Salve,
vi posto la prefazione che ho fatto per Le Tavole della Leggenda, romanzo di Paolo Borzi edito da Altredizioni. L'abbiamo presentato il 16 dicembre presso Aleph, a Trastevere.
Si tratta di un'opera innovativa e trasgressiva non soltanto rispetto alla logica di genere, ma anche e forse soprattutto rispetto all'espressione linguistica.
Ecco
Le
Tavole della Leggenda di Paolo Borzi.
I sogni
e le ragioni di una scrittura libertaria di Luciana Gravina
La disciplina creativa da cui questa opera discende,
formatta un testo generatore per eccellenza di un vortice di eventi narrativi
di straordinaria complessità.
E di innovazione.
Della funzione performativa della scrittura le Tavole
della Leggenda sono un esemplare rappresentativo, in virtù di un impasto
linguistico che magicamente mette in forma e “realizza” eventi cose personaggi
persone storie in un contesto improbabile, ma persuasivo, attivando
un’attitudine di barthesiana seduzione che dà illusione di assoluta storicità,
essendo l’oggetto del narrare incardinato in una materia (la Materia di
Britannia, appunto) antica quanto l’Europa stessa e più volte rifondata in
secoli di letteratura.
Si sa che un’opera, qualunque essa sia, si può definire
riuscita quando risulta essere ciò che voleva essere.
Ora, che cosa volesse essere questa fatica di Paolo
Borzi, è dichiarato dallo stesso autore, sia nella premessa che nel corpus
dell’opera stessa.
Innanzitutto“Romanzo
fuori genere, anzi di molti generi”, riconoscendosi nella ascendenza NIE e
addirittura consigliando una integrazione, e meno male, perché in qualche modo
si scrolla dei molti limiti del gruppo in questione e in questo aiutato anche
dal riferimento ad altro ascendente quale Pasolini.
Ma non è questo il de
cuius.
Penso a quando, emancipato da imposizioni autorevoli, lui,
poeta della storia prestato, almeno così mi è parso che egli si senta, alla
narrativa e smontati i limiti di genere (non a caso nel romanzo sono infilate
abilmente lunghe teorie di versi) sostiene che “il poema (e al termine poema mi sento di accostare anche questo
romanzo che da un poema deriva) è un
ingorgo di deformazioni organizzate, lo smontaggio del tempo cronologico in
vista del paradigma olografico” dove le incursioni del presente e del
futuro (non foss’altro per l’utopia) nel passato rendono percepibile la
valanga delle frequenze energetiche
per cui la sola scrittura ha abilità di fornire percezione di immagini, suoni,
odori e quante altre mai sensazioni passino sinesteticamente attraverso occhi,
orecchie, naso e pelle.
Bohm e Pribram e Aspect. Li dovremmo ringraziare per
avere disarcionato le nostre cavalcanti certezze e averci gettati allo
sbaraglio nella stratosfera delle illusioni, chè la nostra vita sarebbe del
tutto apparenza. Nella quale comunque continuiamo a sognare e a costruire una
realtà fittizia ma positiva, (e non c’è humus più fertile per gli scrittori e
per gli artisti in genere) sapendo che non approderemo mai alla realtà vera,
che esiste, ma non è percepibile da noi.
Miracoli della fisica quantistica.
E in questa realtà illusoria sembrerebbe che le Tavole ci
sguazzino molto bene.
Miracoli di una scrittura chiaroveggente e scanzonata,
classica e innovativa, saggia e irriverente, ironica, irruenta, ma soprattutto
slimitata e libertaria.
E cos’altro voleva ancora essere l’opera delle Tavole? Lo
vediamo a pag. 200, a proposito dell’uso che Merlino fa del male e del bene e
di come questo si legge nella Stele.
“Forse vuole dirci che non prese all’inizio
la strada giusta, perché fece maturare assieme costruzione e dissoluzione; e
parla ancora a noi cantastorie; che
scriviamo e riscriviamo di ciclo bretone e di utopie non solo per
amor di perpetua variazione a un Tema che si presta; ma anche per la sua
speciale sovrapponibilità ai casi storici, psicologici, politici e ideologici
di tutti i tempi successivi; e allora speriamo sempre che il nostro personale
edificio suggerisca vie narrative e filosofiche che siano alternative e nello
stesso tempo connaturate al “gene” originario, senza mai finire di riesumarlo e
porlo in una della tante prospettive possibili, sperando di contribuire alla
sua chiarificazione e volendo sempre sottolinearne ed esaltarne la fertilità.”
E allora questa storia,
quella raccontata dalla Stele, che è ad un tempo bene e male, costruzione e
dissoluzione, che ancora intriga i cantastorie perché scrivano e riscrivano, e
li ispira senza soluzione di continuità, è metastoria
che, dal disopra dei fatti, interroga le vie narrative e filosofiche per
carpire e capire le ragioni della coesistenza dei contrari e del suo mistero e
per continuare a nutrire imperterrita infinite “prospettive possibili”.
L’autore indica in questo
aspetto della Materia di Britannia la natura ispirativa, come una sorgente
incolpevole degli scenari immaginifici assolutamente border line sui quali si
attesta la sua fantasia.
In virtù di questa premessa,
cioè dell’audacia che discende dalla potenza della provocazione, e non tanto,
forse, per l’occhio obliquo della NIE, si legittima l’emancipazione dai vincoli
di genere. E chissà cosa ne direbbe Bacthin di un romanzo che ha smontato le strutture retoriche
dell’epica, ma che non rinunzia ad essere epico, e che è, ad un tempo,
narrazione di invenzione, trattato di storia e/o di filosofia, che non resta
congelato nel passato, ma si propone addirittura come ologramma con i suoi
infiniti pattern interagenti, e che non è narrazione della distanza, ma
contiene tutto l’autore con la sua cultura complessa e le sue passioni, e non
soltanto quelle intellettuali, se è capace di immaginare Lancillotto, il
Cavaliere Bianco, speculare e, ad un tempo, contestuale del Cavaliere Nero, con
tutto ciò che ne consegue, istanze esoteriche comprese.
Forse il di cui sopra Bacthin approverebbe,
perché vale l’audacia dell’ andare controcorrente, perché lo smontaggio delle strutture consolidate e note
comporta il rischio, ma anche la possibilità di un avanzamento dei processi
della conoscenza, perché è dentro questi contrasti che si costruisce la storia.
Perché vale l’impianto emozionale della distanza dalla passione e della passione
ad un tempo, di ironia e di canto, anche lirico, se appena è possibile, che non
vi abitano in contrasto ma coesistono nella consapevolezza delle contraddizioni
dell’animo umano.
Che le Tavole della Leggenda
siano un’opera che è riuscita ad essere ciò che voleva essere non metterei a
dubbio, perché muove il mentale, fomenta il pensiero, fa riflettere
sull’attualità dell’ipotesi e sulla necessità dell’Utopia.