del futuro. Ma si arriva a questo possesso per un sentiero tortuoso, che è di conoscenza del sé non meno che lavoro di trasformazione del se medesimo.

L'introduzione del poemetto è un vero e proprio manifesto programmatico, svolto in forma di racconto favoloso. Di fronte a noi agiscono dicotomicamente l’esprit de finesse (poesia, sentimento, emozione) e l’esprit de geometrie (logica, pensiero, costruzione). Non si tratta soltanto delle dinamiche conoscitive esaminate da Pascal, ma di due modi distinti di vivere e viversi. La loro tendenza naturale è di procedere per sentieri distinti, tendenzialmente opposti; e però almeno una volta l'autrice è riuscita ad incontrarle assieme queste due forme umane, come tutto, pienezza, essenza. Non è stata la visione distinta di una testa ancipite, ma un flusso intensissimo di sensazioni, vissute direttamente dal corpo, alla maniera di come avviene per il concerto numero 21 di Mozart, auscultato, appunto, attraverso la pelle. La verità si precisa, allora, come liberazione di vibrazioni, e questa sua fisicità permette all’uomo/donna di sottrarre finalmente all’oblio le sue quattro dita inerti sull’attesa di suonare un oboe (splendido omaggio a Quasimodo, col quale Gravina condivide il sotterraneo riferimento alla lirica greca), troppo a lungo sommerso dalle sedimentazioni plurime dell'esistenza.

Il poemetto porta a piena evidenza quanto affermato dall’introduzione: tanto l’incontro con sé quanto l’incontro di sé col mondo sono mediati dai punti del chakra, la “ruota” che nella tradizione indiana, ma anche in alcune teosofie occidentali, collega i centri di forza vitali del nostro corpo: dal petto, dove le iridescenze e le collere tengo alle mani, alla mente, che si configura come poiein e mette a punto d'azione, alla deam-bulazione (la rotula dei ginocchi), che non ci dice da che parte stia la giusta direzione, e però ci permette di avviarci a un piccolo straforo di luce, un'illusione di delirio. E poi ci sono le vertebre del collo, che indicano la tensione all'altro, l'amore (sapessi... amarlo l'amore... perché splenda di luce finalmente assolta), la spalla sinistra, che dà il coraggio di restar fermi, il tallone, per ricomporre la figura, pur se mi ci sdrovino ripetuta, fatta fragile...

Ma non serve qui ripercorrere la mappa complessa che Gravina sapientemente traccia lungo il corpo di ciascuno di noi. Va colto invece come quei punti configurino un procedere faticoso di conquista che spacca il limite presunto e si proietta oltre il causativo pensiero. Un cammino agro, impietoso, perfino crudele, nel cui tracciato le voglie si sderenano e obliquamente distrama l'infinito. Ma c'è alla fine un approdo, sia pure provvisorio: è l'equilibrio inaspettato del sé reso consapevole, una spirale perfetta dove si satura questo passato a spigoli.

Ecco allora l'infinito presente, come epifania dell’armonia, come verità nascosta. Un lungo viaggio dell’anima che parte come slancio, il me vera, come ceneri date a un vento irrisolto, ed è poi spinto in avanti dal desiderio di possederli tutti, i punti ottusi, riattivandoli con la forza stessa del percorso per sfondarli i limiti e attramarli di nuovo come di fresca nascita. Qui è dunque la svolta. Gravina ci indica il modo di passare da una vita rimediata ad una vita riappropriata perché quisqueciascuno è fabbro, e l'azione poetica è davvero capace di smottarla questa oscurità permanente riconducendo l’umano a luce di fresca nascita di un infinito presente. La novità si precisa dunque come ricomposizione, come possibile amicizia con le cose.

La neoavanguardia e lo sperimentalismo poetico si sono mossi costantemente sulla linea del contrasto. Gravina ha tesaurizzato tutta la ricchezza formale dell'esperienza sperimentalista, ma la piega in questa sua ultima fatica poetica alla conquista dell’altro. Non più solo l'autore e il suo linguaggio, ma l'autore, il suo linguaggio e il lettore, in direzione di un nuovo ponte comunicativo additato quasi come possibile e necessaria maturazione della stessa vicenda poetica della neoavanguardia.

Così le poesie poste a conclusione, che rinviano a un altro periodo della produzione artistica di Gravina, si pongono a compiuto suggello: sono il lontano punto di partenza che l'autrice, raggiunto finalmente un orizzonte di significazione generale, si volta a contemplare con un miscuglio di distanza e simpatia. Senza di essi, senza la radicale operazione di rottura col “poetese” della tradizione, questo ritrovamento di sé in un contesto che postula anche l'altro e questa espli-citazione dello hic et nunc che postula anche lo inde et semper non si sarebbero potuti compiere.

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