mercoledì 26 giugno 2013

Segnalazione al Premio Montano 2013 della mia raccolta inedita "Punto di fuga"

Anche quest'anno una mia composizione ha conquistato una "segnalazione" al Premio Montano.
Si tratta di una raccolta inedita intitolata "Punto di fuga" di cui vi anticipo qualcosa.



Purificate restammo voci senza eco, restammo.

A graffiare  gli intonaci spergiuri nella notte, mute.  

Editammo  sezioni auree barando. 
                                                   
                                              Conchiglie primordiali. 

Col fiocco in testa solcavo il sole nella piazza del 

sole vibrarono le sonagliere dei muli. 
                                            Ancora sale caparbio il 

segno, declina la presenza del dio pagine inclini al 

ginocchio dove il passo è

muto tenerezza del tempo annodato sugli esiti

resistere al silenzio magari sotto falsa identità 

marcare il grembo della maschera

                                              stratificarne il vuoto.
                                                                              
Persistenza del ritmo  questa agonia permanente  

egemonia del pretesto

stratificammo il vuoto persistendo nel ritmo.
                                                                                            
                                                                Persistendo.



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 Sali  dalla pietra in attesa di essere detta. Smantelli 

 un muro a secco.
                              
                                     La tua eternità degradabile 

a tempo determinato. Cedi alla sfida.  Questo ci 

chiede chissà chi.

                          La parola porta in bocca arcobaleni 

stiamo sognando.

                                                     Ancora  estremi ci

consegniamo all’enigma.  Dove l’essere si  ambigua 
   
le superfici si affollano fragili innumerevoli
     
                                 sbattono ai muti seminati di pane 

e niente flettono  arabeschi inconsistenti deflagrano 

in virtù accidentate vivono,
                                               burlesque, le verità mediatiche ingozzano folle sagge senza spasmi. Ci 

dimidiano. Il dio delle cose spergiuro sputa sulla 

nostra ombra.
                                                        Ci siamo persi. La mia 

zona franca deborda in due fonemi c’est à dire due 

sperimetrati  respiri, io e sé.
                                                    Cantavo sottovento 

in fuga. Il fiocco in testa non si conosceva deciduo. I 


muli squassavano le sonagliere.  

                                             Disegnavano la biografia
della piazza.




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Sottopelle avviene muto lo schianto del senso 

trama l’ordine riconduce en abîme
                         
le tracce delle mappe ricamate nei 

secoli contenutezza della predizione. Le silence.

                                                  L’avessi visto rifratto
  
dentro le giunture delle falangi negli antefatti

della contrazione  nelle fessure della notte, 

infernale senza un per sempre il punto di fuga.

                                                  Sottopelle allaga ogni 

fibra convoca un’orchestra è il corpo che ascolta, 

come un fiume diluisce il tempo lo parla.

                                            Mette lamine di primavere 

seduce  gli inverni spartisce il mare dove il fiocco di 

seta ha chiuso la corsa.


                                    Smuove la prospettiva. 

Era bianco.











Intervento di Anna Maria Vanalesti per L'infinito Presente

Il giorno 10 maggio u.s. Anna Maria Vanalesti, scrittrice e critico letterario, ha presentato a Ostia Lido "L'infinito Presente"  presso Il Leggio del Mare, associazione culturale, di cui è Presidente.
Mi piace pubblicare la relazione pronunciata da Anna Maria, che è densa di intuizioni raffinate, di considerazioni critiche pregevoli, di citazioni culturali interessanti.

L’INFINITO PRESENTE  DI LUCIANA GRAVINA 

Leggere la poesia di Luciana Gravina non è come indossare un abito prèt a porter che puoi  stropicciare come ti pare e non è nemmeno come leggere qualcosa che possa farti distrarre o astrarre dalla realtà e dai tuoi problemi, ma significa addentrarsi in un territorio impervio, dove non sarà subito facile rintracciare i giusti sentieri da seguire, né orientarsi riconoscendo la segnaletica dei percorsi. La Gravina è infatti poeta che vola alto, che si approccia alla poesia proprio con la volontà del poiein, del fare e del disfare, del creare e del ricreare, per restituire alla parola tutta la sua polisemia e per compiere fino in fondo quel ludus senza fine che solo il linguaggio può attivare. Ci sono due modi per accostarsi alla poesia: seguire l’ispirazione e andare dietro alle emozioni e ai sentimenti, oppure seguire le parole, inventarle, scardinarle dal loro significato semantico, desintattizzarle e  ricomporle in un contesto sinfonico, che va solo ascoltato, per poterne cogliere l’intera portata sonora. Non a caso Rino Malinconico, nella sua bella prefazione all’Infinito presente, dice che i versi di Luciana Gravina chiedono “soprattutto di essere ascoltati”. E  chi li ascolta  si accorge immediatamente che vengono da una lunga esperienza poetica, da una grande dimestichezza con la parola e da un convinto tirocinio sperimentalistico, che pur proveniente dall’ormai lontana produzione dei Novissimi, raccolti dall’Anceschi nella sua famosa “Antologia”, alle soglie degli anni sessanta, si è emancipato verso forme più nuove con contenuti tematici complessi e profondi , quali quelli esistenziali. E’ qui la differenza con le prove del primo Sanguineti, per esempio, che in Laborintus e in Palus putredinis, imboccava la strada del plurilinguismo, dell’accumulo dei materiali eterogenei e delle associazioni foniche, che andavano direttamente ad incidere sul linguaggio, ma oscuravano, anzi annullavano qualsiasi tema. La Gravina compie sì una ricerca linguistica, ma il suo fine è ben più ambizioso perché la vera ricerca è sul suo io, su se stessa e punta a rigenerare un equilibrio perduto, che è equilibrio del corpo e della mente. In questo agiscono fortemente alcune componenti che fanno parte integrante del suo bagaglio culturale, perché oltre ad essere una donna “di lettere”, dotta conoscitrice della letteratura latina, greca e italiana, è un’intellettuale affascinata dalla psicologia occidentale e da  alcune teorie filosofiche, quali quella della “Crescita personale” , nonché da alcuni aspetti della tradizione induista e buddista che guardano all’energia cosmica rappresentata dalla dea kundalini e al Chakra, la ruota che unisce i centri di forza vitali presenti nel corpo umano. Non so se la Gravina creda veramente ai ventuno punti della percezione, teorizzati dal PEM (Paris Energy method), metodologia centrale nella teoria della Crescita personale, ma comunque lei prova a giocare su di essi costruendo nel poemetto Percezioni, che è al centro dell’ultima opera L’Infinito presente, ventuno linee di fuga, o sarebbe meglio dire campi di forza, che partendo da varie parti del corpo, ( spalle, collo, nuca, petto, ecc.) consentono di percepire e di avvertire le attività fisiche o psichiche alterate, per poter ripristinare la vitalità e l’equilibrio della persona, ottenendo un cambiamento comportamentale. Il poeta fa un paziente e arduo lavoro di costruzione linguistica, scardinando i verbi e coniandone di nuovi 
(come vivìrlo, addimora, shekera, distrama e tanti altri), inventando neologismi, inserendo parole latine, francesi e greche, quasi in funzione di uno straniamento momentaneo dalla reale unità linguistica di base (e in ciò rinnova ciò che faceva Sanguineti), ma la sua intenzione, ricordiamolo, non è quella di creare il caos, al pari dei Novissimi, bensì quella di “ricompattare il caos”.  Alla Gravina preme stabilire l’hic et nunc, che equivale a prendere coscienza del presente in cui si trova, preme organizzare la mente e allinearla sull’asse corporeo, perché mente e corpo sono una sola entità, preme sentire l’infinito e riversarlo nel presente, un presente che duri infinito, o un infinito che sia un continuo presente. Riappropriarsi insomma dell’esistenza, ricomporre i dolori, le anomalie in un cammino di libertà che consenta di arrivare ad un benessere dello spirito, che solo attraverso la poesia si può raggiungere. Poesia come lente del mondo, codice lingua come unico codice della vita, parola come elemento di riordino, ma anche di trasgressione dalle regole, perché soltanto scompaginando queste si può poi ristabilire un ordine nelle cose. Prende dunque le distanze, la Gravina, non dall’intera tradizione lirica italiana, perché nel suo DNA c’è ancora Petrarca che agisce e suggerisce la malia del canto e del verso musicale e c’è anche un debito verso Quasimodo, ma dalla lirica sdilinquita e melensa che pur il Novecento ha corso il rischio di produrre. La poesia che lei ci dà è una poesia di corpo e di pensiero, non facile, ma elegante e assai sonora , fatta di rimandi, di assonanze, di immagini e analogie, di scatti e cadenze misurate, con cui si addentra persino nella più tradizionale delle forme poetiche, il sonetto. Se confrontiamo la prima parte del libro, che prende le  mosse da un gioiello a forma di spirale, creato dalla stessa autrice e che è allegoria e metafora della spirale dell’esistenza corporea e psichica, con l’ultima parte che contiene poesie scritte negli anni novanta e apparse sul "Verri", vediamo subito il percorso attraversato, dopo un lungo silenzio, perché tra quelle poesie del 91-93 e questo libro del 2011, c’è una notevole differenza di forma, non di metodo. Lì c’era una volontà di rimanere entro le linee del componimento classico, pur con avanguardistiche scelte lessicali e ritmiche, qui, c’è come una liberazione dalla forma e uno sprint verso la frantumazione di essa, quasi il poeta voglia uscire dai versi, sentendoli come gabbia, come lo scultore vuole uscire dalla immagine del modello per sprigionare la sua ansia di libertà. Non è andata dietro alle parole, ma quelle sono andate dietro a lei, scomponendosi e slegandosi, rompendo ogni unità compositiva, ma conservando la loro pura sonorità espressiva. Il poema, dunque, L’infinito presente ci regala un’assoluta novità sinfonica e ci impone una rinnovata attenzione per questa poetessa.
                                       ANNA MARIA VANALESTI

mercoledì 29 maggio 2013

Intervento critico di Antonio Lotierzo per il mio libro "Del senso e del sé" uscito nel 2006 per i tipi di Edizioni ArtEuropa


Antonio Lotierzo
Intorno a “Del senso e del sé” di Luciana Gravina
Pubblicata nelle Edizioni ArtEuropa, nel 2006, quest’ultima opera di poesia di Luciana Gravina si rivela di una doppia creatività: l’una suggerita dal confronto e dall’interazione con un arazzo parigino, l’altra lirica e ricognitiva  sui significati di un ritorno nei luoghi meridionali.
Tutta la prima parte è un’intensa relazione mentale e poetica  che la Gravina istituisce  con gli arazzi della Fiandra che hanno per tema “La dame à la Licorne”, relazione che sempre tanti poeti hanno stabilito con un tema pittorico e dal cui confronto è scaturita una poesia eccellente (si pensi, per restare a Parigi, a Baudelaire).
Ma qui la relazione è più profonda ed è di natura simbolica, per la carica di ambiguità che gli arazzi contengono e le pluriespressive valenze cui rinviano, verso l’alto e verso il basso.
Dirò subito che, intesa in tale direzione, l’intera operazione poetica della Gravina si configura come un percorso alessandrino e calligrafico, come un pezzo di bravura, come un intarsio barocco di parole che riavvolgono i fili di una vita qui estremamente rarefatta.
In una premessa che vale da commento e guida ai testi, la Gravina ripercorre la rappresentazione degli arazzi, che verte sui cinque sensi, mentre il sesto appare ispirato al libero arbitrio (“Al mio desiderio soltanto”). Sono noti arazzi del Cinquecento, in cui una nobildonna illustra il piacere dei sensi, a cui, tuttavia, ella stessa non pare cedere, quasi astenendosi dal vissuto.
Sembrerebbe un percorso iconografico di tipo neoplatonico, del tutto opposto al sanguigno pulsare delle indagini di un Montaigne. Anzi, parlare del liocorno ci rimanda ancora più indietro, al bestiario medioevale ed ai poteri connessi a tale animale (fantastico, direbbe Borges).
La Gravina sottolinea che qui una donna tiene a bada le passioni, esprime la perfezione della rinuncia, la gioia della sublimazione ma tuttavia non è una Madonna, non rivolge al sacro la sua vita ma sembra voler godere e gioire di piaceri inusuali, quelli dell’immaginario. E tuttavia siamo nel polo apposto a un “giardino delle delizie” di H. Bosh e lontanissimi dalla carnalità del comico.
La Gravina, nella sua mente creativa, si mette ad interagire con tutta questa materia simbolica, operando  un confronto fra la cultura del corpo dell’arazzo e la valutazione positiva del corpo come equilibrio tra individuo e natura (il tema venne discusso, ad es. dall’educazione estetica da Shiller e Marcuse, ed è stato ripreso da U. Galimberti).
Mentre il presente dei nostri vissuti è così dilacerato e morsicato, nelle poesie della Gravina si ritrova un corpo armonizzato con lo spirito, viene resa presente l’armonia dell’universo, secondo una condizione mistica che era degli gnostici, prima che di Plotino.
E’ da questo crogiuolo di ideologia che la Gravina lascia precipitare la sua versificazione, è lei che, pertanto, risponde alle stesse caratteristiche degli arazzi, perché la poetessa diventa il liocorno, è lei che si specchia con le sue brame, adoperando la vista come il senso mirato per trascendere verso Dio, un Dio che è innamoramento e desiderio più che amore e possesso quieto.
La Gravina tende verso l’”oltre”, ma affina il mirare, giungendo alla visione di Dio, appagante e risolutiva delle differenze che scompaiono nel mistico amalgama..
La poetessa si lascia attraversare dal suono che sottopelle l’attraversa, portandola a confondersi panicamente con le cose (questa dimensione panica è relazionabile, forse,alla “Pioggia nel pineto”, tentativo altrettanto riuscito di muovere le parole a musica).
Con assonanze (giusto/gusto) si intreccia la bocca ad assaggiare situazioni marine e sofferte assenze di movimenti.
L’odorato consente di entrare, con uno squarcio caravaggesco, in una dimensione realistica, la pura e fedele resa di una cronaca parigina di dialogo fra tassista e viaggiatrice. L’odorato è una guida per raggiungere la casa. Verso Montmartre; è col fiuto che si scopre la pioggia, un umore in cui lasciare camminare la propria esistenza.
Poi viene il tocco, le carezze di seta, l’indugio delle mani fra i capelli, lo scavo che “di profondo prende”.
E nella nuova assonanza “resta quella ressa” si coniuga il “con/tatto”, anche del “ricordo/ suo che mi tiene” e si precipita verso un verso, se non petrarchesco, certo classicistico, un decasillabo, credo, di suadente ritmicità: “Ora che odo e vedo e di profumo”, che è un buon esempio di questa scrittura controllata e ambigua, che ha capacità di rinviare ad indefinite sensazioni, più che di esprimere univocamente, come il “vizio della conta”.
Nello spazio successivo, (A mon seul désir), con il determinativo “ora”, riesplode l’ora del desiderio e l’alchimia del dolore, da cui ci allontaniamo fissando i gioielli che si separano dal corpo e cerchiamo di rientrare in noi stessi (ricondurre “il sé disperso e sé).
E con un gioco di rinvii e riprese, sia da Saffo e sia dal Cantico dei Cantici, la Gravina intreccia l’ultima e più lunga poesia degli arazzi.
Si giunge così alla diversa scansione, ai versi de “I sensi del nostos”, in cui si ritorna alle brume di Policastro, che però la Gravina lega alle composizioni parigine attraverso un continuo “anche qui” ed il rientro del migrante è rimugino della fuga e del contrasto del vivere.
Con un solo lessema dialettale, la Gravina riecheggia la “vita mbruscinata”, quel necessario macchiarsi, sporcarsi con i compromessi che è proprio della quotidianità nostra, del modo con cui ognuno mastica e rimastica la vita stessa.
La poetessa si riprende il Sé, tollera la pace che le è concessa, ma s’avvede, con dolore stupefatto, della dissipazione inevitabile che è contenuta in ogni esistenza.
Con questa quinta raccolta la Gravina arricchisce il mosaico delle sue proposte e continua la scelta di un linguaggio sperimentale, che si sa piegare all’espressione pura che è della poesia del nostro tempo, non senza corredare i testi di classici rinvii (ad es. anche della Didone virgiliana) e con la consapevolezza che fine della poesia è anche la meraviglia della tessitura, quasi come per un arazzo.
21.11.2006


lunedì 13 maggio 2013

Intervento critico di Mario Lunetta per il libro M'attondo il giorno di Luciana Gravina

Pubblico questo straordinario intervento critico fatto da Mario Lunetta in occasione della Presentazione del mio libro di poesia M'attondo il giorno", al Notegen di Roma il 31 marzo 2004.





Nella tradizione poetica italiana il canto lirico è assolutamente predominante, malgrado l’exemplum magnum del Dante della Commedia. La speculare (e dolcemente aggressiva) esperienza di Petrarca lo depotenzia e si afferma rapidamente come egemone. Dal cantore di Laura al Novecento più immediatamente prossimo la linea della forma-pathos è vincente, e le ragioni, schematicamente dette, possono essere queste: maggior immediatezza vs oscurità allegorica; minore problematicità e più intenta esplorazione del proprio vissuto; più acuta inclinazione al ripiegamento su di sé come privatissima e munita totalità; illusione che i Sentimenti siano eterni, quindi più poeticamente legittimi di un’attenzione alle cose del mondo e del collettivo con relativo ingaggio nelle contraddizioni della storia; pretesa purezza del monolinguismo rispetto al plurilinguismo mescidato anche coi gerghi: insomma, alle corte, Spiritualismo contro Materialismo. Di conseguenza, ai danni della linea “dantesca”, una secolare politica culturale dettata dall’ufficialità, fino ai nostri giorni, con messa ai margini (antologie scolastiche e non, università, ecc.) dei poeti più scomodi, più critici verso il mondo e il linguaggio. “La poesia è ben altro che voltolarsi nelle melodie” dice Auden.

Esempi ancor oggi incandescenti, che costituiscono scandalo, continuano a darsi con imperterrita impudenza. Tra gli altri: figure della statura di Emilio Villa e Edoardo Cacciatore, regolarmente esclusi dal pantheon conclamato – (si veda l’abietta antologia Meridiani (ristampa aggiornata) di Cucchi e Giovanardi).
C’è un provincialismo mafioso della cultura italiana che non si decide a morire, e anzi continua a celebrare i propri fasti funerei nelle sedi più accreditate del conformismo nazionale. Eppure, in questa triste Italia delle combriccole e degli scambi di favori, non mancano voci ben caratterizzate, di forte caratura antilirica e antipatetica.

Quella di Luciana Gravina, ad esempio, mi interessa e mi convince, per  molti versi e varie ragioni: perché  non canta, ma tratta la questione del linguaggio con la necessaria consapevolezza (anche filosofica): si vedano i due esergo che aprono il suo libro, da Genette e Neruda: segni in lei di lucida consapevolezza anche teorica dell’agire poetico.
La sua voce parla – e parla sempre d’altro, perché non crede all’immediatezza, e nutre una totale sfiducia nei confronti del pathos di primo grado, che si giustificherebbe poeticamente solo in virtù della propria sincerità, spontaneità, ecc.

Gravina sa che la parola poetica mente (Pessoa, Manganelli), in quanto costruzione artificiale che non dice ma rivela invariabilmente un enigma linguistico: e l’enigma è nella novità dell’invenzione. Si ricordi, quindi, in proposito, il termine priem (artificio, in russo) caro ai grandi formalisti russi degli anni Dieci/Venti del ‘900: Sklovskij, Jakobson, Tynianov, alle cui scoperte non hanno mai cessato di guardare le esperienze di punta del secondo Novecento.

Gravina è una tessitrice, e il suo telaio è costituito da una paratassi accentuata.
Tutto il suo libro si configura non in momenti staccati riuniti poi in un assemblaggio volontaristico, ma piuttosto come partitura sistematica, da piccolo poema in cui la scissione dell’io trova un possibile risarcimento nell’ordine della musica e nella carica visiva dei colori. La contrapposizione dialettica è allora, appunto, tra il caos dell’ES e la musica, non in quanto evasione sonora ma in quanto insieme organizzato di strutture.
Lo dice con chiarezza Natale Antonio Rossi, in un passaggio della sua intelligente prefazione: “In realtà, il problema che si pone in questo testo è che il linguaggio di cui è fatto, con cui è costruito (e null’altro esiste sul testo, neppure il suo profumo) non è tanto espressione dell’essere, quanto forma dell’essere, comprendendo anche la forte componente del dato esistenziale”.

La struttura del libro mira quindi a un organismo poematico, e la lingua vi si muove liberamente, nell’arco della scissura permanente del sé in rapporto speculare-dialettico con l’altro: “io sdoppiata e a raddoppio, speculare di me, testimoniale del tu / (altra me) a cui tendendo…”
Ma specialmente significativo a me pare il poemetto in XXVII movimenti che si intitola “Agogica dei verbi” (variazioni) – con quegli attacchi perentoriamente esortativi, quasi a comando: a se stessa o a un interlocutore/trice da immaginarsi fisicamente prossimo/a, con una serie di torsioni che verbalizzano il sostantivo (in un effetto di forte energia espressionistica): “E tu sradica. Smonta l’azzeramento, ora che nel vento s’è persa / tutta l’eco possibile del tuo risibile / fantasiare o poesiare e lampi a guizzare / nella stagione rovente, oscillante per colpa e/o innocenza / e trappole nell’aria e la terra di insidie e congiunture”.

Tutto il linguaggio di M’attondo il giorno ha movenze contratte e spastiche, dentro la griglia di una versificazione prevalentemente ipèrmetra, da discussione o da polemica, con inclinazioni teorico-filosofiche: nella deformezza della norma, come si legge a pag. 23 (“E tu sregola. Rieditare la pratica del vuoto per colmazione dello iato, / fosse questa la destituzione dei vati (delle cosiddette certezze) / la contezza dell’ironia, la follia intermittente, la rinnovata ambiguità / di uno scenario sacrificale, graziosa deformezza della norma”).
E allora, ecco che la scrittura quasi si svelle da se stessa, e trova nuove forme neologistiche di indubbia efficacia straniante: brividare flautare oboare suitare (pag. 25).

La musica come strappo percussivo e straniante, non come carezza per la psiche scissa. Non c’è l’abisso, ma l’abissità, c’è la qualunquità: in una sorta di riappropriazione sotto specie di categoria filosofica delle parole più trite. E’ anche in questa rottura degli steccati grammaticali, sintattici e semantici (nella loro alterazione costante e nel loro continuo mutamento di ruolo all’interno di una consecutio terremotata) che sta la particolare significanza di questa scrittura: una scrittura – per dirla con Pagliarani – “senza carità di se stessa” (v. pag. 64, Rosso cavallo: un ricordo-omaggio a Rosso corpo lingua del poeta de La ragazza Carla).

La poesia di Gravina, pure carica di sensualità e di memorie, di corporeità e di vibrazioni interiori, è soprattutto interessata a “spraticare la norma”: e in questo progetto riposa la lucidità del suo gesto.
Il groviglio del mondo, la tragica pantomima del cosiddetto reale si definiscono, così, soltanto nella precisione e nella durezza di una scrittura poetica molto scolpita, che funziona come giudizio impavido sul vivere e sullo scrivere, sul senso (sempre estremamente precario, labile, incerto: forse inverificabile) che il primo ha in rapporto al secondo: e che tutti i poeti sono condannati a perseguire senza mai toccarne il cuore, che non c’è.

In un testo come “M’attondo il giorno”, che dà titolo all’intero libro, si attua una tecnica di bel conio allegorico di sistemazione e di controllo del piccolo caos quotidiano. La serie dei “Sonetti imperfetti del mio nome” (pagg. 38-44) funziona brillantemente a mo’ di acrostico allentato. Così, il dis-essere e la furia esistenziale che attraversano questa poesia a suo modo catastrofica – ma catafratta per consapevolezza di tono e di accento - ne fanno un esempio significativo di scrittura poetica problematica. Una poesia sliricata, insomma, che si fonda sempre su lucide capacità retoriche e non si sofferma mai a rimirarsi nella lastra inattendibile del proprio narcisismo.
                                                                                                  Mario Lunetta


martedì 5 febbraio 2013

Luciana Gravina e la spirale conoscitiva della sua poesia di Claudia Pagan

Salve a tutti,

mi piace  postare l'intervento che Claudia Pagan ha fatto sul mio ultimo libro L'infinito presente.
E' un intervento complesso e molto colto che prende le mosse dai poeti della Neoavanguardia e percorre nell'ottica sperimentale anche i miei due libri precedenti e cioè M'attondo il giorno del 2001 e Del senso e del sé del 2006. Claudia  Pagan ha interpetrato il percorso poetico dei miei ultimi tre libri con sensibilità, raffinatezza e appropriatezza confermandosi nella mia personale stima e considerazione come un'intellettuale moderna e attenta all'evoluzione dei fatti letterari che caratterizzano il nostro tempo. Per fortuna non è una passsatista con pregiudizi sulla poesia che un poco si discosti dal lirismo decadente e abusato del secolo scorso e pur evidenziando uno sforzo esegetico per le asperità del dettato della mia poesia ha il merito di averla affrontata con onestà mentale e con passione. Le sono molto grata.


Luciana Gravina e la spirale conoscitiva della sua poesia di Claudia Pagan 

Quando Luciana Gravina mi ha proposto di partecipare a un incontro sul suo “L’infinito presente” ho colto l’invito come un’occasione non solo per festeggiare la recente opera della cara amica, ma anche per riflettere su una fase particolarmente significativa della nostra storia letteraria.
Infatti Luciana mi raccontava che alcuni suoi testi erano stati pubblicati negli anni novanta sul Verri, la gloriosa rivista che nell’autunno del ‘56 portava un saggio di Luciano Anceschi di importanza storica, qualificandosi soprattutto come rivista degli scrittori della cosiddetta Neoavanguardia (per distinguersi dalle Avanguardie del primo Novecento) e in particolare di quello che si chiamò poi Gruppo 63.
A suo tempo, quando ancora vivevo in Friuli, ho seguito, per quanto marginalmente, le vicende di questo gruppo di punta. Ma purtroppo mi capita sempre più raramente di incontrare qualche testimone di quell’epoca straordinaria, così vitale, problematica e innovatrice. Uno dopo l’altro se ne sono andati i più illustri rappresentanti del gruppo dei Novissimi: Antonio Porta, scomparso nell’89, Alfredo Giuliani, Sanguineti e Pagliarani, che fino allo scorso anno sedeva in prima fila alla Vallicelliana.
Erano autori che,  nel vasto dibattito culturale di quegli anni e nel mutamento del generale contesto, ponevano a fondamento della loro azione (così amavano chiamarla) la polemica contro la tradizione letteraria postermetica e neorealista degli anni 50, in nome di un rinnovamento radicale di struttura, di linguaggio , di tecnica, coinvolgendo nel loro rifiuta l’intera società capitalistica  industriale tecnologica  masmediale con tutte le sue implicazioni.
Pur nella diversità delle posizioni, i Novissimi teorizzavano una rappresentazione della realtà che mettesse in luce quanto di caotico di assurdo di irrazionale essa contiene. Ecco appunto le figure del Caos e del Labirinto, la disarticolazione  delle strutture del linguaggio, il disordine del discorso, il pastiche linguistico, l’ironia mordace, il divertissement.
Il principio comune da difendere era che l’arte, qualsiasi arte, prima di preoccuparsi dei cosiddetti contenuti e messaggi, dovesse compiere in modo autonomo la sua rivoluzione prevalentemente formale ( era evidente l’intento provocatorio e l’influsso dello Strutturalismo di Saussure e dle formalismo di Jacobson).
Palestra per questi accesi dibattiti furono riviste come il citato Verri, Officina, fondata da Pasolini, (1955-58), il Quindici che ebbe vita piuttosto breve a causa di divergenze interne e il Caffè di Giambattista Vicari. Uscirono in quegli anni anche gli atti  dei due convegni di Palermo e del Convegno di Reggio Emilia.
Molto fervore dunque, ma anche incertezza per il futuro, per gil sviluppi della nostra letteratura. Lo stesso Anceschi aveva detto:”La novità non si presenta più sotto la forma della grande ribellione ma in un modo di discrezione in cui vive la consapevolezza che dietro la rottura si scopre presto la continuità  e che la continuità opera proprio attraverso la rottura”. Parole che si rivelarono profetiche quando, al logorarsi dell’esperienza neoavanguardistica si progettarono sviluppi e schieramenti diversi.
Riassumendo, potremmo individuare tre tendenze principali:
a)     Asserzione da parte di alcuni dell’impossibilità di qualsiasi comunicazione. Teoria della morte dell’arte. Afasia.
b)    Constatazione dell’insensatezza  del mondo, dell’alienazione, del caos, che può anche tradursi in un “gioco linguistico” (o meglio mistilinguistico, plurilinguistico) come il pastiche, il divertissement corrosivo (secondo l’esempio di Edoardo Sanguineti), l’Arcimboldo dei Novissimi. Il quale peraltro, nel frattempo dalle profonde oscurità di Laborintus  nella linea Pound, Eliot, Joys, era passato a testi meno aggressivi e più “leggibili” con influssi addirittura “crepuscolari”.
c)     Riflusso e recupero dei moduli tradizionali, retour à l’ordre, sia pure con gli apporti delle varie sperimentazioni, nel mutato contesto storico.


In questo quadro a me pare che Luciana Gravina possa essere accostata soprattutto al Sanguineti prima maniera cioè di Laborintus, per la musica atonale dei versi, l’uso sapiente del mistilinguismo e delle figure retoriche, per la densità dei contenuti psicologici onirici mitologici simbolici.
Il tutto, molto cerebrale, non esclude una venatura di sentimento, di pathos.

I tre ultimi libri di Gravina “M’attondo il giorno” del 2001, “Del senso e del sé” del 2006 e questo “L’infinito presente” del 2011 ( che contiene anche alcuni testi degli anni novanta pubblicati su varie riviste) vengono a formare quasi una trilogia che racconta un viaggio metaforico iniziatico, processo di conoscenza e di esperienza del mondo esterno e del mondo interno, cioè del proprio sé.
Come Sanguineti da Laborintus e dalla Palus putredinis, l’autrice prende le mosse per una sua discesa en abîme, per un suo processo di individuazione che, attraverso peripezie, catastrofi e infine catarsi, conduca ad una rinascita quasi alchemico-magica.
Questo percorso nel primo libro appare come una sorta di partitura musicale (Per flauto e oboe, Preludio, Intermezzi e scherzi) divisa in segmenti  (per la precisione 27) che corrispondono alle tappe di un cammino arduo e accidentato, tappe segnalate da verbi inusitati e sorprendenti ( E tu sradica … E tu brivida …. E tu dissolvi … incrocia …. resisti, ma anche Tu oboa … lamina, stregua, nudita, albica, figliati, strama, narcisa, smucchia, smargina) e via cantando e seguendo l’agogica del verbo, cioè l’impulso da cui scaturisce il ritmo musicale.
L’io  ha ceduto il passo a un tu che potrebbe essere l’alter ego dell’autrice. Il sono si trasforma in siamo. I punti di vista si moltiplicano e dopo “la caduta dell’altero io totale, scrutare l’intarsio di colori, di suoni per astuzia: suitare cosicché, oboando flautando….”
Sembra quindi  (a meno che non abbia male interpretato le asperità del dettato) che l’autrice, nonostante la destrutturazione dell’io, della lingua, e finanche dei nomi, tra dolore, depressione ed euforia, sia orientata in una direzione sostanzialmente costruttiva.
Lo attestano componimenti come quello eponimo intitolato  M’attondo il giorno, per il quale viene coniato un neologismo felicemente espressivo e Intermezzi e Scherzi in cui l’autrice spinge il pedale dell’ironia, volgendosi alla cura del corpo, al gioco erotico, come sempre pervicacemente linguistico e metalinguistico.
E anche quando a Parigi sosterà a contemplare i famosi arazzi rinascimentali  della Dame à la Licorne (la dama che, alludendo ai sensi tentatori, ispirandosi al mitico unicorno, indica le vie della virtù, della purezza, della religione) anche allora Gravina terrà ben desti i suoi cinque o sette o infiniti sensi e rivendicherà il diritto delle donne d’oggi alla cultura del corpo, alla libera sessualità, anche alla spiritualità in una visione olistica di corpo-anima, di uomo/donna e natura), visione consentanea alle filosofie orientali.
Siamo al secondo libro della trilogia e cito da pag. 11 “Cosicché pieni i cinque o sette o / infiniti ( i sensi  dico) avessi a vivermi a sfinito tempo e luogo di / natura intatta, li avessi dunque pieni, nonostante.” Nonostante che cosa? Il verso talora  si tronca bruscamente talaltra si inarca nell’enjambement, la sintassi si fa spesso trasgressiva a tradurre il magma emozionale, dove i luoghi dell’anima svariano da Granada a Milano, da Roma a Parigi, per tornare al paese dell’infanzia (vedi Nostos) al punto più profondo del suo viaggio interiore, al suo selbst.
Aleggia un senso di vanitas vanitatum, di eros e thanatos, di desiderio d’oltranza (e il mio oltre è più oltre).
Ma passiamo al terzo e ultimo libro che, almeno per il momento, sembra completare l’itinerarium mentis di Luciana Gravina.
I quattro versi riportati in quarta di copertina possono compendiare significanti e significati di queste non facili pagine “Quivi l’io mio mi riconduce e a mano mi / draga, per questo giro morbido a spirale, se di rame, se di / cuivre e, volendo anche di ottone e d’argento. Cosicché, trovatala / ad hora quasi tarda mi passiona.”
Senza l’aiuto dell’eccellente prefazione del prof. Rino Malinconico non avrei mai indovinato che la spirale, disegnata anche in copertina, non è una pura astrazione, bensì un concreto gioiello fabbricato dalla nostra amica, donna di multiforme ingegno.
La spirale, comunque sia, di rame o di altri più o meno nobili metalli,  ci appare ora come simbolo (o allegoria?) del viaggio di ricerca sempre aperto che appassiona (o fa patire?) l’autrice per quanto l’ora sia quasi tarda (e anche qui il senso è duplice, anceps).
Dopo questa aulica ouverture, nell’aura della parola e del suono due poemetti astrattamente connessi tra loro, Percezioni e Punti, ripercorrono la laboriosa quête esistenziale e letteraria della poetessa “guadare l’avventura  rimanente anche se a norma, il faut / ricondurre ogni clamore e morirlo questo elan / bergsoniano (se appena è possibile) ricompattarlo il caos / e vivìrlo.”
La scrittura presenta gli artifici retorici già notati nelle opere precedenti: molte citazioni, molte proposizioni parentetiche, neologismi (tratti dai linguaggi tecnici), latinismi, arcaismi, soprattutto francesismi, forme verbali anomale; ma, nonostante la ridondanza di questi elementi, il ritmo del verso non risulta appesantito, al contrario è trascinante (“come un buon jazz freddo, scrive Malinconico, quando i fiati prolungano in un lungo volo lo strazio infinito della solitudine.”)
Nel primo componimento predomina il rimpianto di un esprit de finesse misto a quello di geometrie, di una bellezza, di un tutto, di un’essenza e pienezza raggiungibili soltanto con l’ascolto di un concerto, del mozartiano n. 21, grazie a un fascio di sensazioni corporee che si tramutano in più nitide percezioni: conoscenza di sé e degli altri, fratellanza, tolleranza.
Al modo ottativo (ma dell’impossibilità “avessi spersuaso … avessi auscultato”) fa seguito il modo indicativo assertivo lapidario addirittura monosillabico “Io so ora di un qui ed ora……..Io ora so. E mi resetto quotidie in abitudine di vita / nova direi, anche per direzione che armonica e aperta  mi / convoglia di visione per hic et nunc. Ora e qui.”
L’intenzione è espressa in tono molto deciso. Nonostante i dolori, i rimpianti, i rimorsi, Luciana risalirà gradino per gradino le spirale della vita passando attraverso i ventuno punti previsti dalla teoria della Crescita Personale e della psicologia occidentale o i sette del Chakra cioè della ruota che nella tradizione induista o buddista collega i centri di forza vitali del nostro corpo, punti attraverso i quali dovrebbe risalire Kundalini  l’energia cosmica.
Siamo in pieno sincretismo. Il petto la mente la rotula dei ginocchi, le vertebre del collo, la spalla sinistra, il tallone …, non manca in questa elencazione una sottile venatura di ironia (che mi ricorda il Gaio corpo del poeta medico filosofo Armando Patti).
L’ottativo ormai volge alla possibilità desiderante (pag.22: “ potessi spalmare / questo tremore illuminato, limitarlo dunque / questo presente per l’infinito che ne viene e vivìrlo di chiara compiutezza e ancora mi piacerebbe cambiare / strada prossima allo sbaglio senza lunghe cogitazioni / invertire la rotta bypassando il prepensiero, corcare / l’attimo afferrato benché fuggente e vivìrlo di fresco questo /smottamento del cosiddetto amore perché / impensato, improgettato. Mi piacerebbe.”)









venerdì 11 gennaio 2013

In ricordo di Maria Racioppi





Maria Racioppi, intellettuale romana di origine pugliese, è scomparsa un mese fa.
Non è facile pensare a lei come ad una persona che non c’è più, perché lei è stata nelle nostre vite, credo, in ciascuna a suo modo, come una presenza forte, affidabile, con tutto il suo contributo di una personalità complessa e rigorosa di indiscusso riferimento.
Almeno così per me.
Di lei, portatrice di molteplici doti umane, culturali e intellettuali, ammiravo e amavo soprattutto l’onestà intellettuale e l’apertura mentale con cui si accostava, e spesso affrontava, ogni aspetto della vita.
Per queste doti la sua produzione letteraria, che va dalla poesia, alla narrativa, al teatro, alla saggistica, pur essendo incastonata nel classicismo e nella tradizione, ne supera agilmente i limiti, per collocarsi in una dimensione di utilità umana e sociale e di godibilità estetica, classica e moderna ad un tempo.
E’ per questo che nella sua cifra di poeta, cantore convinto del potere salvifico della storia, sicuramente ha lasciato una traccia di indelebile sua permanenza presso i posteri.
Ne sono sicura.
Di lei ricordo la tante avventure intellettuali corse insieme in uno scambio di esperienze, di amicizia vera,  di emozioni, di stima reciproca.
Ho avuto modo di farle visita negli ultimi tempi della sua esistenza terrena. Avrei voluto farlo con maggiore assiduità e non soltanto perché lei meritava ma anche perché, pur in situazione estrema, almeno per me è stata un esempio.
Non si poteva non restare ammirati della lucidità e della consapevolezza con cui ha preparato e condotto il distacco del suo Spirito dal corpo che, rapidamente e quasi a tradimento, non ha reso più ragione della bellezza sua di una volta.

Eppure, dalla decadenza del corpo il suo Spirito di donna, di madre, di intellettuale, di artista, di amica, prendeva vigore, coraggio, splendore.
Io so con certezza che posso ricordarla così e sogno egoisticamente che non se ne vada troppo lontana da me.
So anche che è un sogno impossibile: Maria amava viaggiare e chissà come se ne andrà beata per i cosiddetti ”pascoli del cielo.
Ma io non voglio dirle addio.