venerdì 1 luglio 2016

Il testo della settimana: Ma insomma, dove sta Zazà?












 
Ma, insomma, dove sta Zazà?

Zazà si era perduta nella folla, o si era allontanata volontariamente per misteriosi motivi?
Era questo il dubbio amletico
che pullulava nella mia mente ogni volta che sul grammofono di casa qualcuno accordava la puntina col disco di vinile per ascoltare "Dove sta Zazà", canzone napoletana del 1944, di Raffaele Cutolo e Giuseppe Cioffi.
Mi sconcertava innanzitutto il contrasto tra il ritmo-forma della musica (una marcetta allegra) e l'essenza drammatica del testo verbale afferente al concetto di perdita, derelizione, abbandono, sofferenza, e così via (ma era ovviamente una sensazione inconsapevole). 
Per di più, come spesso accade, facevo attenzione soltanto alla prima strofa, perché essendo molto giovane, anzi bambina, non avevo la pazienza di ascoltare tutta la canzone dall'inizio alla fine.
Il più delle volte la mia immaginazione cominciava presto a vagare sul ritmo allegro della canzone, indugiando acriticamente sulla mai verificata ipotesi che, a perdersi  nella folla della festa di San Gennaro, fosse una cagnetta la quale, o si era persa, appunto, o si era allontanata volontariamente.
Solo molti anni più tardi avrei fatto attenzione  all'espressione "S’ fumar'n'a Zazà" che chiaramente formulava l'ipotesi ufficiale di un rapimento  e ancora oggi mi chiedo come mai non avessi notato la frase che chiarisce la scomparsa di Zazà e cioè “s’ fumar’n’ a Zazà”, nel senso “la fecero scomparire come mandandola in fumo”.
Questo aveva avvalorato l’ipotesi che si trattasse di una cagnetta, una versione femmina di Dudù, il cane della mia infanzia che alla fine aveva preso la rabbia e avevano dovuto sopprimerlo.
Quella operazione era avvenuta nel cuore della notte ed era stata organizzata dalla tribù familiare (nonna, padre, madre, zie, zii, vicini) all’insaputa dei bambini così affezionati a Dudù (e viceversa), ma io sotto le coperte stavo ad occhi sbarrati e avevo udito lo sparo del fucile nel canale della fontana vecchia.
Tornando a Zazà, si poteva facilmente convenire che una cagnetta graziosa potesse far gola  a qualcuno: per esempio a un papà che l’avrebbe portata al suo bambino malato, et similia, cosicché  fino ad allora avevo sempre pensato:
-che Zazà fosse un cane, anzi una cagnetta perduta nella folla,
-che il suo padrone la cercasse disperatamente, con teatralità squisitamente partenopea,
-che non era chiaro se si era involontariamente perduta, o se si era volontariamente sottratta, insomma era scappata.
Alla certezza che trattavasi di soggetto femminile ero pervenuta presto, ma non mi aveva aiutata l’analisi del nome.
Mi sembrava che la denominazione Zazà  fosse di per sé sufficiente a spiegare la natura e il sesso del soggetto, avendo considerato che, terminando per “ a”, non potesse essere applicabile a maschio e per donna fosse un po’ offensivo, stanti tutte quelle “zeta”. Anzi, l’accento sull’ultima sillaba, così sfacciato e al limite dell’osceno lo rendeva sicuramente adatto a un cane. 
Era poi il contesto che non lasciava dubbi sul sesso:
"Era la festa d' San Gennar' / quanta folla per la via/ cu Zazà cumpagna mia / ce ne jett'm' a passià."
Trattavasi di sesso femminile e di cane, sia per le ragioni suddette e sia perché nella fantasia (e anche nella realtà) di un bambino un cane è un compagno o compagna di sicura elezione.
Quanto al dubbio di cui al terzo punto e cioè se Zazà si fosse persa nella folla o si fosse allontanata per sua determinazione, sebbene non potessi scioglierlo con elementi di razionalità, coltivavo occultamente delle propensioni per la seconda ipotesi.
Mi piaceva optare per una fuga intenzionale, per una ribellione.
Non potevo fare a meno di ricordare la mia fuga dall’asilo e cioè:
-anni cinque;
-asilo privato (io non andavo all’asilo comune delle monache);
-maestra Pacetti di cognome, Luigia di nome): un’istituzione preposta all’educazione culturale, morale e religiosa dei bambini delle famiglie bene del paese (severa, anzi feroce, zitella – rinsecchita – colta – crocchietta grigia, amata da genitori e figli come un male necessario, la cui sola evocazione riusciva a far tracannare l’olio di ricino nel rituale della purga al cambio di stagione);
-ubicazione dell’asilo in abitazione domestica costituita da scala con gradini traballanti di pietra, (colore predominante: grigio), cucina con pavimento sconnesso di cotto, grande camino affumicato, terrazzino con basilico,  ragnatele, cenere, fumo, (colore predominante: buio), stanza da letto, cioè aula con due file dirimpettaie di panchetti bassi, solo il sedile (ciascuno si era portato il suo da casa) e angolo con letto a una piazza di ferro battuto e coperta bianca a uncinetto (colore predominante: quello della  polvere);
-ore e ore di immobilità fisica a recitare preghiere e poesie.
Spesso, per fare un fioretto da offrire a Gesù da noi offeso tante volte nella giornata con peccati di pensiero, di parole e di opere, dovevamo osservare cinque minuti di silenzio.
Non si ricordava nel paese, a memoria d’uomo, bambino che avesse frignato più di me al primo giorno di asilo e anche al secondo, al terzo, al quarto, per tanto tempo e con tale testardagine da rendere necessario l’allontanamento dagli altri.
Fui rinchiusa al buio nella cucina con doppia mandata della grande chiave di ferro nell’antica serratura sulla porta esterna.
Era d’estate.
Fuori il caldo affogava le cose e illuminava di una luce senza respiro la strada, i tetti delle case, la piazza.
Nell’afa le foglie dei platani davanti alla chiesa tremolavano.
Quando mi trovai in strada a correre verso casa, stordita dal sole e dallo sferragliare delle carovane dei muli dei carbonai, che a quell’ora già tornavano dalle montagne, non mi ricordavo come avevo fatto a rompere la serratura, a saltare per gli scalini sconnessi, a eludere la severa sorveglianza.
Non seppi mai dirlo a quelli (padre, zia, nonna) che mi ripresero per un braccio e al volo mi riportarono a sedere sul mio panchetto di fronte alla maestra.
Era per questo che, quando qualcuno a casa accordava la puntina al disco di vinile e si  spandeva nell’aria la marcetta allegra di Zazà, indugiavo sempre più sull’ipotesi che una cagnetta scodinzolante e impunita avesse potuto cercare l’aria e il sole, alla faccia del padrone  piagnone che si disperava tanto.
Me ne derivava una sensazione di risarcimento, una consolazione non richiesta, una non bene identificata gioia alla quale mi piaceva abbandonarmi.
Questa condizione non tardò ad essere minacciata dall’attenzione che in seguito posi al testo integrale della canzone che mi consentì di aggiungere alle mie conoscenze nuovi elementi, e cioè:
- la persona che piange e si dispera per il rapimento di Zazà (perché era  ormai assodato che “s’ l’erano fumata”)  è un tale di nome Isaia;
- Zazà non è un cane femmina, ma una donna, e anche molto bella;
- Isaia chiede aiuto a tutti, banda musicale compresa (jammul’a truvà con la banda in testa) per cercare Zazà;
- nel caso non dovessero trovare lei (ch’è tanto bella), Isaia si accontenterebbe di trovare la sorella;
- anche a lei direbbe: “t’amerò, t’amerò, t’amerò. Isaia sta cca, Isaia sta cca, Isaia sta cca”.
Questo cambiava lo scenario in maniera incontrovertibile e assolutamente convincente e al quale, tuttavia, accedevo con difficoltà.
 Mi stupiva, infatti, la persistenza (nella mia immaginazione) piacevole ed equivoca della figura canina a cui, per dovere di adesione all’esito filologico, continuamente tentavo di sovrapporre quella della donna, ma che alla donna resisteva imperterrita, cagnetta paffuta e riccioluta che fosse.
Mi sembrava anche che forse a un cane si potesse riservare il disgustoso comportamento di un uomo pronto a consolarsi con la sorella alla quale avrebbe detto le stesse frasi (o le stesse bugie?), ma non certo a una donna.
E poi neanche questa cagnetta se lo meritava.
Continuavo a parcheggiare con la fantasia  su questa figura di cagna dalla personalità adombrata dal suo mistero equivoco, insomma su quella postazione ambigua in bilico tra fragilità e trasgressione: si era persa, o era scappata?
Pensavo per l'appunto che nel processo di pullulazione di questa creatura immaginaria fosse intervenuta come causale, non tanto, o non soltanto la disinformazione, la fretta o la superficialità,  ma anche una goduria dell'anima non bene identificata, una concausa non analizzata fino in fondo.
Mi sembrava che nell’atto di mettere a posto tutti i tasselli ci fosse un fastidio, il rifiuto di un frastuono.
Forse si trattava eliminare definitivamente la fonte della nozione (o dell’emozione?) per cui Zazà mi era sembrato un cane, anzi, una cana.
Poiché la nozione non emerge da testo verbale della canzone, e tantomeno dalla melodia o dalle varie interpretazioni ascoltate, e cioè, non essendo possibile individuare nemmeno un fascio semantico con referente zoologico e nemmeno una virgola a forma di cane, o un mi, un do, un diesis, un solo bemolle a guaito di cane, è legittimo ritenere che l’identificazione di Zazà col quadrupede, di cui sopra, potesse essere il frutto puro e primigenio della mia fantasia.
Oppure questa sensazione doveva essere spiegata al di fuori del contesto della canzone.
Doveva darsi per scontato, chiaro, anzi lapalissiano che Zazà fosse stata rapita, ma poteva anche trattarsi del dubbio e del sospetto di Isaia di cui l’autore del testo si faceva portavoce con un’affermazione apparentemente incontrovertibile.
Eppure, quanto a me, sebbene fossi venuta a conoscenza della vera verità, non riuscivo a sostituirla nella mia testa all'idea che me ne ero fatta prima, se non con immani sforzi di razionalizzazione, e mi accadeva che, ogni volta che ascoltavo "Dove sta Zazà", non potevo fare a meno di pensare alla protagonista come ad un cane femmina e al dubbio primigenio che fingevo di non avere mai sciolto:
- era Zazà una cagnetta che si era perduta nella folla della festa di San Gennaro,

- oppure Zazà, approfittando della folla e annusando aria di libertà, si era, come suol dirsi in soldoni, "squagliata"?

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