domenica 26 giugno 2016

Il testo della settimana. Un racconto: Questione di voce

















Il testo di questa settimana: un racconto segnalato al Premio Montano

Questione di voce

Era alta un metro e settantacinque centimetri e, quanto a voce cantata, non aveva certo un talento naturale.
Cosicché  non cantava, né per diletto, né per professione. Lei esercitava la voce parlata, e, come tutti, la usava
come forma della rappresentazione del sé, come strumento di autoaffermazione,  come espressione della propria intimità e del suo modo di rapportarsi col mondo.
In questo senso lei aveva una voce speciale con cui agganciava l’interlocutore.
E lo soggiogava.
Si trattava di capire se ne avesse consapevolezza o no.
Quando la sentiva parlare, lui percepiva, nella sicurezza della modulazione e nell’uso provocatorio e affabulante di quella voce, una specie di incidente probatorio ricorrente che  denunciava piena consapevolezza del delitto di seduzione di cui, ogni volta che apriva la bocca, lei si macchiava. Perché, infatti, sebbene avesse razionalmente rimosso l’atavico pregiudizio che la bellezza e il fascino nella donna sono da considerarsi una colpa e comunque un male da cui proteggersi, tuttavia, davanti a un’opera di seduzione così patente e spietata, avvertiva una specie di sdegno, un’inquietudine non bene identificata.
Qualcosa non lo convinceva: era propenso a condannarla per premeditazione del delitto di seduzione fino a un certo punto, perché, per altro versante non molto chiaro e quindi poco enunciabile a parole,  si percepiva, nell’uso delle corde vocali e di tutto il resto dell’apparato fonatorio, un’attitudine innata e quindi spontanea, del tutto aliena da artifici e da ipocrite finzioni. E, poiché era  aduso a cercare la verità anche, e forse soprattutto, in elementi di intuizione, cioè in quelle regioni dell’essere che sfuggono alla ragione, era indotto a pensare che costei  affidasse alla voce, in maniera così suggestiva e pericolosa, la rappresentazione della sua più profonda intimità, per attitudine cromosomica, per una predisposizione di natura.
Forse ne era forse innamorato. Se mai avesse dovuto ammetterlo, non avrebbe saputo decidere se lo era perché quella voce cosiffatta era una dote, cioè una qualità innata (e quindi innocente) di fascino, oppure se la riteneva tale perché ne era innamorato.
Gli alimentava il dubbio Ovidio, (proprio il Nasonis) che di amores se ne intendeva e che sembrava consigliare di sospettare delle valutazioni positive che si fanno dell’amata, perché nella considerazione dell’innamorato, ciò che presso le altre è difetto, in colei é bellezza. Per esempio, le gambe sottili che normalmente diresti crura (stecchini), nella donna amata sono “gambe agili di gazzella”. E così via.
Pensava che l’incidenza d’amore, ammesso che fosse tale, passasse in misura preponderante attraverso la provocazione fonica al punto che lui si eccitava persino al solo sentirla nominare negli ambienti frequentati da entrambi.  Gli tornava alla mente quella antica e stupenda canzone napoletana (Fenesta vascia, 1916) in cui il cantore, il dedicatore, si sentiva ardere al sentire nominare la donna amata: (M’arde stu core comme na cannela / bella quannu te sentu annumenare).
Eternità dell’amore? 
Perennità dell’amore?
Pervicacia dell’amore?
Boh! Tant’è: lui così si sentiva, appunto, un incendio al posto del cuore, quando gliela nominavano. Immaginava allora il suo  “vil muscolo nocivo” ridotto a un moccolo di candela, magari rosso.
E acceso.
E allora, pensa lettore, che cosa gli succedeva ogni volta che la sentiva parlare: gli sembrava di vibrare come se fosse investito da un’eco o come se fosse Eco in persona, la ninfa che si consunse d’amore, al punto che  di lei rimase soltanto la “voce”, destinata a vagare per l’infinito.
Forse era per questa suggestione che gli sembrava che, ogni volta che quella voce bussava ai suoi timpani, l’evento acustico fosse davvero straordinario, perché quella  voce era...

L’aveva alta.
Si istallava  su un’ottava centrale e non soltanto quando leggeva le sue poesie nelle manifestazioni  o negli happening, ma anche quando la usava a scopo colloquiale con le persone, uomini e donne che fossero, giovani e vecchi, artisti o no
L’aveva morbida.
Le veniva su dal basso ventre, attraversava il corpo, massaggiandole cuore e polmoni, mentre il diaframma, inarcandosi, le assecondava l’uscita.
Attaccava di sol che non è isterico come il mi, che proprio per questo, quando è sulla chitarra si chiama “mi cantino”, non è romantico come il re, tragico come il do, basilare come il la, non è ballerino come il si, ma, pur trovandosi poco oltre il centro, contiene in nuce tutte queste caratteristiche e dà a tutte le note il giusto equilibrio.
L’aveva rotonda.
Si sviluppava in volute svelte, eleganti, anche quando strategicamente vibrava sui tasti neri, cioè sui diesis e sui bemolle, cosa su cui insisteva soprattutto se notava un interlocutore che, a bocca aperta o no, si lasciava avvolgere dalla rotondezza  dell’evento acustico, a cui  lei stessa, che lo produceva, si abbandonava, accentuando ogni sinuosità e ogni anfratto per il godimento  che se ne poteva fruire.
L’aveva limpida.
Le usciva di bocca cristallina, sotto forma di biglie iridate non piccole, né grandi, ma di misura giusta, perché arrivassero al volto dell’altro con un colpo ben calibrato, come dire, anziché a pesci in faccia, a voce in viso.
L’aveva diretta.
Andava diritta all’altro o agli altri, a seconda che parlava a uno solo o a un gruppo di persone o faceva una conferenza, senza giri ipocriti, e senza evoluzioni inessenziali, con la stessa sfrontatezza di uno sguardo coraggioso o di una stretta di mano leale.
Forse era così che parlava Econinfa, con queste qualità che fecero della sua voce un elemento destinato nell’immaginario collettivo arcaico a rappresentare una forma di immortalità.
Dava l’esatta idea di ciò che resta di un essere umano, il cui corpo è fatalmente consegnato alla dissoluzione per una legge insita nel processo di Amore, come se l’annientamento dell’Io fosse  funzionale all’affermazione dell’Altro.
Tuttavia, l’Io rinasceva come eco di sé, permanente e universale.
Per questo quella voce zampillava come acqua inesauribile, rinnovandosi senza sosta.
Eppure, sebbene queste considerazioni metafisiche, archetipiche, intellettuali, immaginifiche calzassero a lei persona a pennello, “la voce” si affermava così prepotentemente presso di lui  per altri motivi.
L’avrebbe, infatti, riconosciuta anche al buio, nel deserto del Gobi o in un corteo di femministe urlanti, mescolata agli ululati del vento nella foresta o nel traffico di Piazza Venezia, perché non gli colpiva il volto, l’udito o l’ipofisi o l’immaginazione, ma gli dava una botta a un organo collocato per legge di natura più in basso del basso ventre e che la gente volgare, ma quella proprio volgare, suole denominare in un modo che qui non si può dire.
Forse perché quella voce era alta e morbida, rotonda e limpida, modulata e diretta.
La riconosceva ancor prima che lei varcasse la soglia della sala riunioni, ai Consigli di Amministrazione.
La sentiva annunciarsi, mentre si delimitava già prima dell’inizio della seduta, il territorio per combattere, quale che fosse la battaglia.
Con quella voce aveva transitato nel femminismo, portandosi in testa il suo labirinto-foemina, come una corona da regina.
E’ pur vero che aveva anche altre qualità: naso greco, bocca piena, mani quasi aristocratiche e, soprattutto, un fondoschiena che si slargava in basso, a forma di mandòla, di grande effetto e di sicura provocazione, e che lei si portava appresso ben schiacciato nei jeans, ma percepibile in tutte le sue fattezze anche sotto gonne larghe e vestiti, appunto come uno strumento musicale, come un privilegiato testimonial della sua personalità da artista.
Camminava con passo bene attaccato al suolo, arpionando l’asfalto,e nello stesso tempo sembrava che si staccasse a dieci centimetri da terra, quasi che avesse sotto i piedi un cuscinetto d’aria, sia che portasse scarpe, sia sandali o zoccoli.
Forse era di quelle donne che si perdono aggirandosi per casa, o che si giocano un uomo a burraco. O di quelle che, quando hanno una ferita dentro, se la portano a tracolla, come la fascia dorata delle reginette di bellezza.
Insomma non era, o a lui non appariva, come tante altre.  
Tuttavia quella di colei restava pur sempre una questione di voce, al punto che  sabato scorso, alla vernice di Anton Tàpies, presso la Galleria Gaspar, avendogli lei rivolto la parola, anzi la voce, ne era rimasto folgorato: ma non tanto da perdere i sensi, come dice di sé Dante (vedi Vita Nova) al saluto di Beatrice, bensì piuttosto con gli effetti da emozione travolgente, che squassa le membra, quali li descrive Saffo nel famoso “fàinetai moi kénos” alla vista dell’amata e cioè:
      lingua che s’inceppa,
      fuoco sottile che corre sotto la pelle,
      vista che si oscura,
      sudorazione improvvisa,
“sono più verde dell’erba/e quasi morta mi sento”, aveva detto appunto Saffo (frammento n. 31).
Quando si riebbe, fu invaso da uno strano eppur legittimo desiderio.
Avrebbe voluto adagiarla per terra e cercarla in mezzo alle gambe, nel punto in cui la stoffa dei jeans e degli slip si sarebbe spontaneamente aperta, senza che vi fossero ganci la slacciare, cerniere o bottoni, e…
L’avrebbe scopata lì, pardon, le avrebbe fatto l’amore, proprio lì, sulla moquette nera, tra i piedi  della gente, visibili o invisibili, pas de problème, sor­ridendo come l’Apollo di Veio, anzi ridendo. Glielo avrebbe fatto a lungo, pur­chè lei avesse continuato a parlargli con quella sua voce  alta e morbida, rotonda e limpida, modulata e diretta, che non gli colpiva il viso, l’udito, l’ipofisi o l’immaginazione, ma gli dava una botta all’ organo collocato per legge di natura più in basso del basso ventre e che la gente volgare, quella proprio volgare, suole chiamare in un modo che qui non si può dire.
Forse perché quella voce, appunto, era alta e morbida, rotonda e limpida, modulata e diretta.


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