martedì 9 agosto 2011

"Burraco d'amore", un mio racconto

Il racconto che propongo è stato pubblicato in Logoi gunaikos, Pensiero di donna, antologia di racconti al femminile, uscita per Edizioni Melograna nel 2008

Burraco d’amore

A quest’ora del tramonto, una volta al mese, ci disponiamo alla partita di burraco.

E’ una partita a due, cioè con due morti, e abbiamo dovuto modificare alcune regole del gioco per renderla praticabile. Inoltre ogni volta che mi accingo alla partita rinserro per bene tutte le porte del mio labirinto: devo essere assolutamente tranquilla, non posso rischiare nemmeno il refolo di un ricordo, l’ingiuria di una offesa, uno sbavo di disamore.

Oggi il tavolo è stato disposto sotto il gazebo e me ne sto tranquilla mentre lei dispone le ultime cose di rito: le carte, le bibite, le sigarette, le sedie, l’una di fronte all’altra (e come potrebbe essere altrimenti, se non di fronte), mi guardo la distesa ampia del prato, è di un bel verde intenso, finalmente la dicontra è attecchita bene, l’ho osservata nei mesi scorsi nella sua guerra contro il loglietto e le altre erbe invasive, finalmente ha avuto la meglio, che guerra, il giardiniere imperturbabile la taglia bassa, ma ugualmente le piccole foglie tonde residue esibiscono l’aria arrogante di chi ce l’ha fatta, anche la nostra è una guerra che si trascina ormai stanca sulle manches mensili di questa partita a burraco e con alterne vicende segnate dai sussulti (mensili appunto) di un successo da scaramuccia, vittorie di Pirro, inevitabili, quanto necessarie, data la situazione.

Spezzare il mazzo per decidere la cartara è il rito iniziale, questa volta non mi tocca, resto rilassata fino a quando non organizzo tra le dita le carte per colore, almeno così mi sembra più opportuno: mi tocca scartare e chiedere carta, bisogna che mi impegni, anche se so che non si tratta soltanto di astuzia e di attenzione, ci vuole anche la carta, l’anno scorso ho perso per quattro volte di seguito, cosicché mi rimettevo in macchina come Giovanna d’Arco verso il rogo, a testa alta e fingendo di niente, e anche fischiettando “Dove sta Zazà”, ma tant’è, con la botta dentro lo stomaco, fingendo di non vedere la mia antagonista che saltellava col culo sulle ginocchia e le sue gambe a botticella, mentre andava a comunicare la sua vittoria al diretto interessato.

Il quale se ne sta affondato in una poltrona a leggere perché la cosa avviene di sabato e lui non è fuori per lavoro. A volte maneggia delicatamente e ammira la sua preziosa collezione di preziosissimi (appunto) francobolli. Oggi legge.

Ho voglia di vincere, di stravincere, cosicché potrei tenermi il sette e l’otto di cuori, e invece li scarto: a volte il destino va provocato, anzi mai rassegnarsi. Eppure provocato o no, a volte si impunta e non c’è verso di spostarlo, sarà per questo che la mia richiesta di carta porta come ricompensa karmica un due e un cinque, sballando completamente l’ipotesi di una scala a colore, mai sfidare il destino, cosicché torna l’interrogativo se siamo noi gli artefici della nostra sorte (unusquisque faber?) oppure la sorte sortisce a suo piacimento (ma chi la comanda?, possibile che Dio abbia la pazienza di controllarci a uno a uno?), cosicché potrebbe avere ragione Niccolò (Machiavelli, ovviamente) che propone una tuch (tiuke) indipendente dalla volontà, ma che l’intelligenza può agire e aggirare a proprio vantaggio.

Bel colpo a favore dell’uomo, forse però il Nostro non pensava anche alla donna che, quando, come suol dirsi in soldoni, s’innamora, liquefa la propria intelligenza e s’infila in certi tunnel (come questo ad esempio) dai quali poi non è capace di uscire. E sì che qualche scrittrice aveva dato il segnale lanciando nelle librerie avvisi come Donne che amano troppo.

Cosicché, visto che le donne sono (ed è inconfutabile) da sempre intelligenti e anche furbe, vien fatto di concepire un legittimo dubbio e cioè se le donne amano troppo oppure si ostinano a rincorre chi o ciò che sfugge, e nel nostro caso, se amiamo veramente il “di cui sopra” cioè colui che sta leggendo sprofondato nella sua poltrona, o se rincorriamo il gusto delle vincite e delle rivincite. Mistero.

A troppi dubbi non ho dato risposte precise, cosicché mi viene l’ennesimo dubbio che la mia pigrizia mi faccia parcheggiare permanentemente in questa dolente ambiguità: siamo noi gli artefici del nostro destino o il destino va per conto suo ed è inoppugnabile? Le donne amano veramente troppo o scambiano per amore il gusto della ripicca?

Questa ultima ipotesi sarei disposta ad affibbiarla alla mia dirimpettaia, la quale intanto ha chiuso la manche a suo vantaggio e mi passa il mazzo per la mia funzione di cartara, visibilmente soddisfatta e che le piaccia vincere, al di là della posta in gioco, si vede lontano un miglio e troppo ci gode a decifrare la mia malcelata umiliazione.

Eppure ha sperimentato sulla sua pelle che io ho il colpo di coda dello scorpione e che la stronco quando meno se l’aspetta, perché mi studio sempre bene l’avversario prima di fargli vedere dov’è il mio fianco fragile e non mi si venga a dire che è l’atteggiamento degli animali deboli perché così fa anche il leone quando finge di sonnecchiare e l’altro gli si accosta per vedere, appunto se dorme, e allora, zac, la zampata mortale.

O forse mi illudo soltanto di essere vincente, dal momento che non sono riuscita a portarle via quest’uomo e cioè il “di cui sopra” nella poltrona, che poi è suo marito, sebbene io fossi forte di una bellezza più evidente e bene insediata nell’aureola dell’amante prestigiosa e lei invece offuscata dall’aura banale e quotidiana che hanno tutte le mogli del mondo, che però a quanto pare funziona di più.

O forse non ho voluto radicalizzare il mio intervento per pigrizia o per paura di infilarmi in una banale situazione paraconiugale, ivi compresi scenate, ricatti psicologici e sensi di colpa.

Cosicché si è profilato l’ennesimo dubbio: non ce l’ho fatta perché la mia rivale si è difesa molto bene, o non ho voluto impegnarmi?

E quando mai darò una risposta.

Devo ammettere che a primo giro la carta mi viene sempre, la qualcosa mi impedisce di nascondermi dietro il dito di una abituale sfiga: buone probabili ipotesi di chiusura a tris, a scala, a colore, ma poi spesso tutto si deforma e sfugge, ma ora, in questa seconda manche non è così: la carta resiste e alla terza sto per chiudere a colore. Un successo molto veloce.

Cosicché comincio a rimontare, mentre la sera cala con la sua punta di umido e la sua ombra tenera che è l’unica cosa ragionevole del momento; forse se avessi un carattere meno diretto, un minimo di ipocrisia a volte non guasta, ma io, se proprio devo parlare, mi ostino a dire ciò che penso, d’altra parte, se non ci si può permettere il lusso della sincerità con la persona cosiddetta amata, con chi, se no? E’ questa la vera intimità: poter mettere a nudo l’anima davanti all’altro. Il corpo c’entra nella misura in cui consente la nudità della coscienza. L’intimità non è mettersi nudi in un letto e fare sesso o anche fare l’amore. In questo senso la sincerità è un privilegio e la verità una pretesa. Un diritto.

Ho sempre pensato questo e ho spaccato sempre tutto quando non c’erano queste condizioni.

E invece un po’ di fictio aiuta, altrimenti la mia dirimpettaia non sarebbe ancora lì inossidabile e non intaccata da tutta la serie delle amanti di cui io sono l’ultima, a giocarselo a carte.

Il “di cui sopra”, naturalmente. Forse neanche lo sa cosa si porta dentro, non se lo è mai chiesto: a furia di stamparsi il sorriso sulla chiostra dei denti e di dire va bene, va tutto bene, crede davvero di essere felice. Contenta lei…..

Abbiamo optato per il burraco, perché non avevo grandi scelte. Non sono una giocatrice, ai tavoli da gioco delle signore, e anche dei signori, mi annoio a morte. L’immobilità mi fa fa diventare una belva feroce, nel senso che mi sento in trappola.

Inevitabilmente il mio pensiero svicola per le sue strade segrete e così mi distraggo, e mollo il gioco.

Coltivo solo qualche velleità per gli scacchi: mi sembra che muovano di più il cervello, in un giro più ampio che è come dovrebbe essere la vita: ogni mossa ne definisce un’altra, come sicuramente anche nel gioco a carte, ma sulla scacchiera è tutto più cogente, più rigoroso, più uguale alla vita vissuta pensandola. Quando mi metto davanti allo schieramento degli scacchi di fronte al mio avversario concepisco il desiderio di vincere, non soltanto, ma di farlo a pezzi, di spaccarlo.

Sento l’odore primordiale del sangue, voglio vincere, prevalere, vivere. Perché anche nella vita sembra che niente accada per caso.

Basterebbe leggere i segnali nella piccole cose, negli accadimenti più ovvii, in un refolo di vento, in una porta che sbatte, in uno spiraglio di sole, in un treno che perdi perché ti sfila davanti agli occhi, in un parcheggio fortunoso.

Bisognerebbe diventare semiologi della quotidianità e analizzare tutto e rispondere con le proprie azioni alla rete di segnali che una forza intoccabile e onnipresente tesse indipendentemente dalla nostra volontà. Ma chi è che fa le mosse che noi dovremmo decifrare e a cui dovremmo rispondere? Forse la vita consiste nell’interazione tra questi segnali e la nostre azioni, una sfida costante, una stanchezza permanente per tenere testa a questa dispettosa entità che semina il cammino degli uomini di buche e di trappole.

Non ne sono sicura, anche perché io sento di dover rendere conto ad un’altra convinzione che continuamente metto in discussione, ma che non riesco a eliminare dalla mia testa, anche perché non voglio, e che è quella per cui ogni uomo è uno strumento di Dio nel piano di salvezza dell’umanità.

Ecco, l’ho detto.

Allora mi chiedo dove si colloca questa nostra sfida serotina e mensile nel grande piano di salvezza dell’umanità.

Sinceramente sto annaspando.

E almeno io ce l’ho un Dio con cui prendermela, a cui chiedere ragione dell’inutilità del dolore, delle guerre, delle malattie, un Dio da ringraziare per l’utilità della morte; ma i buddisti che riportano tutto al sé, il bene e il male, tutto dentro di sé e si avvolgono nella loro vita come in una spirale, con chi se la prendono?

Forse hanno più pazienza di me, forse li aiuta credere che l’uomo abbia diritto alla felicità e che prima o poi la conquistano. Forse abbiamo un’idea diversa di felicità. A proposito: che cos’è la felicità? Pienezza di bene o assenza di male?

Sinceramente annaspo ancora.

La mia dirimpettaia, col suo naso plebeo, mi richiama alla realtà, mi sveglia da questo sogno-incubo ricorrente che non ha mai sfiorato la sua piccola mente di donna pratica e razionale di cui gli uomini hanno tanto bisogno e con cui, nella maggioranza dei casi, concludono la vita, portano a termine il pensionamento e di tanto in tanto si danno i pizzichi per capire se sono ancora vivi, dopo aver dismesso ogni velleità di vita e perfino i sogni. E’ così che me li immagino. O forse è questo il modo più saggio di rispondere agli intrighi di quella misteriosa forza che domina la vita: inquadrarsi in un sistema preconfezionato, di cui si vede il principio e la fine e dove tutto è prevedibile e scontato. Forse è una sfida anche quella: vivere dentro la banalità e l’ipocrisia quotidiane. Dà più certezze vivere per una sola verità sulla quale non c’è da fare neanche lo spreco del pensiero, della riflessione, perché hanno pensato e riflettuto gli altri prima di noi, i pochi che ci hanno preconfezionato i modelli.

Non so se vivere ai confini di tante verità possibili in attesa che tutto accada per fare poi le proprie mosse, non so davvero se è saggezza o stupidità.

Sono tentata di mettere sul tavolo innanzitutto la discussione di questi miei pensieri, di investire la mia dirimpettaia della responsabilità di una risposta. Mi sbatterebbe in faccia la sorpresa dei suoi piccoli occhi scuri e tondi, che sembrano ancora più piccoli, dopo che si è fatta il trucco permanente, nella speranza di acquistare più fascino. Mi piacerebbe vederla alla ricerca di un’idea nella sua piccola mente schermata, un’idea da cercare dietro la corazza dei suoi pensieri prefabbricati con i quali affronta la vita e con i quali si mantiene (bene, direi) in piedi. E’ un modo furbo di vivere, perché funziona. Una partita a scacchi con le mosse suggerite dal sistema.

E’ per questo che insiste a riportarmi alla realtà: mi vede persa nella mia apatia, nella mia rinuncia a fare la guerra di don Chisciotte (ma lui veramente aveva capito tutto?).

Non avevo scelta: per le mie scarse conoscenze ludiche o il burraco o il bridge (che Dio ci scampi e liberi dal bridge, ogni volta che ci penso, come potete vedere, mi porto la mano alla fronte) oppure a scopa, che a dire il vero, mi era sembrato troppo allusivo, un po’ grossier, una caduta di stile. Questo mi è stato offerto ma avrei preferito, come si può immaginare, La partita a scacchi (“Paggio Fernando, perché mi guardi e non favelli’ “Guardo quegli occhi tuoi che son si’ belli”): che delicatezza di pensieri durante la partita che avesse una posta cosi romantica, e poi che certezze (domanda: “Che cosa guardi?”, risposta: “Guardo i tuoi occhi.”)

Ma non si può pretendere che tutti sappiano giocare a scacchi. Certo non mi sarei accontentata di mangiarmi pedoni e cavalli, ma mi sarebbe piaciuto esibire, a colpi di scacco al re e in questo caso alla regina, la mia superiorità di donna bella e intelligente (scusate la modestia), gliela avrei fatta vedere io la regina. E invece ogni mese sono inchiodata a questo burraco d’amore, che, amore a parte, mi suggerisce un inelegante e strafottente collegamento con un’ispirazione semantica di natura asinina, sebbene il burro spagnolo, l’asino, (da cui burraco, uguale, gioco da asini?) sia attualmente risarcito da un’interpretazione moderna di animale sensibile e intelligente, spagnolo che fosse o no.

Ma tant’è: è, appunto, la posta in gioco che vale.

Avevamo giocato al gatto e alla volpe per molti anni, anzi alla gatta e alla volpe, con ruoli intercambiabili: una volta gatta e una volta volpe, alternando furbizie a dolcezze, a seconda della strategia che ciascuna di noi riteneva di dover mettere in atto per far dispetto all’altra e registrare, nel comportamento del di cui sopra, cioè del colui in poltrona, piccole vittorie o brucianti umiliazioni: un appuntamento mancato, un ritardo a cena, un viaggio passato a litigare come se vi pesasse sopra il pensiero-seccia dell’altra che era rimasta a casa, e poi fiori per entrambe, equa produzione delle scopate, bacini, bacetti e gratificazioni di varia sorta, distribuite bene ad entrambe le parti.

Cosicché, a conti fatti, le file delle tacche delle vittorie e delle sconfitte, sulle quali si sarebbe potuto valutare un’eventuale vincitrice di una partita mai apertamente dichiarata, eppure accanitamente giocata, erano pari.

Lo decidemmo senza premeditazione, guardandoci finalmente negli occhi e prendendo il coraggio a quattro mani, essendo noi due donne con due mani per ciascuna.

Avremmo giocato una partita a carte ogni mese e, colei che avesse vinto, lo avrebbe tenuto nella sua casa more uxorio, per un mese appunto.

La cosa apparve di facile realizzazione: sarebbe bastata qualche correzione di tiro, due vestaglie da camera, raddoppio anche di pigiami e pullovers di cachemire, camicie, spazzolini da denti, saponette e profumi preferiti.

Ai libri avrebbe provveduto lui di volta in volta.

Ora siamo per l’ennesima volta lì, a giocare una partita che non volge al termine, perché intanto anche lei ha rimontato, e non sortisce in favore né dell’una, né dell’altra: sia pure con alterne vicende, la situazione è in stallo e non c’è verso di sbloccarla.

C’è una specie di divertimento del cosiddetto destino, una non bene identificata ironia della sorte di fronte alla quale ci sentiamo impotenti, pur mettendo le nostre mosse: il destino, la sorte, la fortuna, il karma, la tuch o che altro, sono rimasti immobili, ammirati del nostro coraggio, della nostra grande capacità di passione e hanno fermato la storia, (oppure stanno piegati in due per le risate davanti alla stupidità di due donne moderne e di pensiero avanzato?)

Così si è profilato l’ennesimo dubbio, che certamente non sarà neanche l’ultimo e a cui mi guardo bene dal dare un chiarimento: l’indecifrabile forza enne (vogliamo chiamarla Dio?) è ammirata del nostro coraggio o si sta schiantando dalle risate per la nostra stupidità.

Alla fine ci leviamo di scatto e simultaneamente, quasi per un tacito accordo sotterraneo, ineffabile, nel senso di non parlato, ci avviamo verso lo studio alla volta del “di cui sopra”.

Egli è là, dove l’abbiamo lasciato all’inizio del nostro racconto, affondato nella poltrona, con la testa quasi del tutto canuta morbidamente piegata su “Usi e costumi del popolo dei coleotteri”.

Solleva gli occhi azzurri verso di noi che gli spieghiamo la situazione e:

“Io che c’entro?”, chiede.

Anzi, dice.

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