Salve a tutti,
mi piace postare l'intervento che Claudia Pagan ha fatto sul mio ultimo libro L'infinito presente.
E' un intervento complesso e molto colto che prende le mosse dai poeti della Neoavanguardia e percorre nell'ottica sperimentale anche i miei due libri precedenti e cioè M'attondo il giorno del 2001 e Del senso e del sé del 2006. Claudia Pagan ha interpetrato il percorso poetico dei miei ultimi tre libri con sensibilità, raffinatezza e appropriatezza confermandosi nella mia personale stima e considerazione come un'intellettuale moderna e attenta all'evoluzione dei fatti letterari che caratterizzano il nostro tempo. Per fortuna non è una passsatista con pregiudizi sulla poesia che un poco si discosti dal lirismo decadente e abusato del secolo scorso e pur evidenziando uno sforzo esegetico per
le asperità del dettato della mia poesia ha il merito di averla affrontata con onestà mentale e con passione. Le sono molto grata.
Luciana Gravina e la spirale conoscitiva della sua poesia di Claudia Pagan
Quando Luciana Gravina mi ha proposto di partecipare a un
incontro sul suo “L’infinito presente” ho colto l’invito come un’occasione non
solo per festeggiare la recente opera della cara amica, ma anche per riflettere
su una fase particolarmente significativa della nostra storia letteraria.
Infatti Luciana mi raccontava che alcuni suoi testi erano
stati pubblicati negli anni novanta sul Verri, la gloriosa rivista che
nell’autunno del ‘56 portava un saggio di Luciano Anceschi di importanza
storica, qualificandosi soprattutto come rivista degli scrittori della
cosiddetta Neoavanguardia (per distinguersi dalle Avanguardie del primo
Novecento) e in particolare di quello che si chiamò poi Gruppo 63.
A suo tempo, quando ancora vivevo in Friuli, ho seguito, per
quanto marginalmente, le vicende di questo gruppo di punta. Ma purtroppo mi
capita sempre più raramente di incontrare qualche testimone di quell’epoca
straordinaria, così vitale, problematica e innovatrice. Uno dopo l’altro se ne
sono andati i più illustri rappresentanti del gruppo dei Novissimi: Antonio
Porta, scomparso nell’89, Alfredo Giuliani, Sanguineti e Pagliarani, che fino
allo scorso anno sedeva in prima fila alla Vallicelliana.
Erano autori che, nel
vasto dibattito culturale di quegli anni e nel mutamento del generale contesto,
ponevano a fondamento della loro azione (così amavano chiamarla) la polemica
contro la tradizione letteraria postermetica e neorealista degli anni 50, in
nome di un rinnovamento radicale di struttura, di linguaggio , di tecnica,
coinvolgendo nel loro rifiuta l’intera società capitalistica industriale tecnologica masmediale con tutte le sue implicazioni.
Pur nella diversità delle posizioni, i Novissimi teorizzavano
una rappresentazione della realtà che mettesse in luce quanto di caotico di
assurdo di irrazionale essa contiene. Ecco appunto le figure del Caos e del
Labirinto, la disarticolazione delle
strutture del linguaggio, il disordine del discorso, il pastiche linguistico,
l’ironia mordace, il divertissement.
Il principio comune da difendere era che l’arte, qualsiasi
arte, prima di preoccuparsi dei cosiddetti contenuti e messaggi, dovesse
compiere in modo autonomo la sua rivoluzione prevalentemente formale ( era
evidente l’intento provocatorio e l’influsso dello Strutturalismo di Saussure e
dle formalismo di Jacobson).
Palestra per questi accesi dibattiti furono riviste come il
citato Verri, Officina, fondata da Pasolini, (1955-58), il Quindici che ebbe
vita piuttosto breve a causa di divergenze interne e il Caffè di Giambattista
Vicari. Uscirono in quegli anni anche gli atti
dei due convegni di Palermo e del Convegno di Reggio Emilia.
Molto fervore dunque, ma anche incertezza per il futuro, per
gil sviluppi della nostra letteratura. Lo stesso Anceschi aveva detto:”La
novità non si presenta più sotto la forma della grande ribellione ma in un modo
di discrezione in cui vive la consapevolezza che dietro la rottura si scopre
presto la continuità e che la continuità
opera proprio attraverso la rottura”. Parole che si rivelarono profetiche
quando, al logorarsi dell’esperienza neoavanguardistica si progettarono
sviluppi e schieramenti diversi.
Riassumendo, potremmo individuare tre tendenze principali:
a) Asserzione da parte di alcuni dell’impossibilità
di qualsiasi comunicazione. Teoria della morte dell’arte. Afasia.
b) Constatazione dell’insensatezza del mondo, dell’alienazione, del caos, che
può anche tradursi in un “gioco linguistico” (o meglio mistilinguistico,
plurilinguistico) come il pastiche, il divertissement corrosivo (secondo
l’esempio di Edoardo Sanguineti), l’Arcimboldo dei Novissimi. Il quale
peraltro, nel frattempo dalle profonde oscurità di Laborintus nella linea Pound, Eliot, Joys, era passato a
testi meno aggressivi e più “leggibili” con influssi addirittura
“crepuscolari”.
c) Riflusso e recupero dei moduli
tradizionali, retour à l’ordre, sia pure con gli apporti delle varie
sperimentazioni, nel mutato contesto storico.
In questo
quadro a me pare che Luciana Gravina possa essere accostata soprattutto al
Sanguineti prima maniera cioè di Laborintus, per la musica atonale dei versi,
l’uso sapiente del mistilinguismo e delle figure retoriche, per la densità dei
contenuti psicologici onirici mitologici simbolici.
Il tutto,
molto cerebrale, non esclude una venatura di sentimento, di pathos.
I tre
ultimi libri di Gravina “M’attondo il giorno” del 2001, “Del senso e del sé”
del 2006 e questo “L’infinito presente” del 2011 ( che contiene anche alcuni
testi degli anni novanta pubblicati su varie riviste) vengono a formare quasi
una trilogia che racconta un viaggio metaforico iniziatico, processo di
conoscenza e di esperienza del mondo esterno e del mondo interno, cioè del
proprio sé.
Come
Sanguineti da Laborintus e dalla Palus putredinis, l’autrice prende le mosse
per una sua discesa en abîme, per un suo processo di individuazione che, attraverso
peripezie, catastrofi e infine catarsi, conduca ad una rinascita quasi
alchemico-magica.
Questo
percorso nel primo libro appare come una sorta di partitura musicale (Per
flauto e oboe, Preludio, Intermezzi e scherzi) divisa in segmenti (per la precisione 27) che corrispondono alle
tappe di un cammino arduo e accidentato, tappe segnalate da verbi inusitati e
sorprendenti ( E tu sradica … E tu brivida
…. E tu dissolvi … incrocia …. resisti, ma anche Tu oboa … lamina, stregua,
nudita, albica, figliati, strama, narcisa, smucchia, smargina) e via
cantando e seguendo l’agogica del verbo, cioè l’impulso da cui scaturisce il
ritmo musicale.
L’io ha ceduto il
passo a un tu che potrebbe essere l’alter ego dell’autrice. Il sono si
trasforma in siamo. I punti di vista si moltiplicano e dopo “la caduta dell’altero io totale, scrutare
l’intarsio di colori, di suoni per astuzia: suitare cosicché, oboando flautando….”
Sembra quindi (a meno
che non abbia male interpretato le asperità del dettato) che l’autrice,
nonostante la destrutturazione dell’io, della lingua, e finanche dei nomi, tra
dolore, depressione ed euforia, sia orientata in una direzione sostanzialmente
costruttiva.
Lo attestano componimenti come quello eponimo intitolato M’attondo il giorno, per il quale viene
coniato un neologismo felicemente espressivo e Intermezzi e Scherzi in cui
l’autrice spinge il pedale dell’ironia, volgendosi alla cura del corpo, al
gioco erotico, come sempre pervicacemente linguistico e metalinguistico.
E anche quando a Parigi sosterà a contemplare i famosi arazzi
rinascimentali della Dame à la Licorne
(la dama che, alludendo ai sensi tentatori, ispirandosi al mitico unicorno,
indica le vie della virtù, della purezza, della religione) anche allora Gravina
terrà ben desti i suoi cinque o sette o infiniti sensi e rivendicherà il
diritto delle donne d’oggi alla cultura del corpo, alla libera sessualità,
anche alla spiritualità in una visione olistica di corpo-anima, di uomo/donna e
natura), visione consentanea alle filosofie orientali.
Siamo al secondo libro della trilogia e cito da pag. 11 “Cosicché pieni i cinque o sette o /
infiniti ( i sensi dico) avessi a
vivermi a sfinito tempo e luogo di / natura intatta, li avessi dunque pieni,
nonostante.” Nonostante che cosa? Il verso talora si tronca bruscamente talaltra si inarca
nell’enjambement, la sintassi si fa spesso trasgressiva a tradurre il magma
emozionale, dove i luoghi dell’anima svariano da Granada a Milano, da Roma a
Parigi, per tornare al paese dell’infanzia (vedi Nostos) al punto più profondo
del suo viaggio interiore, al suo selbst.
Aleggia un senso di vanitas vanitatum, di eros e thanatos, di
desiderio d’oltranza (e il mio oltre è
più oltre).
Ma passiamo al terzo e ultimo libro che, almeno per il
momento, sembra completare l’itinerarium mentis di Luciana Gravina.
I quattro versi riportati in quarta di copertina possono
compendiare significanti e significati di queste non facili pagine “Quivi l’io mio mi riconduce e a mano mi /
draga, per questo giro morbido a spirale, se di rame, se di / cuivre e, volendo
anche di ottone e d’argento. Cosicché, trovatala / ad hora quasi tarda mi
passiona.”
Senza l’aiuto dell’eccellente prefazione del prof. Rino
Malinconico non avrei mai indovinato che la spirale, disegnata anche in
copertina, non è una pura astrazione, bensì un concreto gioiello fabbricato
dalla nostra amica, donna di multiforme ingegno.
La spirale, comunque sia, di rame o di altri più o meno
nobili metalli, ci appare ora come
simbolo (o allegoria?) del viaggio di ricerca sempre aperto che appassiona (o
fa patire?) l’autrice per quanto l’ora sia quasi tarda (e anche qui il senso è
duplice, anceps).
Dopo questa aulica ouverture, nell’aura della parola e del
suono due poemetti astrattamente connessi tra loro, Percezioni e Punti,
ripercorrono la laboriosa quête esistenziale e letteraria della poetessa “guadare l’avventura rimanente anche se a norma, il faut /
ricondurre ogni clamore e morirlo questo elan / bergsoniano (se appena è
possibile) ricompattarlo il caos / e vivìrlo.”
La scrittura presenta gli artifici retorici già notati nelle
opere precedenti: molte citazioni, molte proposizioni parentetiche, neologismi
(tratti dai linguaggi tecnici), latinismi, arcaismi, soprattutto francesismi,
forme verbali anomale; ma, nonostante la ridondanza di questi elementi, il
ritmo del verso non risulta appesantito, al contrario è trascinante (“come un buon jazz freddo, scrive
Malinconico, quando i fiati prolungano in
un lungo volo lo strazio infinito della solitudine.”)
Nel primo componimento predomina
il rimpianto di un esprit de finesse misto a quello di geometrie, di una
bellezza, di un tutto, di un’essenza e pienezza raggiungibili soltanto con
l’ascolto di un concerto, del mozartiano n. 21, grazie a un fascio di
sensazioni corporee che si tramutano in più nitide percezioni: conoscenza di sé
e degli altri, fratellanza, tolleranza.
Al modo ottativo (ma
dell’impossibilità “avessi spersuaso …
avessi auscultato”) fa seguito il modo indicativo assertivo lapidario
addirittura monosillabico “Io so ora di
un qui ed ora……..Io ora so. E mi resetto quotidie in abitudine di vita / nova
direi, anche per direzione che armonica e aperta mi / convoglia di visione per hic et nunc.
Ora e qui.”
L’intenzione è espressa in tono
molto deciso. Nonostante i dolori, i rimpianti, i rimorsi, Luciana risalirà
gradino per gradino le spirale della vita passando attraverso i ventuno punti
previsti dalla teoria della Crescita Personale e della psicologia occidentale o
i sette del Chakra cioè della ruota che nella tradizione induista o buddista
collega i centri di forza vitali del nostro corpo, punti attraverso i quali
dovrebbe risalire Kundalini l’energia
cosmica.
Siamo in pieno sincretismo. Il
petto la mente la rotula dei ginocchi, le vertebre del collo, la spalla
sinistra, il tallone …, non manca in questa elencazione una sottile venatura di
ironia (che mi ricorda il Gaio corpo del poeta medico filosofo Armando Patti).
L’ottativo ormai volge alla
possibilità desiderante (pag.22: “
potessi spalmare / questo tremore illuminato, limitarlo dunque / questo
presente per l’infinito che ne viene e vivìrlo di chiara compiutezza e ancora
mi piacerebbe cambiare / strada prossima allo sbaglio senza lunghe cogitazioni
/ invertire la rotta bypassando il prepensiero, corcare / l’attimo afferrato
benché fuggente e vivìrlo di fresco questo /smottamento del cosiddetto amore
perché / impensato, improgettato. Mi piacerebbe.”)