Ma, insomma, dove sta Zazà?
Zazà si era perduta
nella folla, o si era allontanata volontariamente per misteriosi motivi?
Era questo il
dubbio amletico
che pullulava nella mia mente ogni volta che sul grammofono di casa qualcuno accordava la puntina col disco di vinile per ascoltare "Dove sta Zazà", canzone napoletana del 1944, di Raffaele Cutolo e Giuseppe Cioffi.
che pullulava nella mia mente ogni volta che sul grammofono di casa qualcuno accordava la puntina col disco di vinile per ascoltare "Dove sta Zazà", canzone napoletana del 1944, di Raffaele Cutolo e Giuseppe Cioffi.
Mi sconcertava
innanzitutto il contrasto tra il ritmo-forma della musica (una marcetta
allegra) e l'essenza drammatica del testo verbale afferente al concetto di
perdita, derelizione, abbandono, sofferenza, e così via (ma era ovviamente una
sensazione inconsapevole).
Per di più, come
spesso accade, facevo attenzione soltanto alla prima strofa, perché essendo
molto giovane, anzi bambina, non avevo la pazienza di ascoltare tutta la
canzone dall'inizio alla fine.
Il più delle volte
la mia immaginazione cominciava presto a vagare sul ritmo allegro della
canzone, indugiando acriticamente sulla mai verificata ipotesi che, a perdersi nella folla della festa di San Gennaro, fosse
una cagnetta la quale, o si era persa, appunto, o si era allontanata
volontariamente.
Solo molti anni più tardi avrei fatto
attenzione all'espressione "S’
fumar'n'a Zazà" che chiaramente formulava l'ipotesi ufficiale di un
rapimento e ancora oggi mi chiedo come
mai non avessi notato la frase che chiarisce la scomparsa di Zazà e cioè “s’
fumar’n’ a Zazà”, nel senso “la fecero scomparire come mandandola in fumo”.
Questo aveva avvalorato l’ipotesi che
si trattasse di una cagnetta, una versione femmina di Dudù, il cane della mia
infanzia che alla fine aveva preso la rabbia e avevano dovuto sopprimerlo.
Quella operazione era avvenuta nel
cuore della notte ed era stata organizzata dalla tribù familiare (nonna, padre,
madre, zie, zii, vicini) all’insaputa dei bambini così affezionati a Dudù (e
viceversa), ma io sotto le coperte stavo ad occhi sbarrati e avevo udito lo
sparo del fucile nel canale della fontana vecchia.
Tornando a Zazà, si poteva facilmente
convenire che una cagnetta graziosa potesse far gola a qualcuno: per esempio a un papà che
l’avrebbe portata al suo bambino malato, et similia, cosicché fino ad allora avevo sempre pensato:
-che Zazà fosse un cane, anzi una
cagnetta perduta nella folla,
-che il suo padrone
la cercasse disperatamente, con teatralità squisitamente partenopea,
-che non era chiaro
se si era involontariamente perduta, o se si era volontariamente sottratta,
insomma era scappata.
Alla certezza che
trattavasi di soggetto femminile ero pervenuta presto, ma non mi aveva aiutata
l’analisi del nome.
Mi sembrava che la
denominazione Zazà fosse di per sé
sufficiente a spiegare la natura e il sesso del soggetto, avendo considerato
che, terminando per “ a”, non potesse essere applicabile a maschio e per donna
fosse un po’ offensivo, stanti tutte quelle “zeta”. Anzi, l’accento sull’ultima
sillaba, così sfacciato e al limite dell’osceno lo rendeva sicuramente adatto a
un cane.
Era poi il contesto
che non lasciava dubbi sul sesso:
"Era la festa
d' San Gennar' / quanta folla per la via/ cu Zazà cumpagna mia / ce ne jett'm'
a passià."
Trattavasi di sesso
femminile e di cane, sia per le ragioni suddette e sia perché nella fantasia (e
anche nella realtà) di un bambino un cane è un compagno o compagna di sicura
elezione.
Quanto al dubbio di
cui al terzo punto e cioè se Zazà si fosse persa nella folla o si fosse
allontanata per sua determinazione, sebbene non potessi scioglierlo con
elementi di razionalità, coltivavo occultamente delle propensioni per la
seconda ipotesi.
Mi piaceva optare
per una fuga intenzionale, per una ribellione.
Non potevo fare a
meno di ricordare la mia fuga dall’asilo e cioè:
-anni cinque;
-asilo privato (io
non andavo all’asilo comune delle monache);
-maestra Pacetti di
cognome, Luigia di nome): un’istituzione preposta all’educazione culturale,
morale e religiosa dei bambini delle famiglie bene del paese (severa, anzi
feroce, zitella – rinsecchita – colta – crocchietta grigia, amata da genitori e
figli come un male necessario, la cui sola evocazione riusciva a far tracannare
l’olio di ricino nel rituale della purga al cambio di stagione);
-ubicazione
dell’asilo in abitazione domestica costituita da scala con gradini traballanti
di pietra, (colore predominante: grigio), cucina con pavimento sconnesso di
cotto, grande camino affumicato, terrazzino con basilico, ragnatele, cenere, fumo, (colore
predominante: buio), stanza da letto, cioè aula con due file dirimpettaie di
panchetti bassi, solo il sedile (ciascuno si era portato il suo da casa) e
angolo con letto a una piazza di ferro battuto e coperta bianca a uncinetto
(colore predominante: quello della
polvere);
-ore e ore di
immobilità fisica a recitare preghiere e poesie.
Spesso, per fare un
fioretto da offrire a Gesù da noi offeso tante volte nella giornata con peccati
di pensiero, di parole e di opere, dovevamo osservare cinque minuti di
silenzio.
Non si ricordava
nel paese, a memoria d’uomo, bambino che avesse frignato più di me al primo giorno
di asilo e anche al secondo, al terzo, al quarto, per tanto tempo e con tale
testardagine da rendere necessario l’allontanamento dagli altri.
Fui rinchiusa al
buio nella cucina con doppia mandata della grande chiave di ferro nell’antica
serratura sulla porta esterna.
Era d’estate.
Fuori il caldo
affogava le cose e illuminava di una luce senza respiro la strada, i tetti
delle case, la piazza.
Nell’afa le foglie
dei platani davanti alla chiesa tremolavano.
Quando mi trovai in
strada a correre verso casa, stordita dal sole e dallo sferragliare delle
carovane dei muli dei carbonai, che a quell’ora già tornavano dalle montagne,
non mi ricordavo come avevo fatto a rompere la serratura, a saltare per gli
scalini sconnessi, a eludere la severa sorveglianza.
Non seppi mai dirlo
a quelli (padre, zia, nonna) che mi ripresero per un braccio e al volo mi
riportarono a sedere sul mio panchetto di fronte alla maestra.
Era per questo che,
quando qualcuno a casa accordava la puntina al disco di vinile e si spandeva nell’aria la marcetta allegra di
Zazà, indugiavo sempre più sull’ipotesi che una cagnetta scodinzolante e
impunita avesse potuto cercare l’aria e il sole, alla faccia del padrone piagnone che si disperava tanto.
Me ne derivava una
sensazione di risarcimento, una consolazione non richiesta, una non bene
identificata gioia alla quale mi piaceva abbandonarmi.
Questa condizione
non tardò ad essere minacciata dall’attenzione che in seguito posi al testo
integrale della canzone che mi consentì di aggiungere alle mie conoscenze nuovi
elementi, e cioè:
- la persona che
piange e si dispera per il rapimento di Zazà (perché era ormai assodato che “s’ l’erano fumata”) è un tale di nome Isaia;
- Zazà non è un
cane femmina, ma una donna, e anche molto bella;
- Isaia chiede
aiuto a tutti, banda musicale compresa (jammul’a truvà con la banda in testa)
per cercare Zazà;
- nel caso non
dovessero trovare lei (ch’è tanto bella), Isaia si accontenterebbe di trovare
la sorella;
- anche a lei
direbbe: “t’amerò, t’amerò, t’amerò. Isaia sta cca, Isaia sta cca, Isaia sta
cca”.
Questo cambiava lo
scenario in maniera incontrovertibile e assolutamente convincente e al quale,
tuttavia, accedevo con difficoltà.
Mi stupiva, infatti, la persistenza (nella mia
immaginazione) piacevole ed equivoca della figura canina a cui, per dovere di
adesione all’esito filologico, continuamente tentavo di sovrapporre quella
della donna, ma che alla donna resisteva imperterrita, cagnetta paffuta e
riccioluta che fosse.
Mi sembrava anche
che forse a un cane si potesse riservare il disgustoso comportamento di un uomo
pronto a consolarsi con la sorella alla quale avrebbe detto le stesse frasi (o
le stesse bugie?), ma non certo a una donna.
E poi neanche
questa cagnetta se lo meritava.
Continuavo a parcheggiare
con la fantasia su questa figura di
cagna dalla personalità adombrata dal suo mistero equivoco, insomma su quella
postazione ambigua in bilico tra fragilità e trasgressione: si era persa, o era
scappata?
Pensavo per
l'appunto che nel processo di pullulazione di questa creatura immaginaria fosse
intervenuta come causale, non tanto, o non soltanto la disinformazione, la
fretta o la superficialità, ma anche una
goduria dell'anima non bene identificata, una concausa non analizzata fino in
fondo.
Mi sembrava che nell’atto
di mettere a posto tutti i tasselli ci fosse un fastidio, il rifiuto di un
frastuono.
Forse si trattava
eliminare definitivamente la fonte della nozione (o dell’emozione?) per cui
Zazà mi era sembrato un cane, anzi, una cana.
Poiché la nozione
non emerge da testo verbale della canzone, e tantomeno dalla melodia o dalle
varie interpretazioni ascoltate, e cioè, non essendo possibile individuare
nemmeno un fascio semantico con referente zoologico e nemmeno una virgola a
forma di cane, o un mi, un do, un diesis, un solo bemolle a guaito di cane, è
legittimo ritenere che l’identificazione di Zazà col quadrupede, di cui sopra,
potesse essere il frutto puro e primigenio della mia fantasia.
Oppure questa
sensazione doveva essere spiegata al di fuori del contesto della canzone.
Doveva darsi per
scontato, chiaro, anzi lapalissiano che Zazà fosse stata rapita, ma poteva
anche trattarsi del dubbio e del sospetto di Isaia di cui l’autore del testo si
faceva portavoce con un’affermazione apparentemente incontrovertibile.
Eppure, quanto a
me, sebbene fossi venuta a conoscenza della vera verità, non riuscivo a
sostituirla nella mia testa all'idea che me ne ero fatta prima, se non con
immani sforzi di razionalizzazione, e mi accadeva che, ogni volta che ascoltavo
"Dove sta Zazà", non potevo fare a meno di pensare alla protagonista
come ad un cane femmina e al dubbio primigenio che fingevo di non avere mai
sciolto:
- era Zazà una
cagnetta che si era perduta nella folla della festa di San Gennaro,
- oppure Zazà,
approfittando della folla e annusando aria di libertà, si era, come suol dirsi
in soldoni, "squagliata"?
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