Il testo di questa settimana: un racconto segnalato al Premio Montano
Questione di voce
Era alta un metro e
settantacinque centimetri e, quanto a voce cantata, non aveva certo un talento
naturale.
Cosicché non cantava, né per diletto, né per
professione. Lei esercitava la voce parlata, e, come tutti, la usava
come forma della rappresentazione del sé, come strumento di autoaffermazione, come espressione della propria intimità e del suo modo di rapportarsi col mondo.
come forma della rappresentazione del sé, come strumento di autoaffermazione, come espressione della propria intimità e del suo modo di rapportarsi col mondo.
In questo senso lei
aveva una voce speciale con cui agganciava l’interlocutore.
E lo soggiogava.
Si trattava di
capire se ne avesse consapevolezza o no.
Quando la sentiva
parlare, lui percepiva, nella sicurezza della modulazione e nell’uso
provocatorio e affabulante di quella voce, una specie di incidente probatorio
ricorrente che denunciava piena
consapevolezza del delitto di seduzione di cui, ogni volta che apriva la bocca,
lei si macchiava. Perché, infatti, sebbene avesse razionalmente rimosso
l’atavico pregiudizio che la bellezza e il fascino nella donna sono da
considerarsi una colpa e comunque un male da cui proteggersi, tuttavia, davanti
a un’opera di seduzione così patente e spietata, avvertiva una specie di
sdegno, un’inquietudine non bene identificata.
Qualcosa non lo
convinceva: era propenso a condannarla per premeditazione del delitto di
seduzione fino a un certo punto, perché, per altro versante non molto chiaro e
quindi poco enunciabile a parole, si
percepiva, nell’uso delle corde vocali e di tutto il resto dell’apparato
fonatorio, un’attitudine innata e quindi spontanea, del tutto aliena da
artifici e da ipocrite finzioni. E, poiché era
aduso a cercare la verità anche, e forse soprattutto, in elementi di
intuizione, cioè in quelle regioni dell’essere che sfuggono alla ragione, era
indotto a pensare che costei affidasse
alla voce, in maniera così suggestiva e pericolosa, la rappresentazione della
sua più profonda intimità, per attitudine cromosomica, per una predisposizione
di natura.
Forse ne era forse
innamorato. Se mai avesse dovuto ammetterlo, non avrebbe saputo decidere se lo
era perché quella voce cosiffatta era una dote, cioè una qualità innata (e
quindi innocente) di fascino, oppure se la riteneva tale perché ne era
innamorato.
Gli alimentava il
dubbio Ovidio, (proprio il Nasonis) che di amores se ne intendeva e che
sembrava consigliare di sospettare delle valutazioni positive che si fanno
dell’amata, perché nella considerazione dell’innamorato, ciò che presso le
altre è difetto, in colei é bellezza. Per esempio, le gambe sottili che
normalmente diresti crura (stecchini), nella donna amata sono “gambe agili di
gazzella”. E così via.
Pensava che
l’incidenza d’amore, ammesso che fosse tale, passasse in misura preponderante
attraverso la provocazione fonica al punto che lui si eccitava persino al solo
sentirla nominare negli ambienti frequentati da entrambi. Gli tornava alla mente quella antica e
stupenda canzone napoletana (Fenesta vascia, 1916) in cui il cantore, il
dedicatore, si sentiva ardere al sentire nominare la donna amata: (M’arde stu
core comme na cannela / bella quannu te sentu annumenare).
Eternità
dell’amore?
Perennità dell’amore?
Pervicacia
dell’amore?
Boh! Tant’è: lui
così si sentiva, appunto, un incendio al posto del cuore, quando gliela
nominavano. Immaginava allora il suo
“vil muscolo nocivo” ridotto a un moccolo di candela, magari rosso.
E acceso.
E allora, pensa
lettore, che cosa gli succedeva ogni volta che la sentiva parlare: gli sembrava
di vibrare come se fosse investito da un’eco o come se fosse Eco in persona, la
ninfa che si consunse d’amore, al punto che
di lei rimase soltanto la “voce”, destinata a vagare per l’infinito.
Forse era per
questa suggestione che gli sembrava che, ogni volta che quella voce bussava ai
suoi timpani, l’evento acustico fosse davvero straordinario, perché quella voce era...
L’aveva alta.
Si istallava su un’ottava centrale e non soltanto quando
leggeva le sue poesie nelle manifestazioni
o negli happening, ma anche quando la usava a scopo colloquiale con le
persone, uomini e donne che fossero, giovani e vecchi, artisti o no
L’aveva morbida.
Le veniva su dal
basso ventre, attraversava il corpo, massaggiandole cuore e polmoni, mentre il
diaframma, inarcandosi, le assecondava l’uscita.
Attaccava di sol
che non è isterico come il mi, che proprio per questo, quando è sulla chitarra
si chiama “mi cantino”, non è romantico come il re, tragico come il do,
basilare come il la, non è ballerino come il si, ma, pur trovandosi poco oltre
il centro, contiene in nuce tutte queste caratteristiche e dà a tutte le note
il giusto equilibrio.
L’aveva rotonda.
Si sviluppava in
volute svelte, eleganti, anche quando strategicamente vibrava sui tasti neri,
cioè sui diesis e sui bemolle, cosa su cui insisteva soprattutto se notava un
interlocutore che, a bocca aperta o no, si lasciava avvolgere dalla
rotondezza dell’evento acustico, a
cui lei stessa, che lo produceva, si
abbandonava, accentuando ogni sinuosità e ogni anfratto per il godimento che se ne poteva fruire.
L’aveva limpida.
Le usciva di bocca
cristallina, sotto forma di biglie iridate non piccole, né grandi, ma di misura
giusta, perché arrivassero al volto dell’altro con un colpo ben calibrato, come
dire, anziché a pesci in faccia, a voce in viso.
L’aveva diretta.
Andava diritta
all’altro o agli altri, a seconda che parlava a uno solo o a un gruppo di
persone o faceva una conferenza, senza giri ipocriti, e senza evoluzioni
inessenziali, con la stessa sfrontatezza di uno sguardo coraggioso o di una
stretta di mano leale.
Forse era così che
parlava Econinfa, con queste qualità che fecero della sua voce un elemento
destinato nell’immaginario collettivo arcaico a rappresentare una forma di
immortalità.
Dava l’esatta idea
di ciò che resta di un essere umano, il cui corpo è fatalmente consegnato alla
dissoluzione per una legge insita nel processo di Amore, come se
l’annientamento dell’Io fosse funzionale
all’affermazione dell’Altro.
Tuttavia, l’Io
rinasceva come eco di sé, permanente e universale.
Per questo quella
voce zampillava come acqua inesauribile, rinnovandosi senza sosta.
Eppure, sebbene
queste considerazioni metafisiche, archetipiche, intellettuali, immaginifiche
calzassero a lei persona a pennello, “la voce” si affermava così
prepotentemente presso di lui per altri
motivi.
L’avrebbe, infatti,
riconosciuta anche al buio, nel deserto del Gobi o in un corteo di femministe
urlanti, mescolata agli ululati del vento nella foresta o nel traffico di
Piazza Venezia, perché non gli colpiva il volto, l’udito o l’ipofisi o
l’immaginazione, ma gli dava una botta a un organo collocato per legge di
natura più in basso del basso ventre e che la gente volgare, ma quella proprio
volgare, suole denominare in un modo che qui non si può dire.
Forse perché quella
voce era alta e morbida, rotonda e limpida, modulata e diretta.
La riconosceva
ancor prima che lei varcasse la soglia della sala riunioni, ai Consigli di
Amministrazione.
La sentiva
annunciarsi, mentre si delimitava già prima dell’inizio della seduta, il
territorio per combattere, quale che fosse la battaglia.
Con quella voce
aveva transitato nel femminismo, portandosi in testa il suo labirinto-foemina,
come una corona da regina.
E’ pur vero che
aveva anche altre qualità: naso greco, bocca piena, mani quasi aristocratiche
e, soprattutto, un fondoschiena che si slargava in basso, a forma di mandòla,
di grande effetto e di sicura provocazione, e che lei si portava appresso ben
schiacciato nei jeans, ma percepibile in tutte le sue fattezze anche sotto
gonne larghe e vestiti, appunto come uno strumento musicale, come un
privilegiato testimonial della sua personalità da artista.
Camminava con passo
bene attaccato al suolo, arpionando l’asfalto,e nello stesso tempo sembrava che
si staccasse a dieci centimetri da terra, quasi che avesse sotto i piedi un
cuscinetto d’aria, sia che portasse scarpe, sia sandali o zoccoli.
Forse era di quelle
donne che si perdono aggirandosi per casa, o che si giocano un uomo a burraco.
O di quelle che, quando hanno una ferita dentro, se la portano a tracolla, come
la fascia dorata delle reginette di bellezza.
Insomma non era, o
a lui non appariva, come tante altre.
Tuttavia quella di
colei restava pur sempre una questione di voce, al punto che sabato scorso, alla vernice di Anton Tàpies,
presso la Galleria Gaspar, avendogli lei rivolto la parola, anzi la voce, ne
era rimasto folgorato: ma non tanto da perdere i sensi, come dice di sé Dante
(vedi Vita Nova) al saluto di Beatrice, bensì piuttosto con gli effetti da
emozione travolgente, che squassa le membra, quali li descrive Saffo nel famoso
“fàinetai moi kénos” alla vista dell’amata e cioè:
lingua che s’inceppa,
fuoco sottile che corre sotto la pelle,
vista che si oscura,
sudorazione improvvisa,
“sono più verde
dell’erba/e quasi morta mi sento”, aveva detto appunto Saffo (frammento n. 31).
Quando si riebbe,
fu invaso da uno strano eppur legittimo desiderio.
Avrebbe voluto
adagiarla per terra e cercarla in mezzo alle gambe, nel punto in cui la stoffa
dei jeans e degli slip si sarebbe spontaneamente aperta, senza che vi fossero
ganci la slacciare, cerniere o bottoni, e…
L’avrebbe scopata
lì, pardon, le avrebbe fatto l’amore, proprio lì, sulla moquette nera, tra i
piedi della gente, visibili o
invisibili, pas de problème, sorridendo come l’Apollo di Veio, anzi ridendo.
Glielo avrebbe fatto a lungo, purchè lei avesse continuato a parlargli con quella
sua voce alta e morbida, rotonda e
limpida, modulata e diretta, che non gli colpiva il viso, l’udito, l’ipofisi o
l’immaginazione, ma gli dava una botta all’ organo collocato per legge di
natura più in basso del basso ventre e che la gente volgare, quella proprio
volgare, suole chiamare in un modo che qui non si può dire.
Forse perché quella voce, appunto, era alta e morbida, rotonda e limpida, modulata e diretta.
Forse perché quella voce, appunto, era alta e morbida, rotonda e limpida, modulata e diretta.
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